Meditazione
Bagnoregio, mattina
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L’annunciazione
Dal momento che siamo nel mese di settembre, che è un mese nel quale viviamo alcune belle ricorrenze mariane – la Natività, il Nome di Maria, l’Addolorata – ho pensato di dedicare, oggi, le due riflessioni proprio alla Madonna, facendo riferimento a due testi evangelici che certamente conosciamo molto bene, ma che penso ci possano ancora una volta aiutare ad accostare la Madonna e soprattutto, accostando la Madonna, a trovare alcuni elementi importanti per il nostro cammino di fede e la nostra vita spirituale.
Sono il brano dell’Annunciazione e il brano del Magnificat. Stamattina ci soffermiamo un momento sull’Annunciazione e oggi pomeriggio sul brano sul Magnificat. Inizieremo riascoltando questi brani evangelici, con un’avvertenza però, perché spesso può capitare, soprattutto a noi che siamo più abituati ad ascoltare il Vangelo, di avere un approccio un po’ superficiale dicendo: “Ma l’ho ascoltato tante volte, lo conosco, che cosa può avere da dirmi…” Invece penso che ogni volta che noi ascoltiamo la parola del Signore, dobbiamo disporci ad ascoltarla come fosse la prima volta, perché, ogni volta, c’è un dono di Grazia particolare che il Signore intende farci, qualcosa di nuovo che ogni volta il Signore vuole donarci. Mettiamoci in ascolto così: con quella curiosità d’amore di chi cerca la sintonia con il cuore di Dio e con ciò che questo cuore oggi vuole dire a ciascuno di noi.
Come voi sapete, quando partecipiamo alla Messa, nel momento in cui ci apprestiamo ad ascoltare il Vangelo, facciamo quel triplice gesto su di noi, ovvero ci segniamo con una piccola croce sulla mente, sulla bocca e sul cuore. Purtroppo capita che, facendolo sempre, questo gesto diventi un gesto automatico e incapace dire la realtà grande che significa. Fare il triplice gesto significa in quel momento affermare: Signore, questa parola che Tu adesso mi rivolgi, io desidero che entri nella mia intelligenza e diventi il mio nuovo criterio di pensiero; desidero che questa tua parola entri nella mia bocca e possa diventare il nuovo criterio del mio parlare; desidero che questa parola entri, penetri nel mio cuore, divenendo il nuovo criterio dell’amare, del vivere, dello scegliere, del comportarmi. Un criterio nuovo che entra dentro la vita, l’intelligenza, la parola, il cuore e rinnova completamente tutto. Oggi noi vogliamo disporci ad ascoltare il Signore che ci parla, dicendo: Signore io desidero mettermi in ascolto di te come fosse la prima volta, e che questa parola che tu mi rivolgerai e che custodirò nel cuore e che mediterò sia il criterio nuovo, il principio nuovo, la sorgente nuova della mia vita, della mia intelligenza, della mia parola, del mio cuore. E allora, con questo stato d’animo riascoltiamo il racconto evangelico dell’Annunciazione (Vangelo di san Luca 1, 26-38).
Nella nostra riflessione, meditazione, vogliamo procedere, un po’ come si fa nel modo classico, per punti, in modo tale che questa modalità possa esserci di aiuto, anche per memorizzare meglio ed avere l’opportunità di entrare dentro la realtà di questo brano con un certo ordine.
Veniamo al primo punto della nostra riflessione. Se osserviamo bene, la struttura del racconto dell’Annunciazione è determinata da due espressioni. La prima è quella che puntualizza l’ingresso dell’Angelo nel luogo in cui si trova la Madonna, la seconda è quella che sottolinea l’allontanarsi dell’Angelo dal luogo dove si trova la Madonna. Questa, dunque, è come la cornice di un quadro. Possiamo dire che il quadro contiene tre tempi che, in successione, scandiscono il dialogo tra l’Angelo e Maria.
Il primo momento è la parola che l’Angelo rivolge alla Madonna dicendole quel che Dio ha operato in Lei; a questo segue lo stupore e il turbamento provocato in Lei. Poi l’Angelo annuncia la maternità di Maria mettendola in stretta relazione con la sua verginità. E qui la Madonna non esprime dei dubbi, ma semplicemente chiede il come potrà avvenire questa combinazione di verginità e maternità. E poi il terzo momento: il momento dell’adesione gioiosa della Madonna a quello che l’Angelo le ha rivelato e proposto.
Questa cornice con i tre momenti che scandiscono il quadro, viene a parlarci di una successione di avvenimenti, cioè viene a parlarci in fondo di una storia che questo dialogo rivela. Quello che vogliamo qui sottolineare è che per Maria l’incontro con il Signore attraverso la parola l’Angelo è stato un progressivo rivelarsi di Dio, cosa che sarà continuata poi durante l’intera vita, perché la Madonna ha vissuto l’incontro con il Signore come un progressivo svelamento del disegno di Dio sulla sua vita. Possiamo dire che qui, al momento della vocazione, la Madonna sperimenta ciò che per tutto il corso della vita sperimenterà: il rivelarsi di Dio, il presentarsi di Dio, la storia con Dio è una progressione, è davvero una storia che non si conclude mai.
Questo mi sembra importante che lo sottolineiamo e lo vediamo in rapporto a noi perché anche la nostra vita con Dio ha questo: un rivelarsi progressivo del Signore a noi, uno scoprire continuo il disegno bellissimo che il Signore ha sulla nostra vita. La vocazione non è qualcosa che è già scritto completamente, è semplicemente un inizio e il percorso della vita spirituale è davvero questa storia che non si chiude mai, in cui il Signore si rivela progressivamente, in cui io scopro progressivamente, in cui il disegno, il piano del Signore si attua piano piano in tutta la sua bellezza e in tutta la sua meraviglia.
C’è un grande padre della Chiesa, Gregorio di Nissa, che, parlando della vita spirituale, della vita di fede, dice che è “un passare d’inizio in inizio, attraverso sempre nuovi inizi”. La nostra vita con Dio è un ricominciare sempre e dunque un addentrarsi sempre nuovo nel suo mistero, che è anche il nostro mistero. E questo disvelarsi progressivo del mistero di Dio, da cui dipende poi anche il disvelarsi progressivo del mistero della nostra vita, della mia vita, ci ricorda che la nostra vita di fede non può che essere un costante progresso, il cammino della santità; non si ha una vita di fede che non sia una storia progressiva verso Dio, cioè una storia progressiva nel cammino della santità a cui siamo chiamati. Se noi dovessimo, anche per un giorno solo, restare fermi, non saremmo rimasti fermi, avremmo purtroppo conosciuto una regressione.
Ogni tanto ricordo un proverbio cinese antico che dice così: l’amore è come la luna che, se non cresce, cala. Ed è lo stesso anche nella vicenda d’amore che riguarda noi e Dio: se questo amore non cresce, non rimane fermo, cala, perché l’amore di suo è destinato a progredire continuamente, ad approfondirsi sempre di più, a crescere d’intensità; se non conosciamo questo progresso, questa crescita, questa intensità, non vuol dire che siamo fermi, vuol dire che stiamo andando indietro.
Questo particolare del racconto evangelico – il quadro, i tre momenti successivi che indicano un progressivo disvelarsi di Dio e della vita di Maria, dunque un progresso in ciò che Maria sta vivendo – ci parla della necessità del progresso nella vita spirituale.
Ricordo di un vescovo, che era stato parroco, il quale raccontava di come rimaneva colpito quando, al confessionale, si accostava qualche fedele – uomo, donna, giovane – che accusava questa colpa: in questa settimana, in questo mese, non mi sono troppo preoccupato del mio progresso spirituale. Diceva: sempre molto colpito perché questo mi faceva riflettere su quanto io in quella settimana, in quel mese, in quel periodo, mi fossi preoccupato del mio progresso spirituale. Ecco, domandiamoci: siamo preoccupati del nostro progresso spirituale? È all’ordine del giorno questa crescita nel cammino della santità? Oppure – come può capitare – ci assestiamo su quella mediocrità che è poi un perdere quota nel cammino verso Dio? quella mediocrità, in fondo triste, per la quale non avvertiamo più il desiderio crescente di un amore sempre più grande, più profondo, più intenso e quindi ci pare di rimanere lì, ma in verità stiamo progressivamente cadendo…?
Un secondo punto della nostra riflessione a partire da un altro dettaglio di questo testo: un dettaglio piccolo, ma noi sappiamo che i dettagli piccoli, nel Vangelo, sono anche dettagli importanti.
Ed è il numero 6. Viene richiamato due volte all’interno del Vangelo. Uno in un momento successivo, per ricordare che Elisabetta era al sesto mese, e l’altro, qui all’inizio, per ricordare che è il sesto mese nel momento in cui l’Angelo entra a visitare Maria. Perché questo richiamo al numero 6? Noi potremmo pensare che si tratti solamente, di un’annotazione temporale, ma non è un’annotazione temporale, perché il numero 6, dal punto di vista biblico, è il numero dell’incompiutezza. Il numero compiuto è il 7, il numero sei, il giorno sei, il mese sesto è sempre qualcosa che indica una realtà incompiuta, che ancora non ha conosciuto la propria pienezza e il proprio compimento. Perché questa sottolineatura del 6 due volte, nel momento in cui si racconta, attraverso l’annuncio, la nascita, ormai prossima, di Gesù? Perché il compimento è la nascita di Gesù. C’è una storia, finora incompiuta, che ora si compie, perché Gesù entra dentro la storia. Una storia che è segnata dal numero 6, cioè una storia d’incompiutezza, adesso finalmente con la nascita di Gesù conosce il compimento. Perché Gesù è il compimento di tutta la storia umana e della storia di ciascuno di noi, così anche della vicenda di Maria.
Questo particolare ci ricorda che la vita dell’uomo è incompiuta senza l’ingresso di Gesù; che la vita umana è qualcosa di senza significato se non è vissuta nell’incontro con il Signore Gesù. Ci ha ricordato allora una verità importante che tutti quanti noi, certamente, a livello teorico, affermiamo: il Signore è il grande alleato della nostra felicità e della pienezza del nostro cuore. Questo a livello teorico, però poi è proprio così vero che noi crediamo, nella quotidianità della vita, nelle scelte che compiamo, che il Signore è il vero alleato della nostra vita? che è colui che questa vita la riempie, che le dona felicità, che le dà tutto quello di cui ha bisogno? Perché allora non sempre accogliamo in pienezza la Parola che il Signore ci rivolge? Perché non sempre abbracciamo fino in fondo la volontà di Dio? Perché non diamo tutto al Signore, e perché non rispondiamo sempre Sì quando siamo interpellati dalla voce di Dio? Perché in verità non crediamo fino in fondo che il Signore è il 7 della nostra vita, cioè il compimento, l’Alleato della nostra gioia; ne abbiamo paura.
Forse non dobbiamo neanche tanto stupirci di riconoscerlo, perché il germe della paura è quel germe che il nemico ha piantato nel nostro cuore fin dall’inizio, quando nel cuore del primo uomo, e della prima donna ha messo il tarlo del dubbio: “Ma sei proprio sicuro che quanto il Signore ti ha detto sia corrispondente alla tua gioia autentica, sei proprio sicuro?” E lì l’uomo, la donna hanno cominciato a dubitare, e quel dubbio, che è all’origine del primo peccato, è anche il dubbio che è all’origine di ogni nostro peccato. Perché in verità il peccato – che è abbracciare il male – significa affermare nella concretezza delle nostre scelte: Dio non è il mio vero alleato; c’è un’altra strada che è migliore; la parola di Dio non mi riempie il cuore di gioia, c’è un’altra parola che mi può riempire il cuore: questo è il peccato, e l’origine è nel dubbio subdolo.
Allora ricordarci attraverso questa pagina del Vangelo che Gesù è il compimento della vita, che Gesù è l’alleato autentico della vita, che Gesù è il segreto della gioia autentica, significa andare a combattere quel tarlo del dubbio che tutti noi ci portiamo nel cuore. Dobbiamo però riconoscerlo e andare alla radice di quello che tante volte mina la nostra fiducia nel Signore e dunque la nostra accoglienza piena di Lui, della sua volontà e della sua parola nella nostra vita. In fondo questo è il vero grande male che dobbiamo combattere: la mancanza di fiducia nel fatto che Dio mi ami sul serio. Questo è il grave malanno che ci portiamo dentro, la ferita del nostro cuore: non credere davvero a questo amore straordinario di Dio in cui è il segreto della nostra riuscita.
Un terzo punto della nostra riflessione.
Dio ha da portare un grande messaggio e lo fa attraverso l’arcangelo Gabriele. È un messaggio che decide della storia, che porta in sé i destini dell’umanità. E dove si dirige l’angelo inviato da Dio? Non soltanto in questa terra dei Giudei, che è un’appendice del grande impero romano, ma all’interno di quest’appendice: va nella Galilea, a Nazareth, un villaggio dimenticato di quella regione che è abitata dai pagani – Galilea delle genti – quindi disprezzata dagli stessi Giudei. Questo è un particolare su cui non possiamo passare superficialmente, anche perché il racconto evangelico ci aiuta a porre in confronto Nazareth, piccola e disprezzata, e Gerusalemme, dove poco prima è avvenuto un altro annuncio: quello a Zaccaria, nel tempio. L’angelo era andato a Gerusalemme a cercare Zaccaria, ora viene a Nazareth a cercare Maria. Gerusalemme è la città del tempio, la grande città, la città di Dio. Nazareth è il villaggio dimenticato e disprezzato da tutti. Là, Zaccaria, il sacerdote, l’uomo importante di Gerusalemme. Qua, una giovane donna, Maria, dimenticata, senza nessuna importanza.
Questo insieme di dettagli che il testo ci regala ci ricordano dove va la scelta di Dio: va su ciò che è piccolo, su ciò che è non importante agli occhi del mondo, anzi su quello che spesso è disprezzato, secondo il criterio semplicemente umano e mondano.
Questo deve aiutarci a considerare i criteri che Dio usa, perché sono i criteri della storia della salvezza. Noi sappiamo che il criterio che sta all’inizio, all’Annunciazione, accompagna poi tutta quanta la storia della salvezza, perché è sempre attraverso il piccolo che Dio compie opere grandi, è sempre attraverso il debole che Dio compie ciò che è potente: questa è la via, sempre. Questo deve aiutarci a entrare dentro il criterio dell’agire di Dio. Però, dobbiamo pensare questo insieme di dettagli anche rivolto a noi, perché in verità noi siamo quei piccoli su cui lo sguardo del Signore si posa, e attraverso cui Dio vuole fare opere grandi. Siamo quei deboli attraverso i quali Dio vuole dimostrare la sua onnipotenza d’amore in questo mondo.
D’altronde questo insieme di dettagli viene a ricordarci che più siamo piccoli e più Dio può operare; più siamo deboli e più il Signore può compiere meraviglie; più ci mettiamo nell’angolo e più diventiamo le pietre portanti dell’edificio. Questo particolare ci aiuta a osservare la nostra vita in tutto ciò che è povertà, debolezza, motivo di insipienza, da un punto di vista umano, a osservarlo con gli occhi di Dio e a vedere le potenzialità che ha, nella misura in cui noi lo diamo al Signore perché Lui vi operi attraverso. Non c’è nulla della nostra vita, come non c’è nulla della nostra giornata, che meriti di essere disprezzato, perché nella misura in cui noi lo consegniamo al Signore diventa uno strumento di portenti, perché Dio lo prende su di sé per manifestare la sua potenza in questo mondo, e per far vedere l’insipienza del mondo. E sempre è stato così, e deve e può essere così, anche con noi. Che cosa dice Paolo? Ha reso insipiente la sapienza del mondo, ha reso debole la forza del mondo e ha fatto diventare sapienza l’insipienza e forza la debolezza: questo è il criterio di sempre a cui siamo chiamati ad attenerci per leggere la grande vita, la grande vicenda della storia, ma anche la piccola vita, la piccola vicenda della nostra storia. Tutto è riscattato nell’orizzonte della fede. Come è buono il Signore! Perché, se noi ragionassimo con occhi umani e mondani, ci sono aspetti della nostra vita personale, aspetti della nostra vita comunitaria, per i quali dovremmo dire: Ma che senso ha? ma perché? Forse ci sarebbe da disperarsi. Invece no! Anzi, diventano un motivo di grandezza della nostra vita, un motivo di segreta vittoria della storia della salvezza, la potenza divina dentro questo mondo illuso dalle sue inutili grandezze.
Papa Benedetto, di cui oggi ricordiamo l’anniversario della visita (6 settembre 2009), ricordo che un Mercoledì delle Ceneri usò un’immagine bellissima: proprio sottolineando il mistero celebrato, quindi le Ceneri, l’inizio della Quaresima, affermava così: “Vedete, la realtà delle ceneri ci ricorda una cosa bellissima che riguarda la nostra vita: che siamo polvere, però siamo polvere amata, sulla quale si posa lo sguardo innamorato di Dio”. Questo vale per tutte le polveri della nostra vita. Ogni granello di polvere che rintracciamo nella nostra esistenza è un granello amato perché lo sguardo del Signore si posa su quel granello di polvere e lo fa diventare un giardino fiorito. Questa è la realtà: nella misura in cui noi lo diamo al Signore, lo apriamo al suo sguardo, lasciamo che Lui posi il suo amore su questo, diventa una polvere amata e fiorita. Proprio come Nazareth che diventa, da villaggio sperduto, il centro del mondo. E come la Madonna che diventa, da una giovinetta sconosciuta, la donna centrale del disegno di Dio. È la storia della salvezza. Vale anche per noi.
Un quarto punto.
Lo troviamo in quella relazione sottolineata più volte dall’Angelo e nella risposta della Madonna, tra maternità e verginità, perché l’Angelo entra nel luogo dove si trova Maria, entra dentro il suo cuore e le preannuncia una maternità particolare. Nello stesso tempo le dice “piena di grazia, il Signore è con te”, quindi in qualche modo alludendo a una verginità di cuore che la Madonna sta vivendo. E la Madonna nel suo replicare alla parola angelica non mette in dubbio questo dono inaspettato della maternità, però si domanda come, perché la sua evidentemente è una verginità del cuore, ma anche una verginità che intende consacrarsi totalmente a Dio. E allora, come comporre verginità, consacrazione a Dio totale, con maternità? E in questo sta anche un’altra dimensione della bellezza dell’annuncio angelico e di quello che la Madonna ci presenta nel mistero della sua vita. Perché in verità veniamo a scoprire che è proprio la verginità della Madonna la sorgente della sua maternità. Non ci poteva essere la maternità divina della Madonna se non ci fosse stata la sua assoluta verginità, la sua totale consacrazione, il suo dono senza condizione a Dio; se Lei non fosse stata la piena di grazia, se Lei non fosse stata la donna cui il Signore era insieme in un modo straordinario, non ci sarebbe potuta essere la sua maternità divina. E allora questo ci dice che nella nostra vita la condizione dell’essere madri nel piano di Dio è la profondità della nostra verginità. La fecondità della nostra vita cresce nella radicalità della verginità del cuore della vita. Noi sperimentiamo in pienezza quella fecondità il cui desiderio portiamo scritto nel cuore e di cui non possiamo fare a meno, nella misura in cui la vita è sottratta a questo mondo e agli affetti umani ed è data totalmente all’amore di Dio. C’è una relazione decisiva e necessaria; e lo comprendiamo, e lo sappiamo per esperienza, perché ogni nostra mancanza di verginità nella vita ha significato anche una sterilità nel frutto della nostra vita. Mentre un dono più grande, una verginità più vera l’abbiamo subito sperimentata anche come un dono di maternità per avere lo spirito, più feconda, più bella, che ci ha riempito il cuore.
Dunque questo legame tra maternità e verginità nella vita di Maria vogliamo leggerlo anche come un legame necessario presente nella nostra esistenza, come un dono che ci fa il Signore. Perché ci fa due doni: prima ci fa il dono della verginità e poi ci ricorda che a questo dono della verginità si accompagna anche il dono della maternità, cioè della crescita di Gesù nel cuore del mondo e nel cuore delle anime, proprio a partire da quella verginità che viviamo ogni giorno, con la libertà e con fedeltà.
Il quinto punto del nostro riflettere ci porta l’elemento della gioia che nella vicenda angelica entra subito appena l’Angelo parla e si rivolge a Maria, perché la prima parola che l’Angelo rivolge alla Madonna è la parola “rallegrati”, dunque “sii nella gioia”.
D’altronde la gioia poi la troviamo dall’insieme dell’annuncio angelico, dal modo in cui la Madonna risponde alle parole di Gabriele e da quell’ultima risposta che la Madonna dà all’Angelo quando, dicendo la sua disponibilità e la sua prontezza con quel “fiat”, con quell’”ecco”, non dice semplicemente: ci sono, va bene, dice: ci sono, non vedo l’ora che quello che tu hai detto possa realizzarsi il più presto possibile, perché è la gioia della mia vita. Nell’originale greco la parola dice: disponibilità gioiosa ed entusiasta a che quella parola si realizzi e trovi compimento. Se noi mettiamo in relazione i termini con i quali qui viene espressa la gioia per tutto ciò che si realizza con i termini che ritroviamo ad esprimere la stessa realtà in altri testi, sia del Vangelo come anche dell’Antico Testamento, ci accorgiamo che la gioia di cui qui si parla è la gioia tipicamente messianica, cioè la gioia provata a motivo della venuta del Messia, cioè delle nozze tra Dio e l’umanità; questa è la gioia nuziale, cioè la gioia di un incontro di amore che non è soltanto ormai atteso, ma che si compie nell’Eucaristia.
Qui, in riferimento alla nostra vita, mi pare che siamo portati a considerare quanto l’elemento della gioia caratterizzi la nostra vicenda nuziale col Signore. Ce lo dobbiamo domandare perché la nostra vita di persone consacrate, quando è autenticamente una vita che conosce la realtà nuziale dell’incontro con Dio, non può non avere il tratto di una gioia contagiosa, perché questa nostra gioia, che deriva dalla nuzialità vissuta quotidianamente col Signore, è qualcosa che si deve vedere nei nostri occhi, si deve ascoltare nelle nostre parole, si deve contemplare sul nostro volto, si deve poter poter toccare a contatto con la nostra vita quotidiana. Noi abbiamo la gioia della sposa, noi viviamo dentro l’entusiasmo di una vicenda di nozze, e questo, certo, prima di tutto è esperienza personale, ma poi deve diventare un messaggio continuo che attraversa la nostra vita di ogni giorno.
Si vede che viviamo una vicenda di nozze? Si vede che noi viviamo nella gioia per questo? Si vede che il Signore per noi è la sorgente di un cuore che è pieno. Si vede? È una sfida, questa, perché può capitare purtroppo che nella nostra vita in comunità, e poi in quelli che sono all’esterno della comunità, la nostra non appaia come una vita che sperimenta la gioia delle nozze, ma purtroppo come una vita che sperimenta la tristezza dell’assenza dello sposo. Può capitare. E può capitare che questa tristezza dell’assenza la si veda nei nostri occhi, la si contempli sul nostro volto, la si tocchi nella nostra ordinarietà. Purtroppo può capitare questo. Riflettiamo e verifichiamo, pensando che la gioia non è qualcosa che noi prendiamo così; scaturisce da una rinnovata esperienza di amore, e dal ritornare sempre lì, al centro, cioè a Gesù che è la nostra vita, è il nostro amore, la sorgente di ogni nostra gioia.
Voi sapete, penso, che, nei racconti sui Padri antichi del deserto, ce n’è uno interessante in cui un monaco giovane si reca da un monaco più anziano. Questo monaco giovane, dopo un po’ di anni passati nel monastero, è rimasto sorpreso, ma anche molto amareggiato da un’esperienza che ha avuto: si è accorto, nel corso degli anni, che diversi monaci hanno abbandonato la vita monastica. E allora parla a questo padre anziano e gli apre il cuore perché vuole capire e vuole essere consolato in questa esperienza di amarezza o di sorpresa negativa; e glielo dice: “Padre, io sono turbato profondamente perché negli anni che ho passato al monastero ho visto accanto a me diversi monaci che all’inizio erano fervorosi, che erano dedicati alla preghiera, che erano anche pronti alla penitenza, che però poi, a un certo punto, hanno abbandonato la vita monastica. Perché questo?”.
Il monaco più anziano non risponde direttamente al giovane, ma gli presenta una scena e gli dice: “Sai, penso ti sia capitato di partecipare alla caccia alla lepre”. Il monaco dice: “Sì, qualche volta nel monastero è capitato ai monaci di fare la caccia alla lepre”. “Bene, dice il monaco anziano, ti sarai accorto di un particolare: chi caccia la lepre si serve anche dei cani e, quando a un certo punto la lepre esce dalla tana e i cani se ne accorgono, cominciano a correre, correre, corrono dietro la lepre. E succede che, mentre all’inizio i cani sono molti, dopo un po’ diminuiscono di numero. Qualcuno si ferma, qualcuno va da un’altra parte e rimangono solo alcuni che corrono dietro alla lepre. Sai perché? Perché, mentre corrono, ad un certo punto perdono di vista la lepre, quindi, dopo un po’ che hanno corso non capiscono più il motivo per cui stanno correndo per cui si fermano oppure vanno altrove. Solo quelli che sono rimasti con lo sguardo fisso sulla lepre continuano a seguirla fino a che l’hanno presa”. Il monaco giovane ascoltava un po’ sorpreso la spiegazione del monaco anziano perché non capiva dove volesse andare a parare. Però l’anziano poi conclude: “Vedi, nella vita monastica è così, perché molti cominciano e hanno buone disposizioni, e sono animati da tanta buona volontà, però capita poi che, cammin facendo, lo sguardo di questi monaci perda di vista il centro della loro vita, che è Gesù. E allora per un po’ vanno avanti, quasi per forza di inerzia, ma poi non riescono più ad andare avanti, perché non hanno più ben presente alla mente e al cuore Colui che era il motivo della loro vita, la sorgente di tutto quello che facevano.
Nella nostra vita può capitare così, perché se ci sono dei cristiani senza Gesù – e ci possono essere, semplicemente attratti magari da un ideale, dal fatto che la vita cristiana è un insieme di norme, ma perdendo di vista che la vita di fede è un incontro a tu per tu col Signore -, può capitare anche a noi delle volte di essere consacrati senza Gesù, e avendo ormai davanti a noi che cosa: un ideale, pur bello, ma soltanto un ideale; oppure un insieme di norme di comportamento, di leggi giuste, ma soltanto norme e leggi; un programma di vita, certamente alto, ma un programma, freddo. È ormai venuto meno il cuore, cioè quell’incontro a tu per tu personale che è la sorgente di tutto il resto, che dà un senso all’ideale, ai sì e no che diciamo ogni giorno, che dà un senso al programma della nostra vita, che dà un senso ai passi, cioè quella vicenda di nozze che riempie di gioia e che mette le ali al nostro vivere di ogni giorno. Quella gioia ci conduce a questo cuore e a questo centro: Gesù, è Lui, è la nostra storia d’amore con Lui, è l’incontro con Lui. È il dedicarci a Lui che è la sorgente della gioia e lì dobbiamo sempre tornare.
C’è poi – sesto elemento nella nostra riflessione -, quel “il Signore è con te” che l’Angelo dice alla Madonna.
È una parola che non troviamo soltanto qui; la troviamo altre volte, soprattutto nei racconti di vocazione. Ricorderemo che quando il Signore si rivolge a Mosè e lo chiama perché torni in Egitto a compiere l’opera che Dio gli ha affidato, la parola che gli rivolge è questa: “Il Signore è con te”.
Un altro racconto di vocazione, che è anche più strettamente collegato alla vicenda di Maria, è quello di Gedeone, quando il Signore gli si fa vicino attraverso l’angelo e gli chiede una grande impresa: quella di farsi condottiero del popolo per liberarlo dai Madianiti che in quel momento sono i grandi persecutori di Israele. C’è un legame molto stretto tra il racconto di Gedeone e quello dell’Annunciazione a Maria. Non ci addentriamo sui perché, ma la cosa importante e interessante è questa: che là Dio affida a Gedeone il compito di essere condottiero nell’opera di liberazione di Israele; qui, alla Madonna viene affidato un compito analogo: di essere Lei condottiera in quest’opera di salvezza che Dio vuole realizzare definitivamente per il suo popolo.
In fondo, allora, ogni chiamata, ogni volta che il Signore dice a noi: “Sono con te” – e ce lo dice all’inizio come tante volte nel corso della vita -, quando ci chiama, ci esorta ad essere anche noi condottieri nell’opera di salvezza che Lui vuole realizzare. Tutti noi siamo co-protagonisti in questa straordinaria opera che riguarda il mondo e questo dobbiamo avvertirlo; dobbiamo viverlo; proprio con la consapevolezza che noi siamo necessari – perché Dio vuole così – nell’opera di salvezza del mondo. La nostra è un’opera grande che ci è affidata; noi siamo importanti nel piano di Dio; senza di noi manca un tassello al disegno bellissimo che Dio ha sulla storia. Quanto siamo preziosi! Ecco perché nella Scrittura, attraverso i profeti – pensiamo a Isaia – Dio dice: “Ma tu sei importante ai miei occhi, sei sul palmo della mia mano, io ti osservo e ti guardo, non posso stare senza di te perché io ti ho chiamato per svolgere un compito che solo tu puoi realizzare e del quale ho bisogno, perché il mio disegno arrivi a compimento”. Noi siamo, tra virgolette, grandi nel piano di Dio.
E veniamo a concludere la nostra riflessione con l’ultimo punto, ritornando a quell’“Ecco” che Maria dice e che nel suo significato originario non soltanto sta a indicare la disponibilità della Madonna, ma anche la disponibilità pronta, gioiosa, che desidera realizzare quello che la Parola le ha fatto capire. Allora domandiamoci se il nostro modo di stare di fronte alla Parola che Dio ci rivolge ogni giorno è la disponibilità di questo “Fiat”, di questo “Ecco” che la Madonna dice. Dovremmo forse riconoscere che la nostra a volte è o una non disponibilità o una disponibilità appesantita, nella quale diciamo “Si, va bene”, ma come portando un macigno di qualcosa che in fondo non abbracciamo con il cuore e non intraprendiamo con entusiasmo, ma che trasciniamo dietro con fatica. Ricordiamoci di quello che ricorda Paolo con una parola detta da Gesù e non riportata nei Vangeli: “Il Signore ama chi dona con gioia”.
Qui la Madonna dona se stessa con gioia, e lo farà per tutta la vita, perché per Lei vivere la parola di Gesù è la gioia più grande della vita. Rispecchiamoci dentro questa modalità di vivere della Madonna perché diventi anche la nostra. Con un’attenzione: qui la Madonna non ha capito tutto, lo sappiamo; ha detto un “sì” a occhi parzialmente chiusi, perché ha capito che c’era una maternità, la maternità del Messia, ma non sapeva di preciso che cosa questo avrebbe comportato, come questa storia sarebbe stata, dove questa parola che in quel momento le veniva rivolta l’avrebbe portata; si è come aggrappata a quella parola con fiducia, aspettando che le facesse un po’ alla volta capire di più dove andava a finire nella vicenda. Tante volte per noi deve essere così, perché non sempre capiamo tutto in quello che Dio ci dice.
Viviamo però una tentazione, che è questa: appiattire la parola del Signore sulla nostra volontà, dunque farla scendere, nella sua misura, nella sua profondità, perché ci sia più sopportabile. Molte volte è così: dal momento che ci pare molto alta – e a volte ci sembra così distante da quello che ci è possibile e che corrisponde alla nostra poca e piccola misura – allora la tratteniamo e la tiriamo giù verso di noi. La Madonna non ha fatto così; si è appesa, ma non per trascinarla giù ma per essere portata su. Noi dobbiamo rapportarci così con quello che il Signore ci dice: aggrapparci non per portare giù ma per essere portati su. Non importa se non capiamo tutto ma noi andiamo, certi che la strada che quella parola ci fa percorrere è una strada di verità, è la strada della vita, della luce, della gioia.
Oggi l’aver riascoltato la vicenda dell’Annunciazione deve essere per noi anche il ritrovare questo atteggiamento di fronte al Signore che ci parla ogni giorno, che è quello di dire: “Io mi fido, con gioia mi fido, quando ti capisco, Signore, quando ti capisco un po’, e anche quando non ti capisco. Ecco, mi lascio trascinare, mi lascio portare là dove tu mi dici, dove tu vuoi, perché so che è là il bene più grande della mia vita e ci vengo con gioia, con prontezza, con l’ “Ecco” della Madonna”.
(Nostra trascrizione dal parlato non rivista dall’autore)