Tortona, Cattedrale.
Quest’oggi, all’ora di pranzo, facevo una passeggiata per le vie della nostra bella città di Tortona. Ho incrociato diverse persone con le quali ci siamo salutati, ma una signora, in modo particolare, nel momento in cui ci siamo incrociati, mi ha salutato così: «Sia lodato Gesù Cristo». Io le ho risposto: «Sempre sia lodato». È un bel saluto che, da antica consuetudine, caratterizza l’incontro tra coloro che hanno la fede. Questa sera noi vogliamo provare a salutarci in altro modo. Sapete che la Lettera Pastorale di quest’anno porta il titolo In Gesù Cristo è ogni nostra speranza. Questa sera, dunque, vogliamo salutarci con queste parole, dicendo: «In Gesù Cristo è ogni nostra speranza». Proviamo? Io dico la prima parte e voi la seconda: «In Gesù Cristo… è ogni nostra speranza».
Che questo possa diventare un modo abituale di salutarci tra noi, in questo tempo giubilare, perché – come sapete – il Santo Padre ha voluto che l’anno del Giubileo avesse come tema centrale proprio quello della speranza: “Pellegrini di speranza.”
Ci domandiamo ora: qual è il fondamento della nostra speranza?
Abbiamo ascoltato una splendida pagina di san Giovanni nella quale egli scrive così: “Carissimi, quale grande amore ci ha dato il Padre, per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!… Carissimi… ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. C’è un particolare in queste parole di san Giovanni, perché, dopo aver sottolineato che siamo figli di Dio per dono, aggiunge con un punto esclamativo: “e lo siamo realmente!”. Non sono parole che scrive con superficialità. Sono parole che, scrivendole, suscitano in lui una profonda emozione, uno straordinario stupore, che non può non essere anche il nostro, sempre e particolarmente oggi: perché siamo figli di Dio e lo siamo realmente! Quando ascoltiamo queste parole che definiscono la nostra identità – siamo figli, figli di un padre che ci ama, figli di un padre che ci porta nel cuore, figli di un padre che trova in noi la passione del suo cuore – non possiamo rimanere imperturbabili e distratti. Non possiamo che rimanere, invece, meravigliati, stupiti, emozionati, contenti, entusiasti. Siamo figli di Dio! E lo siamo realmente! È questo il fondamento della nostra speranza.
Nei giorni che precedono il Natale, nei giorni cioè della Novena, quando si cantano le Profezie, si contano anche le cosiddette antifone “O”. Sono chiamate così perché iniziano tutte con una “O”; quando le si canta, soprattutto in gregoriano, queste “O” sono sottolineate in un modo particolare. Perché? Perché esprimono la meraviglia e lo stupore di fronte al mistero del Natale. Certo, è lo stupore di fronte al Dio che si fa bambino. Ma in quel bambino, noi vediamo l’identità di ciascuno di noi, perché ciascuno di noi in Gesù, Bambino e Figlio, si ritrova bambino e figlio nei confronti di un Dio che gli è padre. Allora quell’“O” di esclamazione è l’“O” del nostro stupore, è l’“O” della nostra meraviglia, a motivo del fatto che in Gesù siamo figli amati, amati appassionatamente da Dio che ci è padre.
Ho già avuto modo di ricordare, in alcune occasioni natalizie, che il tempo appena trascorso è stato per me un tempo particolare, anche perché ho avuto la grazia di una piccola nipotina che, tra l’altro, in questi giorni ho potuto prendere tra le mie braccia, dandole anche il biberon. E pensavo non soltanto al grande mistero di Dio che si è fatto bambino così – che dovrebbe farci tremare di stupore e di gioia – ma pensavo anche che Dio mi accudisce così, così e molto di più; con il suo amore eterno, infinito egli accudisce me che sono il suo bambino. Accudisce me che sono il suo figlio. Accudisce me con quell’amore che soltanto Dio è capace di trasmettere e comunicare proprio a me che sono suo, gli appartengo e sono l’oggetto di ogni sua attenzione. E questo ci riguarda tutti. Noi siamo quei bambini nelle braccia di un Dio che ci ama così, siamo figli di Dio. E lo siamo realmente! Noi, questa sera, le parole di Giovanni dovremmo ripeterle senza stancarci, facendole diventare come un ritornello di stupore, di meraviglia e di gioia: “Io sono figlio di Dio, e lo sono realmente! Grazie Gesù, sono figlio di Dio e lo sono realmente, perché sono una cosa sola con te”. E allora lo capiamo perché in Gesù Cristo è ogni nostra speranza? Perché è Gesù Cristo, la nostra speranza, perché grazie a Lui, per Lui, in Lui e con Lui, io, noi siamo dei bambini amati, dei figli accuditi, dei piccoli per i quali il cuore di Dio batte, in modo accelerato, andando fuori di giri, tanto grande è il suo amore per noi. Ecco il fondamento della nostra speranza che questa sera desideriamo ricordare. E desideriamo che questo ricordo ci accompagni in ogni tempo della vita e, particolarmente, durante quest’anno giubilare.
Ci domandiamo ancora: qual è l’alimento per questa nostra speranza? In che modo possiamo alimentare la convinzione di fede e l’esperienza nella fede che siamo figli di Dio e lo siamo realmente in Gesù?
Nella pagina del Vangelo abbiamo ascoltato tre espressioni particolarmente belle che riguardano ciò che Giuseppe e Maria hanno vissuto nel tempio a Gerusalemme, a motivo della scomparsa di Gesù. Si dice, prima, “che si misero a cercarlo”, poi che “quando lo videro rimasero stupiti” e, infine, a proposito di Maria, che “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. In queste tre espressioni ci sono tre verbi: cercare, vedere, custodire. Non dimentichiamoli! Sono i tre verbi della preghiera, perché pregare è cercare il Signore; pregare è vederlo, incontrarlo, accoglierlo; pregare è custodire nel proprio cuore quello che Egli sussurra, attraverso la sua parola e la sua presenza.
È la preghiera, dunque, il primo alimento della nostra speranza, perché più preghiamo e più avvertiamo di essere figli di Dio, più preghiamo e più gustiamo la bellezza di essere piccoli nel suo abbraccio di amore. Più preghiamo e più tocchiamo con mano quanto sia vero che il Signore è tutto per noi. E, allora, che quest’anno sia un anno di grande e vera preghiera; ma non semplicemente di preghiere, di tante preghiere, ma di vera e grande preghiera, cioè di una vita che, realmente, avverte di dipendere, nell’amore, da un Dio che trova la gioia in noi, che ama appassionatamente ciascuno di noi. Sia la preghiera come l’acqua per il pesce di mare, che non può farne a meno, perché è il suo habitat naturale. Sia questa la preghiera di quest’anno: cercare, vedere, custodire, perché davvero la preghiera alimenti la nostra speranza.
E, poi, alimentiamo la nostra speranza con l’esperienza della misericordia di Dio. Non finiremo mai abbastanza di sottolineare quanta grazia ci sia nel sacramento della riconciliazione. Lì, in un modo unico, tocchiamo con mano quanto il Signore ci voglia bene, quanto il Signore ci ami; qualunque cosa abbiamo fatto, per tanto grande sia il nostro peccato, nel momento in cui ricorriamo a Lui con il cuore pentito, tutto è sempre perdonato. Quel male, quel peccato che, capiamo da soli, non possiamo estirpare dalla nostra vita; quella pianta maligna che rende tristi, pesanti, faticose le nostre giornate, che è la ragione vera di ogni autentica nostra tristezza e smarrimento, a cui tante volte diamo altri nomi… Quel peccato e quel male Lui sempre è pronto a perdonarlo, è sempre pronto a usare misericordia, è sempre pronto a ridarci quell’abbraccio di amore che ricostruisce una vita ferita o morta per il male che l’ha colpita. Ma non è un dono straordinario potersi accostare a questo sacramento?
E, allora, la confessione sia quel dono che alimenta di più la nostra speranza, perché ci fa toccare con mano, ancora una volta, quanto il Signore sia dalla nostra parte e, davvero, ci ami con tutto se stesso, con tutto il suo cuore.
Nell’esperienza della misericordia avremo anche la grazia dell’indulgenza. Che cosa è l’indulgenza? Papa Giovanni Paolo I, quando ancora era vescovo, parlando a un bambino che gli poneva la domanda circa l’indulgenza, rispondeva così: «Vedi, quando tu metti un chiodo nel muro, poi quel chiodo lo puoi togliere. Pensa, la confessione è un chiodo tolto dal muro, perché è un peccato tolto dal cuore; però, come nel muro rimane un buco, come nel muro la calce rimane rovinata, così è il tuo cuore, così è la tua vita dopo il peccato, anche se perdonato. E allora, come per riparare il muro hai bisogno di un altro intervento di restauro, così per riparare ciò che il male ti ha fatto, hai bisogno anche della grazia dell’indulgenza, che rimette in ordine, in modo completo, la tua vita deturpata dal peccato e dal male».
La grazia dell’indulgenza è una cosa seria, e anche in essa sperimentiamo la grandezza della misericordia di Dio e la bellezza del nostro essere figli amati, coccolati e abbracciati.
Preghiera, confessione, indulgenza siano il modo quotidiano attraverso il quale fare memoria che siamo figli di Dio, e lo siamo realmente! Che siamo figli amati, e lo siamo realmente! Che Dio in Gesù ci è Padre, e lo è realmente! Soprattutto nel tempo del Giubileo.
Se la speranza ha il fondamento e ha l’alimento, la speranza ha, anche, da essere testimoniata.
Eugenio Montale, un poeta moderno, contemporaneo, della mia terra, la Liguria, in una poesia, apre il suo cuore e affida i sentimenti che lo abitano a queste parole: “E ora che ne è del mio viaggio? Tanto l’ho studiato accuratamente, senza saperne nulla. Un imprevisto è l’unica speranza”. Quando Montale scrive queste parole, certamente parla di sé, ma parla anche di un tempo, parla anche di un’epoca, parla anche di una cultura, parla anche di un popolo che sono i nostri. Perché questo tempo, quest’epoca, questa cultura, questo popolo, spesso, si ritrova e vive queste parole: “E ora che ne è di questo mio viaggio? L’ho tanto accuratamente studiato, senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza”.
Questo nostro mondo, questa nostra terra, questa nostra gente, queste nostre città attendono, sapendolo, – spesso senza saperlo – un imprevisto che riempia di speranza, quella speranza che non c’è nel cuore di tanti. E l’imprevisto chi è? È Gesù, il Figlio di Dio, che rivela il nostro essere figli amati e, dunque, ridona speranza.
Noi siamo chiamati, in questo tempo giubilare, a ridare speranza, a portare speranza, ad accendere speranza con le nostre parole, con le nostre vite, con i nostri gesti di figli di Dio, che, proprio perché amati, sanno introdurre semi i di speranza lì dove viviamo, con la nostra carità, con il nostro amore, con il nostro modo di affrontare la vita, con la nostra prossimità, con la bellezza del nostro vivere quotidiano in Gesù. Qualcuno ha detto che “il cristiano è un professionista della speranza”. Sì! Siamolo “professionisti della speranza”, perché vivendola, a motivo dell’esperienza dell’amore di Dio che ci è Padre, la portiamo con noi dovunque: dove viviamo, per le strade che attraversiamo, per le piazze in cui sostiamo, nei negozi in cui entriamo, nei luoghi di lavoro in cui passiamo le nostre giornate, nelle famiglie che sono i nostri focolari. Portiamola, ovunque, perché portiamo Lui, Gesù Cristo, in cui è ogni nostra speranza.
E, allora, ripetiamolo ancora una volta. Sia il nostro saluto qui, questa sera; sia il nostro saluto per le vie delle nostre strade; sia il nostro saluto che portiamo nel segreto del cuore, ma che vogliamo anche donare a tutti, nessuno escluso: «In Gesù Cristo è ogni nostra speranza! In Gesù Cristo è ogni nostra speranza! In Gesù Cristo è ogni nostra speranza!»
Buon anno giubilare a tutti e dal profondo del cuore!
Trascrizione da registrazione audio