Sbobinatura dell’ Incontro di Mons. Guido Marini con un gruppo di seminaristi
La tematica che trattiamo, ‘liturgia ed escatologia”, l’affrontiamo quale conversazione e non come una lezione scolastica.
Vorrei semplicemente introdurre, con alcune riflessioni e presentando alcuni aspetti che mi sembrano importanti mettendo in relazione liturgia ed escatologia, cioè celebrazione liturgica e cose ultime (traduzione semplificata del termine escatologia).
Per definire il rapporto tra liturgia ed escatologia, mi pare sia importante considerare tre aspetti:
1. LITURGIA: OPERA DI CRISTO
La Sacrosantum Concilium scrive: “la liturgia è la celebrazione dell’opera della salvezza”. Questo significa che il grande protagonista dell’atto liturgico è il Risorto. Se non ci fosse il Risorto, se non ci fosse Gesù Risorto, non ci sarebbe liturgia. La liturgia è l’insieme degli atti che Gesù risorto, oggi, compie nella Chiesa, rinnovando l’opera della salvezza, rendendola attuale per noi, in ogni tempo della storia. Perché questo è importante in relazione al rapporto liturgia-escatologia?
Là dove c’è la realtà della Risurrezione, là dove c’è Gesù Risorto e vivo, il Vivente, lì è già escatologia. Noi siamo nell’escaton, perché siamo dentro la realtà della risurrezione, siamo in relazione con Cristo risorto. E allora la liturgia che è il luogo, diciamo così, privilegiato e più alto per l’incontro con Cristo risorto, è il luogo escatologico per eccellenza nella vita della Chiesa.
Allora dobbiamo rileggere sotto questa angolatura, alcuni aspetti celebrativi, che non sempre forse consideriamo in questa prospettiva. Mi riferisco ad esempio, alla grande processione di ingresso. Che cosa significa questo incedere processionale del celebrante, dei celebranti, nell’assemblea liturgica? E’ l’ingresso di Cristo risorto in mezzo ai suoi. Pensiamo al Vangelo di Pasqua: Gesù che entra e saluta i suoi. La processione d’ingresso in un rito liturgico è esattamente questo. Essa è nel rito, il riproporsi dell’ingresso del Risorto in mezzo ai suoi. Nel cenacolo, o nel luogo in cui essi si trovano, entra il Risorto.
Pensiamo poi alla liturgia della Parola, quando tutti ci orientiamo verso l’ambone. Lì è il Risorto che porge a noi la Sua Parola, ora, e che per ritornare a quella pagina evangelica, ci ripropone quell’esperienza. Gesù si rivolge ai suoi e parla loro facendo comprendere le Scritture, cioè scaldando il cuore, rendendolo capace di capire, comprendere, il progetto di Dio. E’ di nuovo Gesù risorto che parla e che comunica ai suoi la parola di salvezza e di vita.
Ci orientiamo poi tutti verso l’altare, dove Gesù Risorto si rende presente con i segni della Sua Passione, cioè del Suo amore senza misura per noi. E anche qui ritorniamo alla pagina evangelica. Cosa fa Gesù quando si presenta ai Suoi? Presenta i segni delle ferite, i segni dei chiodi, cioè i segni della Sua passione, della Sua donazione di amore, del Suo darsi senza riserve per noi. Anche qui è Gesù risorto che si mostra a noi: il Crocifisso vivo, che per sempre rimane come colui che dona la vita per noi.
Pensiamo anche alla conclusione, quando di nuovo usciamo e usciamo ormai col Risorto che è con noi per andare a testimoniarlo nel mondo. E’ l’ultimo elemento della pagina evangelica: “mi sarete testimoni”; “siate miei testimoni”.
Allora il Risorto riempie di Sé ogni momento dell’atto liturgico, perché è Lui il protagonista di tutto quello che accade. Lui è l’artefice! Noi, lì nella liturgia, viviamo questa relazione privilegiata col Risorto; dunque ci immergiamo in un’esperienza escatologica. Ecco questo rapporto ‘liturgia ed escatologia’, che considera la liturgia opera della salvezza; la liturgia come atto di Cristo Risorto nella Sua Chiesa.
Quando gli artisti antichi progettavano le basiliche e nel grande abside che sovrastava la zona presbiterale dell’altare, raffiguravano il Cristo Pantocratore, volevano lasciare questo messaggio a coloro che entravano nel Tempio di Dio per partecipare al Sacro Rito: Cristo Risorto è presente, riempie di Sé questo ambiente ed è protagonista di quello che tra poco sarà vissuto nella liturgia.
L’ingresso nell’ambiente nel quale si vive l’atto liturgico è l’ingresso in un ambiente escatologico: l’entrata nell’ambiente ricolmato della presenza del Risorto. Questo mi pare sia un punto importante, proprio per definire il rapporto liturgia-escatologia. Questo rapporto va focalizzato e lo ritroviamo in Gesù Risorto, il Cristo Risorto, artefice, protagonista dell’azione liturgica.
Tutto quanto andiamo dicendo ha una conseguenza, soprattutto per chi è chiamato a presiedere. L’Ars celebrandi, quindi l’arte di celebrare, il celebrare bene, significa fare in modo che ogni momento del rito e l’atto liturgico in generale siano un’esperienza escatologica, cioè realizzino davvero un incontro del popolo con il Suo Signore che è risorto. Se la nostra celebrazione, le nostre celebrazioni, non arrivano a questo, cioè ad essere un incontro col Risorto; se non sono un rivivere l’esperienza degli apostoli nel cenacolo che vedono arrivare Gesù vivo, lo ascoltano parlare e il cuore si scalda, lo vedono nel Suo essere sacrificato per amore e per noi, e non lo portano con sé nel mondo, la celebrazione non ha una valenza escatologica e non è quello che deve essere; non raggiunge l’obbiettivo prefissato.
Questo mi sembra un primo elemento che ci aiuta ad evitare una deriva, un errore, e anche un cattivo servizio che a volte possiamo rendere alla nostra gente: quello di pensare che i protagonisti siamo noi. Noi non siamo affatto protagonisti, o lo siamo nella misura in cui facciamo in modo che emerga l’unico vero grande Protagonista, il primo, che è il Signore risorto. Ogni qual volta noi che celebriamo, o coloro che svolgono un servizio, o comunque tutti coloro che sono riuniti in assemblea, in qualche modo dovessero mettere in ombra questa presenza di Gesù risorto, questo protagonismo di Gesù risorto, lì non ci sarebbe la liturgia autentica. Lì non saremmo in quello che la Chiesa vuole, in quello che il Signore ci ha lasciato. Tutti siamo al servizio quando viviamo la liturgia: al servizio di questa presenza del Risorto e quindi di questa dimensione escatologica del rito.
2. LITURGIA: OPERA DELLA CHIESA
La Sacrosantum Concilium e altri documenti della Chiesa sul tema, dice che liturgia è certo opera di Cristo, ma è anche opera della Chiesa. E quando sottolineano questa dimensione dell’opera della Chiesa, ne parlano sempre non soltanto come della Chiesa in quanto questa comunità che si raduna per celebrare i misteri, ma della Chiesa in quanto tutta la Chiesa. Questo significa certo la comunità visibile, ma nel suo inserimento comunionale con la Chiesa intera, la Chiesa universale e soprattutto la Chiesa del Paradiso. E non è per nulla difficile rilevare questo aspetto all’interno di una celebrazione. Se noi consideriamo con attenzione i testi su cui preghiamo e che preghiamo, ci accorgiamo che è un continuo andare dalla realtà terrena della Chiesa alla realtà celeste della Chiesa; dalla dimensione pellegrinante della Chiesa alla dimensione contemplativa, nel Paradiso. Di questo ci parlano la presenza degli angeli, la presenza dei santi, la presenza della Madonna. Tutto quello che è Paradiso dice questa comunione vitale della Chiesa pellegrina con la Chiesa che è già arrivata alla meta e dunque ci parla di un’opera e di un’azione che è della Chiesa, ma non soltanto come Chiesa collocata qui, ma della Chiesa tutta, della Sua totalità. Ecco perché tante volte i documenti della Chiesa ribadiscono l’immagine della Gerusalemme celeste.
Voi sapete che l’Apocalisse, questo ultimo grande libro della Scrittura del Nuovo Testamento, che Giovanni scrive ormai avanti nell’età, in realtà è una grande liturgia, con i momenti propri che la contraddistinguono. Il grande esame di coscienza iniziale, che davvero costituisce come il rito di introduzione e poi a seguire gli altri aspetti che compongono un grande atto liturgico. E qui, in questo grande atto liturgico San Giovanni ci aiuta a comprendere cosa significa che la liturgia è atto della Chiesa come comunione tra Chiesa pellegrina e Chiesa celeste.
Si contempla un continuo andare e ritornare dalla Chiesa che cammina nel tempo e vive la persecuzione, la fatica, il dolore di stare dentro questo mondo e la contemplazione statica della Gerusalemme del Cielo, che comunica vitalmente con noi che camminiamo nel tempo.
Perché abbiamo ricordato questo aspetto dell’atto liturgico? Perché anche questo ci parla della dimensione escatologica della liturgia. Nella liturgia noi viviamo, in qualche modo, la comunione con le realtà eterne, con ciò che è già definitivo e che è in relazione col Cristo risorto. Perché la Chiesa del Paradiso insieme alla Chiesa pellegrinante è il corpo del Risorto.
Ecco il secondo aspetto del rapporto liturgia-escatologia, che ritroviamo qui, comprendiamo e vediamo che una celebrazione è un atto della Chiesa intera, nella sua totalità.
Anche qui ci sono alcune conseguenze sul piano celebrativo, che ci riguardano da vicino, per il presente e per il domani; perché una celebrazione deve riuscire a comunicare questa dimensione. Non vi può essere solo una dimensione orizzontale. Vi deve essere questa dimensione verticale, in cui si percepisce che lì dove noi siamo riuniti c’è qualcosa di più grande, di più alto, che si rende presente. C’è un “non ancora” che è “già” lì in qualche modo.
I padri antichi, spesso, usavano questa immagine in fondo per dirci la stessa verità, cioè: l’atto liturgico, la liturgia, è l’affacciarsi del cielo sulla terra. Che cosa volevano dire con questa immagine, che può apparire semplicemente suggestiva, ma poi magari priva di contenuto reale? No! E’ suggestiva ed è piena di contenuto reale. Perché è così!
Nell’atto liturgico cielo e terra si incontrano. In cielo c’è la Chiesa che è già arrivata e si incontra con questa Chiesa pellegrina, ancora affaticata in mezzo al mondo, e si vive questa comunione profonda, che poi in realtà è la Comunione dei Santi, nella sua dimensione più ampia, più bella e più completa.
3. LITURGIA: LUOGO DELL’ATTESA
Questo terzo aspetto che affrontiamo noi lo ritroviamo in tanti testi abituali e consueti. Come accade poi per tutte le cose abituali e consuete poco a poco perdono un po’ la loro capacità di catturare l’attenzione e di parlarci in modo persuasivo. Quando noi in particolare, prendo uno di questi testi, rispondiamo all’annuncio del celebrante: “Mistero della Fede”… noi lì facciamo una sintesi bellissima di ogni realtà sacramentale, perché diciamo: “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la Tua risurrezione nell’attesa della Tua venuta”. Qui siamo di fronte ad una sintesi sacramentale. Di fatti San Tommaso quando deve parlare di sacramenti, ne parla secondo queste tre prospettive, perché ogni sacramento è memoria, atto e già prospettiva futura. Ma qui noi ci soffermiamo sul terzo elemento: “nell’attesa”. La dimensione dell’attesa è una dimensione tipica della liturgia, ed è una dimensione che ritorna continuamente.
Pensiamo pure a quanto diciamo dopo la recita del Padre Nostro: “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. La liturgia è abitata da quel grido che chiude la storia biblica: “Maranatha!” – “Vieni, Signore Gesù!”.
Tutto l’atto liturgico è abitato da questo grido, da questa invocazione, da questo desiderio, perché vivere la liturgia è vivere in relazione col Risorto, è vivere in relazione con la Chiesa già arrivata alla meta, ed è anche un vivere l’attesa che si compia in modo definitivo quello che ora stiamo, in qualche modo, vivendo e pregustando.
Allora il concetto di pregustazione è un concetto tipicamente liturgico, perché è un concetto che mette in risalto lo sprigionare nel cuore del credente l’attesa: io ho pregustato e quindi desidero che si compia. Ho anticipato il gusto e non vedo l’ora che trovi compimento questo gusto. Ho intravisto e aspetto di vedere, a tu per tu, faccia a faccia.
Il rito liturgico deve mantenere desto in tutti noi questo senso della precarietà della nostra vita, del pellegrinaggio della vita e del compimento che aspettiamo dal profondo del cuore.
In forma semplice, perché le cose semplici hanno anche la capacità di aiutarci a capire, ad assimilare bene col cuore.
Vorrei raccontare una piccola storia:
C’era in una parrocchia un’anziana signora che frequentava abitualmente la Chiesa.
Era una signora molto devota e si recava in chiesa quasi ogni giorno. Partecipava alla messa, spesso si confessava e, sovente, le era anche caro intrattenersi un po’ col suo parroco, un po’ per discorrere così di cose varie, ma anche proprio per chiedere alcune cose sulla vita della fede, sul proprio cammino spirituale. E il parroco le voleva molto bene e le era affezionato.
Poi andando avanti gli anni, venne il momento anche per lei che in chiesa non riuscì più ad andare. Allora il parroco, che però sapeva quanto le stesse a cuore sia la comunione e la confessione, decise di visitarla periodicamente. Andandola a trovare le portava la comunione, ogni tanto la confessava e, come facevano in parrocchia, si intratteneva con lei a parlare, amabilmente. E ancora questa signora le chiedeva spesso un po’ di questioni sulla vita, sulla vita di grazia e di fede.
Passando il tempo la salute di questa signora si aggravò e venne un giorno nel quale, terminato il loro incontro, questa signora, rivolgendosi al suo parroco, ad un certo punto gli disse: “Senta, signor parroco, io capisco che ormai il Signore sta per venire a prendermi. Allora vorrei lasciarle alcune mie volontà, perché sa la fiducia che ho in lei. E le chiederei davvero con tutto il cuore che queste mie volontà vengano osservate quando sarà il momento”.
E il parroco disse: “Ma certo, signora, senz’altro. Lei mi dica! Lo sa, tutto quello che lei desidera io lo farò volentieri. Non abbia timore.” E allora cominciò ad esprimere queste sue volontà.
Terminato questo dialogo, fecero per salutarsi, poi mentre il parroco stava per congedarsi la signora fece: “Aspetti! Aspetti un attimo, perché ho dimenticato di dirle una cosa, che è la cosa più importante che mi stava a cuore; ma sa che la memoria un po’ mi vacilla, però se ha ancora un attimo…!”
“Sì, signora!”, disse il parroco, “Dica! Volentieri!”.
“Lei sa bene…c’è una cosa che proprio vorrei dirle…ed è questa: sa che quando si muore vengono le pompe funebri e poi si compone la salma, si mette nella bara…poi cominciano a venire le persone per rendere omaggio…per pregare…”
“Sì, sì, sì signora lo so!”, disse il parroco.
“Beh allora io vorrei questo: che lei fosse presente a questo momento e quando io sarò composta e vestita, prima che la gente cominci ad arrivare, lei…desidero che lei mi metta un cucchiaino in mano”.
Il parroco, lì per lì, rimase un po’ perplesso, però fece finta di niente e disse: “Sì, sì, signora, va bene! Io volentieri, se lei lo desidera, mi memorizzo bene questa sua volontà e quando sarà il momento farò quello che lei mi ha chiesto”.
Poi, allora, si congedarono e il parroco si diresse verso la porta, però tant’è che questa cosa del cucchiaino gli rodeva un po’ dentro.
Allora si volse e tornò indietro: “Signora, scusi se io non ho detto niente però, mi tolga la curiosità. Mi dica, ma perché vuole che le metta questo cucchiaino in mano?”.
Allora questa anziana signora disse: “Sì, sì ma certo! Scusi, anzi, che non le ho spiegato il motivo. Vede il motivo è questo: quando ero più giovane e mi capitava, a volte, in alcune circostanze, di essere invitata a pranzo o a cena, e a volta in pranzi e cene un pochino più significative e solenni, e mi facevano accomodare al mio posto, quando io mi mettevo lì al mio posto e guardavo quello che era stato preparato, a volte vedevo che col piatto, i bicchieri e le posate, c’era anche sopra un cucchiaino. Allora quando io vedevo questo cucchiaino, tra me pensavo: -oh, che bello! Oggi mi va bene, perché c’è il dolce. Quindi il meglio deve ancora venire!-. E vede allora, signor parroco, io vorrei che lei spiegasse alla gente che verrà lì vicino a me a pregare, che cos’è questo cucchiaino. Voglio che sia la testimonianza che io lascio a questi miei fratelli e sorelle e cioè: che il meglio deve ancora venire, perché non è qui!”
Ecco la liturgia deve farci sentire, dal profondo del cuore, che il meglio deve ancora venire! Perché già lo pregustiamo il meglio! Ne rimaniamo catturati, affascinati, conquistati e dunque dal cuore sorge questo grande grido: “Vieni, Signore Gesù!”. L’attesa! Ecco la dimensione escatologica della liturgia.
Quindi il Risorto, la Chiesa del Paradiso, l’attesa. Questi sono i tre elementi che ci aiutano a capire in quale senso la liturgia è escatologica.
Ed è chiaro che questo terzo aspetto, come gli altri due, ha delle ricadute sul piano celebrativo. Se coloro che partecipano ad una celebrazione non vanno via con il cuore che è scaldato da questa attesa, da una nostalgia per qualcosa che hanno vissuto, ma che non è ancora totalmente nostro, abbiamo fallito! Le nostre celebrazioni non sono quello che devono essere!
Questi i tre punti così importanti: l’incontro con Gesù risorto, che vedo dappertutto, ascolto ovunque, lo incontro nel rito; la Chiesa del Paradiso, con la quale sento di vivere in comunione e che mi parla di un cielo che si unisce alla terra in quel momento; l’attesa come anticipazione bella di qualcosa che davvero diventa la prospettiva del mio cammino.
Se sul piano celebrativo tutto questo non viene messo in evidenza, non lo viviamo e non lo partecipiamo, non abbiamo vissuto davvero bene, non abbiamo celebrato davvero bene! E per ritornare su una parola, che sappiamo tanto cara alla Sacrosantum Concilium e a tutta la riforma liturgica: non abbiamo davvero partecipato e fatto in modo che la nostra gente partecipasse.
Per concludere: mi piace sottolineare due parole, che non possiamo non avere a mente quando viviamo la liturgia, quando la prepariamo, quando la celebriamo, che poi fanno sintesi di questi tre aspetti, e sono la parola speranza e la parola bellezza.
La speranza, perché nella liturgia impariamo a sperare. Ed è per questo che la liturgia è escatologica, perché ci fa sperare della speranza teologale, quella autentica.
Noi forse, anzi senza forse, entriamo nell’incontro in liturgia, con il peso, le fatiche, i dolori e a volte i dubbi, a volte anche le oscurità che riguardano la vita. Noi dovremmo sempre poter tornare a sperare, grazie alla partecipazione all’atto liturgico, perché liturgia significa speranza, perché significa Gesù risorto, Chiesa del Paradiso, pregustazione di quello che sarà!
E l’altra parola è Bellezza. Qui non si parla della bellezza estetica, necessariamente, o di un tipo di bellezza. Si parla di quella bellezza che è propria del cuore di Dio e che deve risaltare in una comunità celebrante. Perché Cristo risorto è bello, non può non essere bello! La Chiesa del Paradiso è bella, non può non essere bella! La pregustazione porta in sé l’esperienza della bellezza, non può non esserci il bello!
Allora il bello è la bellezza di una comunità viva. Il bello è la bellezza di un’armonia. Il bello è la bellezza anche di quello che caratterizza ciò che riguarda il rito; ma certo noi abbiamo queste modalità poi esterne. Ed è la bellezza di un amore che si vive in quella comunità. E’ la bellezza del cuore di Dio e dell’amore di Dio che si riflette in ogni dettaglio del rito. Deve essere bella di questa bellezza la nostra liturgia. E qui sta di nuovo l’elemento escatologico.
Quindi quei tre aspetti e queste due parole, che ne sono in qualche modo, se vogliamo, anche la sintesi e la conseguenza: speranza e bellezza.
Ecco queste riflessioni per introdurci e dirvi alcune cose che forse possono esserci utili e aiutarci a vedere questo rapporto così bello e importante tra liturgia ed escatologia, perché certamente la liturgia la possiamo considerare sotto tanti aspetti diversi, ovviamente, però questo dell’escatologia, che non sempre poi è così magari sottolineato e approfondito, ha la capacità di fare anche una sintesi di ciò che la liturgia è nella sua realtà più profonda, più bella e più vera.