Omelia – XXXII Giornata Mondiale del Malato

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Omelia – XXXII Giornata Mondiale del Malato

Audio dell’omelia per la Santa Messa nella XXXII Giornata Mondiale del Malato.
Basilica Santuario Madonna della Guardia di Tortona

 

Gesù incontra un lebbroso: di questo ci parla la pagina del Vangelo e noi, oggi, in questo lebbroso desideriamo vedere e contemplare il volto e la vita di ogni persona malata, di ogni persona sofferente nel fisico, di ogni persona che vive l’esperienza del dolore. Non vogliamo, però, semplicemente contemplare nel lebbroso del Vangelo il volto dei nostri malati; vogliamo che questa contemplazione ci porti a un movimento nuovo del cuore, a un sentire diverso del cuore, a una compassione più grande, a una preghiera più intensa, a un’operosità più generosa.

 

Gesù incontra il lebbroso, quel lebbroso che – abbiamo ascoltato nella prima lettura – andava in giro, proclamando ad alta voce: “Impuro, impuro!”, con l’ordine di rimanere da solo fuori dall’accampamento. Quest’anno il Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato fa riferimento proprio a questo. Il Messaggio, infatti, si intitola così: “Non è bene che l’uomo sia solo. Curare il malato curandone le relazioni”.

Il lebbroso era un uomo costretto a vivere da solo, lontano dagli altri, in qualche modo anche lontano da Dio, perché gli era impossibile avvicinare il tempio, i sacerdoti; e, alla fine, dunque, anche lontano da se stesso, perdendo la propria identità, la pace del cuore, il senso della vita.

Riflettiamo su quante volte anche noi siamo stati la causa di questa solitudine. Quando i nostri malati si sono ritrovati nella condizione di non poter coltivare la loro relazione con il Signore, quante volte i nostri malati si sono ritrovati nella durezza di sentirsi soli, perché abbandonati dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle, quante volte i nostri malati si sono ritrovati nel dramma interiore di non capire più il significato e il senso della loro vita.

 

Oggi per noi, quel lebbroso di cui sentiamo il grido – “Impuro, impuro!” – ritrovandolo, da solo, fuori dell’accampamento, è un richiamo grande a un esame di coscienza che ci chiama a far luce sulla nostra vita e a cambiare anche direzione della nostra vita. Perché non è bene che l’uomo sia solo, e la malattia si cura curando le relazioni di ogni malato, perché ogni malato possa avere la gioia di una relazione viva con il Signore, perché ogni malato possa avere la gioia di una relazione vera con i fratelli e con le sorelle, perché ogni malato possa trovare, nonostante l’esperienza dura della malattia, sé stesso, la pace, il senso autentico della vita e del pellegrinaggio terreno.

 

Oggi siamo qui, anzitutto per questo, perché a partire dall’incontro con il Signore e dall’incrocio di sguardi, del nostro con la Madonna, ripartiamo con il desiderio vero, vivo nel cuore che nessuno sia solo, che nessun malato sia solo, che la nostra cura per i malati sia un coltivarne le relazioni, così che sia una rete di relazioni viva, che dà vita, che dà consolazione, che dà gioia, che dà speranza.

C’è anche un altro motivo per cui siamo qui. Perché, in realtà, quel lebbroso di cui ci parla la Scrittura è anche un simbolo di un’altra lebbra, ovvero di un’altra malattia: la malattia del cuore, potremmo dire l’impurità del cuore. E, allora, oggi siamo qui per ricordare che malati lo siamo tutti, perché se non siamo malati nel fisico, non portiamo nella nostra carne i segni del dolore fisico, tutti noi portiamo i segni della ferita del peccato, i segni del dolore che provoca il male, i segni di quel dramma che è il cuore impuro.

E, allora, vogliamo domandarci alcune cose, o meglio, sostare un momento su alcune impurità del cuore che rendono la vita sofferente, triste, appesantita, smarrita, e, dunque, profondamente malata.

 

C’è una prima impurità del cuore che ci ha ricordato, indirettamente, l’apostolo Paolo scrivendo: “Fatevi miei imitatori”. Imitatori in che cosa? Imitatori nella fede. Qual è, allora, un’impurità del cuore che ci rende malati? È quell’impurità per la quale infanghiamo il volto stupendamente bello di Dio, perché non lo guardiamo e non lo contempliamo come un volto innamorato della nostra vita, non lo contempliamo e non lo trattiamo come l’amore infinito ed eterno, che ci porta ogni giorno sul palmo della mano ed è tutto per noi. Infanghiamo quel volto per tanti motivi, immaginando che non sia un volto splendente di amore, ma un volto che si dimentica di noi, che ci ostacola nel cammino dell’esistenza. Paolo, uomo di fede, poteva dire: “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, ovvero “tutto concorre al bene nella mia vit;, per quale motivo? Perché Dio mi ama e ne sono certo, ho fede in questo. E, allora, non importa che tutto vada bene, non importa se affronto degli ostacoli, non importa se sperimento il dolore, non importa se, a volte, non capisco e non vedo il significato di ciò che mi accade. Non importa! Perché so che tutto è segnato dall’amore infinito di Dio”.

Il nostro cuore è impuro perché questo, tante volte, non lo crede, non lo sa dire e non lo sa vivere, infangando, dunque, la realtà più intima di Dio, che è tutto amore tutto per noi. E questo ci rende malati, perché chi non crede in modo cristallino all’amore di Dio è malato nel cuore, è triste, è smarrito, la sua vita non ha un senso compiuto, non sa dove sta andando, non sa rispondere ai grandi interrogativi dell’esistenza. Tutti noi, forse, possiamo dire che, vagando per le nostre città, come l’uomo della Scrittura, diciamo – non perché lo sappiano gli altri, ma perché lo sappiamo noi –: “Impuro, impuro. Sono impuro perché non riconosco il volto bello di Dio, perché la mia fede non è cristallina, perché non credo fino in fondo e con tutte le fibre del mio essere che Dio mi ama sul serio e la vita ha un senso ed è bella, davvero, perché Lui mi ama realmente”.

 

C’è anche una seconda impurità del cuore, ed è quella che ci suggerisce il passaggio conclusivo della pagina del Vangelo. Gesù, una volta che ha ridato la salute al lebbroso malato, gli impone qualcosa, gli dice: «Bada bene! Non andare a dirlo in giro! Vai, semplicemente, in silenzio, discretamente, dal sacerdote, ma non dirlo in giro!».

Il lebbroso, invece, non ne ascolta la raccomandazione e comincia a dirlo a tutti. Che cosa accade? Che Gesù, che voleva rimanere in quella città, anzi visitare le altre città, per portare anche altrove la bellezza della parola di Dio e la salvezza, non può andarvi. Quella disobbedienza, quel non ascolto della parola di Gesù ha impedito un propagarsi della salvezza donata in Gesù. E, allora, qual è l’impurità del cuore che scopriamo in questo passaggio del Vangelo? È quell’impurità per la quale noi trattiamo la parola di Dio come una qualunque parola umana, fino ad avere il coraggio di dare più peso a parole umane sterili, a volte false, spesso inutili e, comunque, sempre passeggere, rispetto alla parola di Dio.

Diamo peso alla parola degli altri, peso alla parola di un giornale, peso alla parola della televisione, peso alla parola dei social. E la parola di Dio? La trattiamo come una parola sulla quale possiamo passare superficialmente, senza ascoltarla con attenzione, non solo come se fosse parola come le altre, ma come parola da meno delle altre. Ed è per questo che la vita è oscura, perché ci viene a mancare quella parola che è luce del cammino dell’esistenza, ci viene a mancare quella parola che riscalda il cuore, ci viene a mancare quella parola che è lampada autentica per i passi che siamo chiamati a compiere. E, dunque, siamo malati, malati di oscurità, malati di tenebra, malati di incapacità di capire, malati perché non sappiamo dove andare, malati perché quella parola l’abbiamo bistrattata, quella parola non l’abbiamo ascoltata, quella parola l’abbiamo stracciata, quella parola ci ha trovato superficiali, quella parola non è scesa nel cuore e non è diventata orientamento vero dell’intelligenza, della vita, dei passi del nostro cammino.

 

C’è una terza impurità del cuore, ed è quella che più letteralmente è impurità, perché ci porta a coltivare pensieri impuri, affetti impuri e disordinati, fantasie impure e disordinate. Quanti richiami oggi, nella cultura nella quale siamo immersi, all’impurità, che passando dallo sguardo si imprimono nella mente, nel pensiero, nella fantasia, nella volontà. Dobbiamo ammetterlo, siamo impuri!

Un’impurità che riguarda anche, da questo punto di vista, il cuore. Quanti amori traditi, quanti amori vissuti male, quanti amori vissuti non nel dono e nel riconoscere la bellezza dell’altro, ma nel possesso, nell’utilitarismo, nel considerare l’altro come strumento del mio piacere o semplicemente oggetto di possesso. Quante impurità nel cuore! E quante impurità nel corpo, perché ci sono anche queste – lo sappiamo bene – nascoste e non nascoste, impurità che ci portano a deturpare la bellezza della castità e della purezza della vita. Tante volte e in diversi modi, siamo malati, perché questa impurità, che riguarda il sesto comandamento, è un’impurità che ci rende malati, offusca il cuore, offusca lo sguardo, offusca i desideri, offusca ciò che ci sta dentro e ciò che sta fuori, ci intristisce ed è causa di tanti tormenti irrisolti nella vita di tanto tra noi.

 

Noi siamo qui, oggi, per riconoscere che la malattia non è soltanto qualcosa che riguarda la salute fisica, ma è qualcosa che riguarda anche l’anima e il cuore; e in modo ancora più significativo e importante. Siamo qui, soprattutto, perché vogliamo essere guariti. Come il malato, in assenza di salute, vuole essere guarito e dice al Signore: “Se tu vuoi, puoi guarirmi!”, con altrettanta e ancora più grande desiderio, oggi diciamo al Signore: “Se tu vuoi, puoi guarirmi!”, guarire noi che siamo malati nell’anima e nel cuore. “Se tu vuoi, puoi sanarmi!”, guarire noi che siamo malati nell’anima e nel cuore a fronte dell’impurità del cuore e della vita che ci caratterizza. “Se vuoi, puoi guarirmi! Guariscimi, perché ne ho bisogno, perché senza di Te la mia vita è impura, malata e, dunque, triste e angosciata”.

Abbiamo ripetuto con il ritornello del Salmo “Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia”: che non sia soltanto una parola ascoltata e detta senza consapevolezza, ma sia un’affermazione di fede, della nostra fede. “Tu sei il mio rifugio nelle malattie della vita, fisiche, spirituali e morali. Mi liberi dall’angoscia, da quell’angoscia che è causata non solo dalle malattie fisiche, ma anche e soprattutto dalle malattie del cuore, dalle impurità del cuore”.

Allora, questa sia la preghiera che ci accomuna tutti, malati nel corpo e malati nell’anima, oggi, e sia una preghiera vera, sentita, desiderata: “Se tu vuoi, puoi guarirmi!”. Potessimo sentirci dire dal Signore: “Sì, lo voglio, sii guarito, sii risanato!”. Potessimo sentirlo oggi! La nostra preghiera sia ripetere quelle parole benedette e splendide: “Tu sei il mio rifugio, tu mi liberi dall’angoscia”.