… e lo condusse da Gesù
Savona
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INTRODUZIONE AGLI ESERCIZI SPIRITUALI
Abbiamo iniziato gli Esercizi Spirituali con il silenzio e con un tempo prolungato di deserto, che trova conferma in questo tempo serale che passeremo in Adorazione davanti a Gesù Eucaristia. Perché è bello, perché è importante, perché è ricco di significato questo inizio? Perché ci ricorda la verità fondamentale: quando consideriamo la nostra vita e il percorso della nostra vita personale dobbiamo sempre partire da Dio e sempre ripartire da Dio, perché se non partiamo da Dio non cambierà mai nulla. E quando consideriamo la nostra vita comunitaria dobbiamo partire da Dio, perché anche lì se non partiamo da Lui non cambierà mai nulla. E quando consideriamo la nostra missione nel mondo dobbiamo ripartire da Dio, perché anche nella nostra missione nel mondo o partiamo da Dio o non cambia nulla, non combiniamo nulla … Ripartire da Dio è un’urgenza, è un primato, è una priorità. Iniziando così gli Esercizi, vogliamo riaffermare questa verità nella nostra vita, perché non sia soltanto una verità che affermiamo qui, oggi e in questi giorni, ma una verità che rimanga impressa nel cuore, nell’esistenza, nella quotidianità, perché il nostro vivere sia sempre un partire da Dio, sia sempre ripartire da Dio, sia sempre un guardare noi stessi e gli altri e il mondo a partire da Dio: questo è l’unico, vero segreto della fecondità personale, comunitaria e della testimonianza! Introducendoci abbiamo invocato lo Spirito Santo … pensiamo come è bello! Invochiamo lo Spirito Santo perché scenda su di noi, ma nel momento in cui scende su di noi ci risucchia in alto verso Dio! Questo è il suo compito: portarci nell’intimità di Dio, dentro il cuore di Dio, disporci all’ascolto di Dio che ci parla, metterci alla Sua presenza. Noi Lo invochiamo: “Scendi su di noi!” e Lui viene, scende su di noi, ci porta verso l’alto, perché soltanto lì – nell’alto e dall’alto – possiamo guardare, considerare, valutare e poi cambiare. Iniziamo dunque ricordando questa grande verità, che si imprima nel cuore, che divenga vita nella nostra vita.
In questo momento, mentre ci accingiamo a rimanere davanti al Signore, vorrei che tenessimo presenti 4 verbi:
- stare: pensate che stare è la prima cosa che Gesù ha chiesto ai suoi, “Li chiamò perché stessero con Lui”. In questi giorni dobbiamo stare davanti al Signore: ricordate quando Elia, profeta di Dio, si presenta davanti al Signore “alla cui presenza io sto” … questa è la sua identità ed è la prima cosa importante della sua vita. Lo è anche per noi: stare richiama delle mete importanti di questo periodo, cioè il nostro silenzio. Ce lo ricordiamo sempre, non perché è consuetudine ricordarcelo, non perché dobbiamo ricordarcelo e così assolvere un compito, ma perché il silenzio è decisivo, perché dobbiamo ridire ancora una volta il nostro amore per il silenzio, perché la nostra capacità di silenzio dice il nostro amore per la presenza di Dio e la nostra capacità di fare spazio a Dio! È triste che una persona consacrata non riesca a vivere il silenzio, significherebbe una persona consacrata che non ha in sé lo spazio di Dio, il desiderio di fare spazio a Dio …
Non possiamo allora non amare il silenzio e non attendere con ansia questo momento di grazia nel quale finalmente – purtroppo nell’ordinarietà non ci è possibile – abbiamo un tempo per vivere questo silenzio, per fare spazio al Signore della nostra vita. Viviamolo così: è l’espressione e la riprova che davvero in noi c’è il desiderio di Dio, il non farlo direbbe esattamente il contrario. Stare dentro a questo silenzio a volte può essere faticoso, certo, però in questa fatica sta tutta l’espressione di un cuore che cerca Dio e che vuole Dio, che Lo vuole incontrare.
Si racconta della vita di un giovane seminarista che un anno partecipò, come di consueto, agli Esercizi Spirituali annuali. Era giovane, era ai primi anni del suo cammino di formazione in seminario e quell’anno predicava gli Esercizi un sacerdote santo, un santo predicatore. Terminato il primo giorno, questo giovane seminarista faticava a rimanere nel silenzio per cui un po’ si distraeva e andava a cercare i suoi compagni … il predicatore si accorse di questa cosa, ma il primo giorno non disse nulla. Il secondo giorno si ripetè la stessa scena: questo giovane con fatica viveva il silenzio, per cui anche per quel secondo giorno ebbe modo di distrarsi, guardarsi attorno, cercare qualche amico … Il predicatore lasciò passare anche il secondo giorno, ma all’inizio del terzo giorno lo prese in disparte e, come sanno fare i santi, guardandolo con occhi insieme di fuoco e di amore gli disse una parola: “Senti, ma tu lo sai che cosa sono gli Esercizi Spirituali?” Questo giovane rimase colpito al cuore, tanto che diede inizio al cammino che l’avrebbe portato poi alla santità. Ecco, noi dovremmo sentirci risuonare questa parola incisiva: “ma tu lo sai che cosa sono gli Esercizi, l’importanza degli Esercizi, la dimensione decisiva degli Esercizi nella tua vita?” Non sono quella pausa annuale che dobbiamo fare per ottemperare a un dovere, non sono semplicemente un lasso di tempo nel quale ci distendiamo, ci riposiamo, abbiamo l’opportunità di stare più tranquilli, anche di pregare, di ascoltare magari cose più o meno belle … No, gli Esercizi sono momento decisivo della vita! “Lo sai cosa sono gli Esercizi?” Ripetiamocelo anche quando faremo un po’ più fatica a stare, dobbiamo starci per l’importanza che ha questo tempo, un tempo importante nel nostro cammino. - adorare: per questo siamo qui, per dire al Signore che Lui è il centro e il primo della nostra vita. Lo sappiamo: noi arriviamo agli Esercizi disorientate, scombussolate, con un cuore piagato, forse con un cuore riempito da tante cose, tanti legami, tanti falsi affetti, persino anche affetti non buoni, legami non buoni, di tanti generi … Siamo qui per dire al Signore: “Tu sei il primo,Tu sei il tutto!”.
Vorrei ricordare un’espressione di un santo la cui memoria ricorre in questo mese di luglio, san Gaspare del Bufalo, che visse in un momento difficile della vita della Chiesa in Italia sotto la dominazione napoleonica. L’autorità francese che un giorno lo prese e lo fece prigioniero voleva costringerlo a comportamenti che sarebbero andati contro la Chiesa, contro il Vangelo, contro la volontà del Signore sulla sua vita. Egli rispose in modo perentorio: “Io non posso, io non devo, io non voglio!”. Noi siamo cui per dire “io non posso, io non devo, io non voglio abbracciare tutto quello che contraddice il primato del Signore nella mia vita! Non posso, non devo, non voglio, non posso più, non devo più, non voglio più! D’altra parte, ricordiamo che san Francesco quando ascoltò il brano del Vangelo della sequela disse “Il cuore infiammato dall’amore, questo io desidero, questo io voglio, questo io chiedo con tutto il cuore, cioè seguirti!”. Noi adoriamo per dire al Signore “questo io voglio, questo io desidero, questo io chiedo: che Tu sia il primo della mia vita, che Tu sia il centro e il cuore della mia vita!”. Ecco che cosa significa adorare: dire no a ciò che non è Dio, dire sì a Lui, perché sia il primo, il cuore e il centro! - ascoltare: stamattina abbiamo riascoltato la pagina del Vangelo nella quale l’introduzione dell’Evangelista fotografa ciò che il Signore sta vivendo. I farisei, dice l’Evangelista , fecero consiglio con i capi e decisero di toglierlo di mezzo … una frase che non ammette ambiguità, decisero di toglierlo di mezzo, cioè volevano mettere a tacere la Parola vivente di Dio perché voleva intralciare la loro vita, mettere in discussione la loro vita … doveva essere messa a tacere, eliminata, uccisa. Noi pensiamo forse che questo non ci riguardi, ma quante volte noi uccidiamo nel nostro cuore la Parola del Signore, quante volte rimaniamo indifferenti e quindi la uccidiamo, quante volte, dato che ci scomoda, facciamo finta di non ascoltare e quindi la eliminiamo, quante volte ci contrapponiamo addirittura ad essa togliendola di mezzo! Noi siamo qui davanti al Signore, stasera, per ascoltare ciò che desidera, per non mettere ostacoli a questa Parola, perché venga in noi, entri in noi, si radichi nel nostro cuore, metta radici in fondo al nostro cuore, senza timore, senza paura. Certo, metterà a nudo e ci farà scoprire ciò che non va bene, ci proporrà mete alte, che a volte potranno spaventarci, ma lasciamo che questo operi togliendo il male, proponendo il bene, purificando, infiammando, sradicando e facendo fiorire!
- donare: noi stiamo, noi adoriamo, noi ascoltiamo per poi donare e donarci, perché finalmente quel Signore davanti a cui siamo stati e che abbiamo adorato, che abbiamo ascoltato con intensità nella Parola divenga vita della vita attraverso un’esistenza che porti la Sua traccia, la Sua impronta. In questo senso donare è fare della vita una vera e propria incarnazione del Vangelo, un Vangelo vivente, Dio e noi!
Ecco, questi quattro verbi accompagnano la nostra Adorazione questa sera, ma dovrebbero accompagnarci sempre, perché sempre adoriamo e ascoltiamo per donarci; facciamo in modo che accompagnino questo tempo degli Esercizi, nel quale così staremo, adoreremo, ascolteremo per donare senza riserve e senza condizione noi stessi. In verità questi quattro tempi che viviamo questa sera e viviamo in questi giorni sono quattro tempi della vita, perché la vita ruota con questi quattro tempi, o ci sono questi quattro tempi o non ci può essere una realtà di santità. Ecco, questo deponiamo stasera qui davanti al Signore e chiediamo la grazia che ci aiuti a viverlo davvero con tanta intensità!
Savona, 21 luglio 2019
PRIMA MEDITAZIONE
Abbiamo invocato lo Spirito Santo con questo bel canto che ha degli accenti di natura poetica e nei quali noi chiediamo allo Spirito Santo di scendere su di noi e di muovere le corde della nostra arpa in cui è come rappresentata e raffigurata la nostra vita; e ancora gli chiediamo di scendere perché venga a riempire il cuore con la musica che Egli è capace di suonare nella nostra esistenza. Sono invocazioni belle che vogliamo che risuonino sulle nostre labbra, non con superficialità, ma con il desiderio che realmente possano realizzarsi, che lo Spirito Santo venga a suonare l’arpa della nostra vita e che lo Spirito Santo venga a colmare di sé i nostri cuori.
Forse ho già raccontato in passato che in una parrocchia tanti anni fa si stava concludendo l’anno catechistico: a quel tempo la conclusione dell’anno catechistico significava anche una gara tra le parrocchie con i bambini che avevano partecipato al catechismo, per verificare chi tra le varie parrocchie era quella più preparata. Il parroco di una di queste parrocchie teneva molto a fare bella figura e sperava che i ragazzi potessero vincere questa gara catechistica: allora, verso la fine dell’anno, aveva impresso un particolare impegno per la preparazione. Venne un giorno nel quale ai suoi ragazzi cominciò a fare delle domande per verificare se effettivamente potessero considerarsi pronti. I ragazzi erano preparati, quindi decise di fare una sorta di interrogazione personalizzata e li chiamò ad uno ad uno. Il parroco si stava dimostrando soddisfatto, quando arrivò uno di questi bambini ai quali tra le altre domande pose la seguente: “Mi sapresti dire che cosa fa Spirito Santo nella nostra vita?”. Questo bambino faceva un po’ fatica a rispondere a questa domanda ed era lì davanti al parroco con la testa bassa perché si sentiva in difficoltà. Il parroco insisteva “dai, coraggio, che cosa fa lo Spirito Santo nella nostra vita?”. Il bambino continuava a tenere la testa bassa timidamente, come a dire “Per favore, lasciami in pace, cambia domanda…”, ma il parroco non si dava per vinto, e alla fine, perdendo anche un po’ la pazienza, disse “Senti, per favore, dimmi che cosa fa lo Spirito Santo nella vita. Di’ qualcosa, perché se quando andiamo alla gara ti fanno questa domanda e tu non rispondi ci fai perdere!”. Allora il bambino, messo alle strette, capendo che non poteva tirarsi indietro e che qualche cosa doveva pur dire, alzò gli occhi timorosi e disse così “Padre, io credo che lo Spirito Santo faccia un po’ quello che può”. Era pronto a sentirsi dire di tutto dal parroco, invece il parroco fece un grande sorriso e gli disse “Guarda, sai che hai risposto bene? perché è proprio così: lo Spirito Santo vuole fare tante cose nella nostra vita, però alla fine fa quello che può, perché fa quello che noi gli lasciamo fare!”.
Ecco perché noi lo invochiamo: Egli vuole suonare l’arpa della nostra vita, rendendola una stupenda melodia, vuole abitare il nostro cuore, mettendovi dentro la sua stupenda musica di amore, ma lo può fare se noi glielo consentiamo, se gli apriamo realmente il cuore e l’anima. Allora queste invocazioni siano autentiche, siano vere, dicano il nostro desiderio profondo che Lui venga come sa e come vuole, al di la di noi.
Celebrare il Capitolo
Ieri sera ricordavamo quelle quattro parole, le ricordavamo a proposito della serata davanti all’Eucaristia e in merito a questi giorni di Esercizi, e le ricordavamo anche in relazione alla nostra vita quotidiana. Mi pare che sia importante anche ricordarle in relazione al Capitolo che celebrerete nei prossimi giorni, perché quelle tre prime parole – stare, adorare e ascoltare –sono necessarie e imprescindibili anche nel lavoro capitolare, perché lì si tratta non di portare noi stessi o i nostri personali umani punti di vista, non semplicemente le emozioni e le passioni del cuore, ma al Capitolo si va pensando che dobbiamo portare noi stessi dopo che ci siamo immersi in Dio e ci siamo lasciati bagnare dalla sua Grazia e dal suo amore. Soltanto se questo accade, noi diventiamo capaci di vedere meglio, di vedere di più, di diventare dei “visionari”, cioè capaci di andare al di là di noi stessi, delle nostre piccole misure, a volte anche delle nostre umane meschinità. Dobbiamo vedere in grande, pensare in grande, con un’intelligenza grande, con un cuore grande, ma questo è possibile nella misura in cui ci lasciamo trovare dal Signore, toccare dal suo amore, dalla sua Grazia. Sempre dunque – di nuovo lo ripetiamo – si parte da Dio, anche nei lavori di un Capitolo. Il Capitolo è importante perché segna una tappa della vita della Congregazione, segna anche gli anni che vengono e l’impostazione della vita, però manteniamo la gerarchia delle importanze: è più importante la nostra conversione personale qui durante gli Esercizi, è più importante questo di un Capitolo, perché è più importante la nostra santità che un Capitolo, è più importante la nostra vita data a Dio di un Capitolo. Il nostro rivolgere completamente la vita al Signore allora fa bene al mondo più che un Capitolo. Certo, siamo presi anche dalle occupazioni, preoccupazioni, desideri che i lavori capitolari comportano, ma dobbiamo essere ancora più presi da questo lavoro su noi stessi, o meglio, da questo lavoro che il Signore vuole fare su di noi per renderci come Lui ci vuole, per renderci santi. La salvezza, chiamiamola così, di una Congregazione non viene dai capitoli né dalla santità della nostra vita, non viene da quello che progettiamo o pensiamo noi, ma viene da quanto Dio fa attraverso di noi, perché lasciamo ci abiti, ci conquisti il cuore e si renda presente nella nostra vita. Allora certo avremo giorni importanti, capitolari, ma sono ancora più importanti questi giorni nei quali si decide per quale strada ciascuno di noi vuole andare con l’aiuto del Signore. Non lo ricorderemo mai abbastanza, ma è sufficiente che uno di noi qui, in questi giorni, si decida una volta per tutte a dare la vita al Signore, senza riserve, senza condizioni, non soltanto per cambiare la vita della Congregazione, ma per cambiare la vita del mondo, per un contributo decisivo alla vita della Chiesa. Questo è il cuore, questo è il centro, questo è ciò in cui dobbiamo perderci dando tutto veramente di noi stessi.
In questi giorni di Esercizi ci troveremo davanti al Signore a rivedere in Lui la nostra vita, perché possa ripartire il più possibile secondo la Sua volontà; ci metteremo allo specchio, come sempre, della Parola del Signore, e lo faremo attraverso i tre Vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca, che ci accompagneranno ciascuno per ogni giornata. Sarà come un breve trittico che speriamo possa aprire la nostra vita in un modo nuovo e possa farci rientrare nella vita profondamente trasformati.
“Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20)
Quest’oggi la nostra meditazione riguarderà il Vangelo di Matteo: noi sappiamo come questo primo Vangelo sia strutturato attorno ai cinque grandi discorsi di Gesù, che viene presentato come il nuovo Mosè. Infatti questi cinque grandi discorsi sembrano riprendere i cinque libri della legge del Pentateuco. Dunque da una parte avevamo Mosè, il grande legislatore, colui che porta al popolo la legge di Dio, ed ora abbiamo dentro il popolo d’Israele il nuovo e definitivo legislatore, Gesù, che porta la nuova legge dell’amore. Così in fondo si presenta a noi il Vangelo di San Matteo: ciò che San Matteo vuole comunicare alla comunità cristiana, per la quale scrive e redige il suo Vangelo, è soprattutto il pensiero che Dio accompagna il suo popolo lungo il cammino della storia e con Provvidenza di amore non lo abbandona mai, non lo lascia mai. Ecco perché Gesù è presentato come nuovo Mosè, ecco perché questi cinque grandi discorsi che recuperano e portano a compimento la legge antica: la parola “compimento” è molto cara a Matteo, perché il Signore che ha iniziato la sua opera ora la porta a compimento. Si tratta di un Dio fedele, che promette e che poi realizza queste promesse nel corso del tempo. Dunque il discepolo e la comunità cristiana, che si pongono in ascolto del Vangelo di Matteo, che cosa devono custodire nel cuore? Quella parola di Gesù che conclude il Vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. È la parola sigillo sull’ intero Vangelo, cioè la parola attraverso la quale Gesù stesso dice la fedeltà di Dio, la promessa di Dio che si realizza e che si realizzerà, la Provvidenza di amore che non abbandona mai, una compagnia fedele che non lascia mai lungo la strada e lungo il cammino. Questo è ciò che il Vangelo di Matteo in particolare ci vuole comunicare. Allora facciamo in modo di ascoltare le pagine sulle quali mediteremo tenendo presente questo messaggio di fondo, questo annuncio di fondo, questa buona notizia di fondo, perché il Vangelo è sempre buona notizia, di volta in volta espressa secondo le esigenze degli Evangelisti e delle comunità alle quali essi si rivolgono. Questo è l’aspetto di buona notizia che vogliamo accogliere con gioia: Dio è un Dio fedele, Dio non ci abbandona, Dio è amore provvidente, Dio è Colui che mi dice ancora oggi “Ecco, non temere, Io sono con te fino alla fine del mondo, fino alla fine della tua vita e dei tuoi giorni!”.
Stamattina ci soffermiamo su un testo che generalmente non ci appassiona molto, lo ascoltiamo poche volte durante l’anno e forse, quando lo ascoltiamo, lo facciamo con un senso un po’ di stanchezza e monotonia. Ma questo dipende semplicemente – purtroppo tutti ci siamo dentro – dalla nostra povertà, perché questo testo che effettivamente può darci nell’immediato un po’ l’idea di monotonia, di pesantezza, in verità se noi lo ascoltassimo con attenzione, con il cuore in mano e con fede, ci accorgeremmo che è una vera e propria poesia che ci trasmette moltissimo di questa notizia bella e di questa notizia buona di cui Matteo si vuol fare portatore.
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide (Matteo1,1-17): sono i primi diciassette versetti del primo capitolo del Vangelo di Matteo, è la genealogia che in modo significativo Matteo introduce indicandola come libro delle origini, in qualche modo della genesi di Gesù. Questo elemento introduttivo di genesi, di origine riguardante la vita di Gesù è importante, perché ci raccorda immediatamente con il libro della Genesi, cioè con l’origine dell’umanità in Adamo, il primo uomo. Così Gesù è presentato come il nuovo Adamo, l’inizio della nuova creazione, Colui che inaugura una nuova storia, una nuova vicenda, una nuova pagina dell’esistenza, dell’umanità. Però c’è anche una differenza fondamentale, quello su cui noi vogliamo per il momento soffermare l’attenzione, perché mentre Adamo è all’origine di una discendenza che lo seguirà e che attraverserà la storia, qui di Gesù si manifesta la ascendenza, cioè coloro che vengono prima, fino a tornare all’origine. E che cosa significa questo? Significa, in modo del tutto singolare, che il Signore è voluto entrare dentro una storia, ha voluto rendersi partecipe della vicenda umana, si è calato nelle profondità dell’esistenza, dell’umanità, del mondo.
Questo è importante, perché quando noi leggiamo la genealogia ci viene da dire che davvero il Signore è entrato nella nostra storia, davvero è entrato nella mia storia, davvero ha voluto e vuole condividere il cammino della mia esistenza, vuole farsi compagno della mia vicenda, bella o brutta che sia. Lui ne è partecipe fino in fondo, vuole entrare dentro. Allora una domanda: Lo lascio veramente entrare dentro di me? Gli consento di prendere casa nella mia casa? Gli permetto di occupare uno spazio nella mia esistenza? La genealogia, partendo dall’inizio, dice proprio questo, che il Signore non vuole lasciare proprio neanche un frammento di storia privo della Sua Presenza e della Sua Opera, perché è soltanto così che la storia è riscattata. Così è per la nostra vita, nessun frammento può rimanere estraneo alla Presenza del Signore, perché solo così la nostra vita è riscattata e soltanto così la nostra vita conosce la bellezza autentica che le è propria, quella donata da Dio. Solo così , quando noi Gli consentiamo di realizzare in noi ciò che questa genealogia esprime e dice a chiare lettere, ossia di essere tutt’uno con la vita degli uomini, cioè di essere tutt’uno con la nostra vita.
Che cosa allora, ancora oggi di nuovo arrivando in questi Esercizi, dopo tanti anni, devo ammettere di non avere ancora consegnato all’Opera e alla Presenza del Signore? Che cosa ancora? La domanda che tante volte ci siamo posti nel cammino della nostra vita di fede, della nostra vita di consacrazione … che cosa ancora mi manca? Sembra di risentire la domanda del ricco del Vangelo … che cosa ancora devo aprire alla Tua influenza, alla Tua parola, alla Tua vita, che cosa? Il Signore risponde a noi come al giovane ricco: ti manca ancora di aver dato tutto … Quindi per arrivare a questo tutto, che passo devo fare in questi Esercizi? Quale porta devo aprire, quale chiave devo prendere in mano coraggiosamente perché il Signore vi possa fare il suo ingresso, il suo ingresso di amore, per portare vita, per portare pienezza, per portare gioia, per portare salvezza, per portare quella realizzazione che io cerco altrove e non trovo mai?!? che cosa devo ancora realmente aprire e consegnare? consegnare è il termine più bello, anche perché è un termine evangelico con il quale viene espressa la consegna di Gesù al Padre, cioè il rimettere totalmente la propria vita nelle mani del Padre. Che cosa ancora dobbiamo consegnare perché la nostra consegna sia totale? La consegna totale è la gioia della vita, siamo tristi perché non ci siamo ancora consegnati del tutto, siamo nell’inquietudine perché il cuore non è ancora consegnato del tutto. Che cosa ci manca? Che cosa ancora non Gli ho consegnato? Andiamo a scoprirlo e poi consegniamolo finalmente del tutto a Lui che è già entrato nella nostra vita, ma vuole entrare là, dove ancora non è presente.
Ascoltando la genealogia e tenendo presente questo grande dato che l’Evangelista ci vuole comunicare, possiamo rispondere a tre domande che immediatamente sorgono:
- chi è Dio?
- chi èl’uomo? chi sono io?
- quale risposta vuole da me questo Dio che si svelae si scopre nella genealogia?
Vuole che mi scopra, mi sveli. Forse ci può aiutare a collocarci nel modo giusto dentro questa pagina di Vangelo l’esperienza che fece alla Verna S.Francesco, quando in quella notte prolungata di preghiera, contemplazione, silenzio, Adorazione e anche supplica, prima di ricevere le stigmate continuò a pregare ponendo due domande: “Chi sei Tu? chi sono io?”. Sono le due grandi domande che la genealogia ci pone e alle quali dobbiamo rispondere arrivando poi a dire: “Bene, se questo è Dio e questo sono io, in quale relazione mi devo porre? Che cosa mi chiede il Signore?”.
- chi è Dio?
Cerchiamo di rispondere alla prima domanda con un grande desiderio, quello di poter stare – ritorna questo bel verbo – davanti al volto di Dio, ritrovando la gioia per questo volto, ritrovando lo stupore per questo volto, ritrovando la meraviglia per questo volto e dunque ritrovandoci innamorati di questo volto. Non si può non amare Dio perdutamente quando Lo si contempla, non si può non perdersi per Lui quando Lo si trova. Questa è l’unica cifra della vita – di una vita che lo abbia incontrato – amarLo perdutamente, esserne innamorati alla follia. Non c’è altra cifra per la nostra vita! Noi freddi, distaccati, incapaci di amare, attratti da tante infedeltà e da tanti tradimenti desideriamo stare davanti a questo volto con il desiderio di re-innamorarci, senza timore di questa parola che è semplicemente umana, perché prima di altre cose ci si innamora di Dio, ci si innamora di Lui, ci si dona senza riserve a Lui. Ci ritroviamo davanti a questo volto con la gioia di essere innamorati e di sapere, di riscoprire che la nostra vita è una vita da innamorati, è una vita di amore.
La genealogia è il primo punto: ci mostra personaggi molto vari, uomini e donne di diversa provenienza, di diversa cultura, alcuni importanti, altri meno, giusti e peccatori, santi e poveri, addirittura le donne al tempo non avevano valore legale, quindi la loro importanza era relativa. Questa è la genealogia, il volto di Dio che Matteo descrive, il volto di un Dio che non esclude nessuno, che entra in relazione con tutti, buoni e cattivi, abbraccia ogni uomo. Quanto ci consola questo particolare del volto di Dio, perché quei giusti e peccatori siamo ciascuno di noi, quelli importanti o quelli esclusi e dimenticati siamo noi. Tutti siamo dentro questa genealogia, nelle cose belle e nelle cose brutte, abbraccia tutti. Questa pagina ci mette di fronte a questo tratto così bello e commovente di Dio, ad una caratteristica che forse non sempre consideriamo ossia l’umiltà di Dio, perché se Dio mostrasse la Sua potenza questa genealogia andrebbe distrutta, perché non ci potrebbe essere spazio per ciò che contraddice la Sua volontà e la Sua opera, Dio potrebbe occupare tutto e dunque incendiare, distruggere, estirpare ciò che non è, tutto ciò che non è Lui. Invece Dio si fa umile e piccolo per dare spazio alla libertà, perché possano vivere i buoni e i cattivi, perché nella libertà si possa decidere una vita, perché Gli si possa dire sì, oppure no .
- C’è un’espressione dei mistici ebrei un po’ particolare, che può anche suscitare il sorriso, che si chiama zim zume indica la contrazione, cioè Dio che si contrae, si fa piccolo, per fare spazio all’uomo, per fare spazio a questa creatura piccolissima. Come affermava un autore spirituale, Taulero, l’umiltà è la virtù nascosta nel più profondo della divinità e S.Francesco, che in quella notte aveva potuto contemplare il volto di Dio, dirà nelle Lodi del Dio Altissimo: “Tu sei l’umiltà”: contemplando la propria piccolezza e povertà, Francesco capisce che Dio si contrae perché l’uomo possa avere spazio, Dio si rende piccolo perché la piccolezza dell’uomo possa sussistere; Francesco ne rimane commosso e dice: “Tu sei umiltà, perché ti puoi contrarre davanti a me, perché io possa esserci e possa amarti nella mia povertà e nella mia piccolezza”. Fermiamoci dunque sul questo tratto del volto del Signore, la Sua umiltà che mi svela un elemento di questo amore infinito con il quale il Signore accompagna la mia vita e di cui la genealogia mi parla, un Dio umile per amore, perché io possa amarlo nella libertà.
- La genealogia parla di un tempo che scorre, il tempo che passa, si parla di quattordici generazioni per tre volte. Dio, dunque è un Dio che accetta il tempo: Egli che è l’eternità e il presente senza tempo accetta il tempo, cioè accetta il mio tempo, accetta i nostri tempi. Egli che è tutto presente, accetta che io cammini nel tempo con la mia fatica, con la mia stanchezza, con i miei ritardi, stentando a dire sì, facendo un passo avanti e uno indietro nel mio cammino di conversione: è l’accettazione del tempo da parte di Dio, la pazienza infinita che scaturisce dal volto che noi contempliamo, nella quale per noi risulta una grande speranza. La speranza deriva proprio da questo, dal fatto che Dio abbia tempo per noi: Dio ha tempo, Dio ci dà un tempo, Dio attende con pazienza, Dio aspetta, si mette al mio povero, poverissimo passo e mi porta per mano, mi accompagna.
- Dio ci ama con un amore che la Scrittura non fa fatica a definire come un amore materno– oltre che paterno, sponsale, amicale – per indicare un amore viscerale, un amore che entra dentro, un amore che sconvolge l’interiorità. È un amore più forte di tutto, che non si arrende davanti a nulla, che non si ferma davanti alla mia povertà, che è tenerissimo nella sua intensità e profondità.
Una bambina, alla quale il papà un po’ alla volta stava insegnando i primi rudimenti della fede e del catechismo, ebbe un’espressione particolare e anche molto bella … la verità esce dal cuore dei bambini … Il papà le stava insegnando il segno della croce e la bambina aveva appreso il gesto con la mano destra e ora stava apprendendo le parole con le quali doveva accompagnare quel gesto: era arrivata a “nel nome del Padre, del Figlio …”, si trattava di compiere il terzo passaggio. Il papà volle provare a chiedere alla bambina come avrebbe pensato di concludere il segno della croce. La bambina, con gli occhi pieni di luce, col sorriso sulle labbra, cominciò e disse: “nel nome del Padre, del Figlio e … della mamma!”. Aveva capito perfettamente il mistero di Dio, di quello Spirito che è materno nella cura che si prende di noi!
Quando noi leggiamo la genealogia entriamo dentro questo cuore materno di Dio che accompagna la storia, che accompagna l’umanità, che accompagna me, che è umile e non si stanca della mia povertà.
I bambini ci aiutano a capire il mistero di Dio, perché ai bambini è rivelato il mistero del Regno dei Cieli. Un bambino chiese alla mamma “senti mamma, è proprio vero che Dio esiste?” e la mamma gli rispose “certo!”; il bambino disse “va bene, ora che tu me l’hai detto e me l’hai confermato, io non ho più dubbi e ci credo, però mi rimane una domanda: com’è Dio?”. Questa volta la mamma si trovò in difficoltà a rispondere: la domanda era impegnativa, soprattutto per un bambino. Allora non disse parole e fece un gesto: lo prese tra le sue braccia, lo strinse forte al suo cuore, e quando poi lo allontanò da sé, il bambino la guardò negli occhi, commosso, con le lacrime, e disse “grazie, mamma, ora ho capito com’è Dio!”.
La genealogia è come questo abbraccio della mamma, che ci fa capire com’è Dio, questo amore così sorprendente, così straordinario, così bello che ci commuove, ci tocca il cuore.
- Dio ci ama conun amore che soffre per noi. Dentro questa genealogia c’è un patire di Dio con l’uomo e per l’uomo, per il suo peccato, per le sue cadute, per le sue devianze, per le sue fatiche, per i suoi problemi. È un Dio che si accascia a terra quando l’uomo si accascia, cade, rimane ferito per il percorso della vita e della storia. Diceva Origene una frase un po’ forte per rendere l’idea, guardando tutta la storia biblica: Dio soffre per Nabuccodonosor, come a dire che Dio soffre per tutti. Dio si rende partecipe del cammino storico di tutti noi. Non è estraneo al nostro patire, non è distante dal nostro , è lì a patire e a soffrire con noi e per noi. Tutta questa genealogia si renderà presente proprio nel grande sacrificio della Croce, in quel patimento di Dio con l’uomo e per l’ uomo.
Questi quattro tratti del volto del Signore sono soltanto un’introduzione all’infinita bellezza del volto di Dio, di cui la genealogia ci parla e di cui vogliamo rimanere in contemplazione gioiosa oggi, ritrovarci ancora una volta conquistati e innamorati. Pensiamo a Paolo, quando dice “Tu mi hai conquistato” … la conquista è un’esperienza di amore! Da innamorati fermiamoci sulla seconda domanda:
- chi èl’uomo?chi sono io, quale è il mio volto?
Stando dentro questa genealogia, guardando il volto di Dio prevale la contemplazione gioiosa e innamorata; stando davanti al nostro volto, da una parte, prevale un senso di infinita gratitudine per ciò che il Signore ha operato e opera in noi, però nello stesso tempo mettiamo a fuoco anche le nostre manchevolezze e da esse scaturisce un esame di coscienza, il pentimento sulla nostra vita … meraviglie di Dio in noi e povertà di noi davanti a Dio.
- La prima caratteristica del nostro volto che la genealogia mette in evidenza è proprio la nostra libertà, quella che ci ha dato l’umiltà di Dio, perché il Suo contrarsi – quello zim zumche egli opera nella nostra storia – sprigiona la nostra libertà. Come abbiamo sottolineato, la compresenza dei santi e dei peccatori nella genealogia ci parla proprio di questa libertà, di questa possibilità che abbiamo; se andiamo a vedere la presenza dei peccatori e di figure certamente meno nobili ci accorgiamo che il peccato consiste in una cosa: non rimettere la propria vita incondizionatamente nelle mani di Dio, ma tenerla per sé, volerla per sé; non accettare Dio come Signore della storia, ma voler essere noi signori della nostra storia; non consegnare a Lui la nostra esistenza, ma pretendere di essere noi a scriverla e a portarla avanti, a determinarla; non accettare che sia Lui il padrone, il Signore del nostro destino, ma voler essere noi stoltamente artefici del nostro destino.
È questo un grande invito all’esame di coscienza, a guardarci, a considerare come stiamo camminando, perché tutti noi – poco o tanto – vogliamo essere padroni del nostro destino, vogliamo essere artefici della nostra storia, vogliamo salvarci dal perderci a motivo del Signore, vogliamo tenerci in mano per un senso di sicurezza, timorosi che lasciarci andare possa significare anche perdere, quando invece perdere dal punto di vista della fede significa vincere, perché è vincere con Dio, vincere in Dio.
Allora ci domandiamo: in che cosa ancora io vivo da padrone di me stesso? in che cosa ancora vado avanti come signore della mia vita? in quali scelte, in quali modi di pensare, in quali modi di decidere, in quali modi di comportarmi io vivo come se fossi signore della mia esistenza?
- Il secondo elemento che nella genealogia consegue rispetto al primo è la considerazione di coloro che sono giusti: all’interno di questo albero genealogico la giustizia di coloro che vi sono presentati ha esattamente la caratteristica opposta di quanto precedentemente indicato, sono coloro che si sono rimessi a Dio, cioè gli hanno detto realmente di sì, che non hanno tenuto nulla per sé, che si sono fidati senza condizioni e senza rimandi di quella Parola che li raggiungeva, di quella volontà sulla loro vita che ascoltavano e capivano essere da Dio. Non hanno avuto paura di Dio … lo dobbiamo ricordare ancora una volta, alla radice di ciò che ancora adesso ci impedisce una resa incondizionata – ricordiamoci che questo è amore: la resa incondizionata al Signore e alla sua volontà – è la paura che abbiamo di Lui, la paura che ci tolga qualcosa, la paura che venga a privarci di ciò che noi riteniamo importante, la paura che Egli non voglia davvero che io sia felice, la paura che darmi a Lui non mi realizzi come io vorrei, la paura … Dietro tanti nostri desideri di realizzazione in fondo sta proprio questo: la paura di realizzarsi con Dio, la paura di realizzarsi perdendosi in Dio, la paura di realizzarsi consegnandosi a Dio e dunque non pensando che Dio sia l’unico che realmente realizza e porta a compimento in un modo sorprendente la mia vita e le attese del cuore. Non c’è null’altro che possa realizzare la mia vita come Dio la realizza. La paura di Dio … quanti nostri modi di ragionare, di pensare, di progettare riguardo la nostra vita e quella altrui sono radicati in questa radice malata, in questo modo sbagliato di pensare la mia realizzazione, di pensare il compimento della vita, un modo errato di guardare … Solo Dio, solo la consegna, solo la perdita, solo lo smarrirmi, solo il darmi porta alla pienezza della vita, perché chi si vuol salvare si perde e si salva soltanto chi si perde, non teoricamente e in astratto, ma lì dove ogni giorno sono chiamato a perdermi, dove ogni giorno sono chiamato a lasciare me stesso, dove ogni giorno devo rinnegarmi, dove ogni giorno la mia umanità muore, perché possa avere spazio la presenza del Signore della vita: questo significa non avere paura di Dio e lasciare che Egli compia la mia esistenza.
- E poi un terzo aspetto: questa genealogia parla di una mia storia con il Signore e mi dice anche che questa storia con Dio non è mai individuale, è personale, ma sempre dentro una comunione, una comunità, una solidarietà in positivo e in negativo, perché questi nomi non sono nomi singoli, ma sono nomi di un popolo, nomi di un popolo che ha fatto una storia, nomi di un popolo che si è incontrato con il Signore, nomi di un popolo che ha trovato la presenza provvidente di Dio dentro la comunità, dentro una comunione, dentro una realtà di insieme.
Questo mi ricorda che Dio mi salva e mi vuole santo non da solo, ma con gli altri, non senza gli altri o nonostante gli altri, ma con gli altri e grazie agli altri. E in questa genealogia vediamo anche la nostra comunità, nella quale siamo chiamati a vivere: è questa comunità che Dio visita, è in questa comunità che Dio abita, è con questa comunità che Dio vuole camminare, è con questa comunità che vuole scrivere una storia di santità. Non posso pensare alla mia santità fuori della vita della comunità, isolata dalla vicenda delle altre e degli altri, perché io divento santo dentro questa storia; o rispondo dentro una comunione oppure non Gli sto rispondendo, o io sono dentro questa realtà, mi ci metto, mi ci butto fino in fondo, ci muoio e ci vivo, mi dono senza riserve, o non esiste una mia storia di santità, come non esiste per il cristiano al di fuori della Chiesa. Per noi non esiste una vicenda di santità senza la presenza degli altri.
- quale risposta vuole da me questo Dio che si svelae si scopre nella genealogia?
Che cosa deriva dall’avere contemplato la bellezza del volto di Dio – dal quale rimaniamo conquistati, innamorati – e dallo scoprire almeno qualche tratto del nostro volto presente? Tante cose le abbiamo già messe in luce, ma ne deriva poi questo in particolare: siamo chiamati a guardare indietro, a fare memoria, perché quella con Dio è una storia. Siamo chiamati a fare memoria … di cosa? Anzitutto fare memoria della grandezza di Dio nella mia vita, perché Dio è grande sempre e anche se la mia vita è piccola Lui è grande. Probabilmente proprio perché la mia vita è piccola e proprio perché è fatta di tante povertà, è fatta anche di tante meraviglie … anche perché là dove tante volte la mia vita è stata segnata dal peccato, dalla caduta, dalla ferita della mia meschinità, della mediocrità, è stata altrettanto segnata da un supplemento di amore e di misericordia e di perdono, di carità da parte del cuore di Dio. Allora la memoria è sempre una memoria colma delle meraviglie di Dio: facciamo in modo che sia colma delle meraviglie e che il nostro guardare indietro sia un guardare così … guardare indietro non può essere mai un guardare che ci affligge, ci disorienta, ci appesantisce, ci mortifica … No, non sarebbe un guardare stando dentro la relazione tra il volto di Dio e il mio volto. Il guardare indietro è sempre rimanere sorpresi, ammirati, meravigliati, commossi dell’opera che Dio ha fatto in me e con me, a volte anche nonostante me … Quando a volte guardiamo alla galleria degli orrori, guardiamo alla galleria degli orrori che il Signora ha trasformato in meraviglie! Questa è la nostra storia, quella che ci sta alle spalle, ma se questa è la storia che ci sta alle spalle, una identica storia ci sta anche davanti! Ecco perché il nostro guardare avanti è sempre un guardare con fiducia, è un guardare con speranza, sperando anche contro ogni speranza, perché quel Dio che, fedele, mi ha accompagnato nel corso della vita, ora ancora so che mi accompagnerà nonostante la mia povertà e con la mia povertà per compiere meraviglie! L’incontro del volto di Dio e del mio volto mi dice quello che la Scrittura rivela della storia umana, che la storia è storia di salvezza, che la storia è storia dei mirabilia Dei, cioè delle meraviglie di Dio. Anche la mia storia è storia delle meraviglie di Dio, così guardo indietro, così guardo l’oggi, così guardo ciò che mi attende.
Ecco perché noi non possiamo non vivere nella gioia, ecco perché noi non possiamo non vivere nella pace, ecco perché dalla nostra vita non può che trasmettersi una vitalità bella, che porta vita, che porta speranza, che porta luce là dove siamo. Ecco perché noi non possiamo non essere un pezzetto di cielo che tocca la terra e che rende la terra un po’ più celeste, a motivo di ciò che abbiamo nel cuore, a motivo di come viviamo la vita, a motivo di questo Dio che la rende bella e che attraverso Lui rende un po’ più bello ciò che noi tocchiamo e ciò che noi viviamo.
Guardare il volto di Dio e guardare il nostro significa ricordare che la mia vita e la nostra vita è questa storia delle meraviglie di Dio: la vita è bella perché Dio la incontra, e questo dobbiamo poterlo annunciare, dobbiamo poterlo testimoniare, dobbiamo poterlo fare toccare, si deve vedere che siamo degli innamorati, dei conquistati dall’amore … Rendere un po’ più cielo la terra degli uomini: questo è il nostro grande mandato, la nostra grande missione! Il cielo abita in noi perché ci abita Dio! E questo cielo possa toccare la terra, perché diventi il cielo di Dio!
Savona, 21 luglio 2019
SECONDA MEDITAZIONE
Anche quest’oggi sostiamo sul Vangelo di San Matteo. Abbiamo visto questa mattina il suo grande annuncio – quello di un Dio fedele, che non viene meno alla Sua promessa, che ci rimane accanto per portare a compimento il disegno di salvezza – e come lo abbia espresso attraverso i primi versetti del primo capitolo, cioè attraverso la genealogia. Questa buona notizia Matteo la ripete in continuazione attraverso il suo testo evangelico, tanto che la parte conclusiva – la frase che mette il sigillo sul Vangelo – in fondo non è che una sintesi di questo grande annuncio: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.”
Il discorso della montagna (Matteo 5, 12-16)
Prendiamo in esame oggi un’altra pagina nella quale ancora Matteo – se l’ascoltiamo con grande attenzione – ribadisce questo grande annuncio. Siamo al capitolo V: è il grande discorso della montagna, quello nel quale Gesù presenta le Beatitudini. Noi sappiamo che l’intero Vangelo è il corrispettivo in qualche modo dei cinque primi libri della Bibbia, perché contiene cinque grandi discorsi, corrispondenti ai cinque libri della legge o Pentateuco: dunque Gesù è il nuovo Mosè, e questo quinto capitolo del Vangelo di Matteo, che è il grande discorso della montagna, possiamo sicuramente metterlo in relazione con ciò che avviene sul Sinai: là Mosè riceve e dona le tavole della legge, possiamo dire che quello è il grande discorso di Mosè; qui Gesù dona le nuove tavole, la nuova legge: ecco il grande discorso della montagna, con al centro le Beatitudini. Appena terminata la presentazione delle Beatitudini si presenta una conclusione, una messa a fuoco, una sottolineatura, ed è proprio su questi versetti che ci fermiamo noi quest’oggi, mettendoli in relazione con un’altra pagina che troveremo nell’epistolario paolino e che penso ci aiuterà ad entrare ancora meglio dentro ciò che Matteo intende dirci, attraverso cui vuole ancora sottolineare e confermare quella buona notizia: Dio è il Dio della fedeltà, che non ci abbandona mai.
Ci fermiamo sui primi versetti, quelli nei quali Gesù prende come riferimento l’immagine del sale. Che cosa chiede Gesù ai suoi attraverso questa immagine del sale? Il sale, nella Scrittura – dobbiamo ricordarlo per capire l’intendimento del Signore – è una sostanza che svolge due grandi compiti: il primo è quello di curare e sanare ciò che è ammalato o ferito e purificare ciò che è impuro – persone o cose – con un’azione purificatrice, guaritrice, risanatrice. Accanto a questo compito ce n’è un altro che è quello di dare sapore e gusto agli alimenti. Pensiamo, ad esempio, a quelle prescrizioni del Levitico, dove proprio si attribuisce al sale una particolare potenza di purificazione: dovrai salare ogni tua offerta di oblazione … nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’Alleanza del tuo Dio … sopra ogni tua offerta porrai del sale: l’offerta va purificata perché possa essere presentata a Dio. Pensiamo a Ezechiele, quando parla dei bambini appena nati che vengono frizionati col sale per essere protetti dalle infezioni. Ecco la forza risanatrice, purificatrice, guaritrice del sale. Il profeta Eliseo, nel secondo Libro dei Re, rende sane le acque mortifere ponendovi dentro del sale.
Gesù, dopo aver presentato le Beatitudini, dice ai suoi “voi siete il sale della terra”, cioè voi siete coloro che nella terra portate guarigione, portate sanità, portate purificazione; voi entrate dentro questa realtà terrena e questo mondo purificando dal male, dal peccato, da quello che è distanza da Dio. Questa è la prima opera che voi compite: purificate, sanate, guarite. In questo senso siete chiamati ad essere sale del mondo e sale della terra. Dove voi andate, dove voi passate si risanano le acque torbide, le acque inquinate. Dove voi andate, dove voi passate, c’è una guarigione delle malattie del cuore, dell’anima, della terra. Questo è il primo dei compiti che Gesù affida ai suoi discepoli.
C’é un passaggio al capitolo 10° degli Atti degli Apostoli dove si descrive l’opera e l’agire di Gesù: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui”. Questo passo ci aiuta a capire perché noi possiamo sanare, perché noi possiamo purificare, perché noi possiamo guarire, perché in verità quel sale che dobbiamo essere è il Signore in noi. Noi siamo sale della terra non in virtù di qualche nostra particolare capacità, ma semplicemente in virtù del fatto che il sale della terra, il sale che purifica, che caccia il maligno, che sconfigge il male è il Signore Gesù che abita la nostra vita. Ecco perché l’espressione che usa Gesù non è “voi dovete essere il sale” ma “voi siete il sale, perché io abito ormai la vostra vita, io vi ho reso sale con la mia presenza, vi ho reso capaci di purificare e di espellere il male là dove state, perché sono con voi e in voi”. D’altra parte il sale ha anche la seconda grande proprietà, che è quella di dare sapore agli alimenti, cioè di portare gusto e bellezza là dove viene introdotto, di dare vitalità al cibo che altrimenti rimarrebbe inerte e informe, di dare piacere a chi lo porta alla bocca. Anche qui, perché è possibile a noi essere sale che dà gusto alla vita, che mette dentro alla vita un germe di bellezza, di colore, di vitalità? perché Lui è il sale che è con noi, perché Lui è il sale che è in noi, Lui è il sale della terra, che attraverso di noi porta bellezza, porta sapore, porta gusto. Gesù dice “voi siete il sale della terra” e noi potremmo interpretare questa parola come un compito, rispetto al quale ci sentiamo impari: “Signore, come posso io essere elemento di guarigione in mezzo a questo mondo malato? come posso io essere quel sale che risana le ferite dell’umanità? come posso io essere quel sale che porta purificazione là dove è malattia e peccato? come posso io essere quel sale che dona gusto alla vita degli uomini, che fa intravvedere una bellezza che non è di questo mondo? come posso io portare la bella notizia?” Gesù non viene ad addossarci un dovere in più rispetto a quelli che abbiamo, viene a donarci una possibilità che non è la nostra, ma che è Lui a donarci; viene a spalancare di fronte alla nostra vita l’orizzonte che noi non siamo capaci di spalancare, ma è Lui che lo spalanca in noi e attraverso di noi. Allora non c’è da dire “come io posso essere il sale della terra?”, ma c’è da dire “grazie, perché mi hai reso sale della terra! sono meravigliato perché sono diventato capace grazie a Te di sanare le malattie degli uomini! sono sorpreso perché sono diventato capace di dare gusto alla vita dell’umanità, in virtù di ciò che Tu hai operato e operi sempre nella mia vita e in virtù del fatto che Tu sei con me!”. Ecco la differenza che c’è tra sentirci dire “voi dovete essere” e “voi siete … io ho trasformato la vostra vita … siete il sale perché io, che sono il sale, sono presente in voi, vi ho reso salati!”.
Capiamo perché allora Matteo, attraverso queste parole, ci parla della fedeltà di Dio alla Sua promessa, ci parla della compagnia bella con la quale il Signore prende per mano la nostra vita, perché non ci dà un compito abbandonandoci lungo la strada, ma nel momento in cui ci dà un compito, che è stupendo, lo realizza per noi, con noi, in noi. È sempre Lui ad operare, non noi, ma Lui attraverso di noi. Ecco il Dio fedele che è con noi fino alla fine del mondo, ecco la bella notizia: io posso vivere così, posso essere il sale in mezzo agli uomini, in questo mondo!
I versetti successivi sono quelli in cui Gesù completa questo mandato e finisce di tracciare la nostra identità: “Voi siete la luce del mondo”, la luce che non può restare nascosta, ma che è chiamata a brillare per illuminare ogni cosa e ogni realtà. L’immagine della luce è molto bella, perché se il sale purifica e dà sapore, la luce porta colore, vivacità, vita, porta la sconfitta di ciò che è tenebroso, scuro, annebbiato. In fondo la luce è proprio ciò che porta vita in positivo: se il sale ha una connotazione positiva ma anche e soprattutto negativa, di purificazione, la luce è tutto positivo perché è sovrabbondanza di vita. Ci è detto: “voi siete luce perché io sono luce in voi, luce per voi, luce con voi”. Allora di nuovo noi ci domandiamo: “Signore, com’è possibile per me essere luce? come posso io portare questa sovrabbondanza di vita in un mondo toccato dalla morte? come faccio?”. Egli ci dice: “Tu puoi perché io sono la luce della vita in te e io luce ho trasformato la tua vita in luce!”.
Questi versetti in qualche modo danno completezza a quanto il Signore ha detto nelle Beatitudini. È importante che li consideriamo proprio in relazione alla Beatitudini, perché le Beatitudini non sono il grande discorso con il quale Gesù, da un punto di vista semplicemente moralistico, viene ad imporci un peso sulla vita. Che cosa sarebbe cambiato rispetto a Mosè, che cosa sarebbe cambiato rispetto alla legge del Sinai? Non sarebbe cambiato nulla, anzi, la nostra situazione sarebbe peggiorata, perché la profondità di ciò che Gesù dice sul monte delle Beatitudini supera la profondità della legge del Sinai e quindi ciò che viene domandato sul monte delle Beatitudini sarebbe qualcosa che ulteriormente verrebbe a gravare sulle nostre spalle, facendoci toccare con mano la nostra impossibilità a viverlo, come in fondo Israele toccava con mano che non era possibile vivere i dieci Comandamenti, ma doveva fare questa esperienza perché dal cuore di Israele sgorgasse la supplica: “Signore, vieni, scendi, salvaci!”. Era la pedagogia di Dio, perché Israele potesse attendere il Salvatore, il Messia, ma Gesù non viene per farci attendere ancora qualcuno, anzi, è qualcuno ancora più capace di togliere dalla nostra vita questa incapacità e questa impotenza. Le Beatitudini non sono una ripresa nella linea della legge del Sinai, ma sono l’espressione di ciò che noi siamo, di ciò che noi possiamo, di quello che ci è donato! Tutto il discorso della montagna va in questa direzione, per cui quando noi ascoltiamo queste parole – e quando soprattutto noi ascoltiamo Gesù che dice “vi è stato detto, ma io vi dico” – non commettiamo l’errore di interpretare “vi è stata detta una cosa grande, difficile, bella, ma io vi dico un’altra ancora più bella e ancora più difficile … coraggio, fatela!”. No, Gesù dice “vi è stato detto, ma io vi dico” per dire “io vi dono e vi metto nel cuore non soltanto quello che era stato detto, ma qualcosa di più, la mia Parola che opera! Io sono Parola vivente, operante, quindi quello che vi dico, faccio e quello che adesso vi metto davanti agli occhi è quello che faccio nel cuore, quindi ormai voi siete questa capacità stupenda di vivere una vita nuova, che è la vita stessa di Dio, la vita della santità di Dio!”.
Questa è la vita cristiana! Molte volte – personalmente e anche nel modo di testimoniare – non è proprio questo che noi viviamo quando pensiamo che il cammino della santità sia uno sforzo titanico con il quale cerchiamo disperatamente di raggiungere le mete … e non ci arriviamo mai … Non c’è sforzo titanico che tenga, ma allora com’è possibile vivere le Beatitudini? Nessuno ci riesce, umanamente parlando? Tante volte viviamo la nostra testimonianza come l’offerta di un giogo che schiaccia e distrugge la vita, perché ci troviamo di fronte a qualcosa di bello ma opprimente … Invece Gesù ci chiama a vivere in prima persona la vita della fede come una vita di liberazione, liberante, perché finalmente sono liberato da quello che mi opprimeva, da questa incapacità che mi imprigionava … e quando parlo e testimonio il Vangelo, devo parlare e testimoniare di una verità, di un incontro che finalmente mi libera dalla mia schiavitù, mi toglie da quell’ambiente angusto nel quale sono spalancando un orizzonte di bellezza e di vita! Questa è la buona novella: non ascoltare parole che mi propongono mete irraggiungibili dalle quali mi sento schiacciato nella mia povertà e che io propongo al mondo rendendolo ancora più schiavo, perché gli dico che deve fare qualcosa che tanto non riuscirà mai a fare e sotto il peso del quale morirà …che bella notizia è questa?!?! No, la bella notizia è la libertà che è stata donata, una vittoria che già è mia, una potenzialità nuova che mi mette nella condizione di vivere una vita bellissima, perché è quella di Dio, che non devo io cercare disperatamente, ma che ormai ho dentro, porto nel cuore, piantata nelle radici della vita: questa è la bellezza della nostra vita personale e della testimonianza che viviamo! San Matteo viene a dirci questo, ecco perché il suo Vangelo, anche in questo passaggio del 5° capitolo, è una bella notizia, è un annuncio di gioia, perché esattamente viene a dirci questo!
L’inno alla carità (1 Corinzi, 13)
Questa pagina del Vangelo di Matteo noi la vogliamo oggi considerare in relazione con un’altra pagina che ci porta nel cuore dell’epistolario paolino, l’inno alla carità. Noi siamo sale della terra e luce del mondo perché la carità brilla nella nostra vita, perché è la carità che rende nuova la nostra vita, perché è la carità che rende affascinante la nostra vita, perché è la carità che conquista al Signore la nostra vita. Ma che cos’è la carità? Forse le opere buone che facciamo noi, quelle poche cose che nella nostra povera umanità riusciamo ad organizzare di bene, quel povero amore che il nostro povero cuore riesce a esprimere? Sarebbe questa la carità capace di affascinare il mondo e conquistare il Signore? No … la carità, dice San Paolo, è l’amore di Dio riversato nei nostri cuori, è la vita di Dio nel nostro cuore, è l’amore infinito di Dio dentro di noi, è la carità del cuore di Cristo che abita questo nostro povero cuore malato. Allora l’inno alla carità di San Paolo – che ha capito benissimo Matteo, perché era ebreo come Matteo – non è l’inno a qualcosa che dobbiamo fare, perché dobbiamo essere benigni, perché dobbiamo non vantarci, perché dobbiamo … No, è l’inno ad una realtà che Paolo trova dentro di sé, cioè l’inno a un dono che egli ha ricevuto, l’inno all’amore Dio che palpita nel suo cuore, l’inno carico di stupore e di meraviglia per una vita che lui avverte e che tutto ha cambiato di quello che lui era prima. San Paolo in prima persona aveva sperimentato questo passaggio, lui che come Matteo-Levi, il pubblicano, apparteneva al popolo di Israele, Levi come peccatore, Paolo come giudeo osservante e particolarmente deciso nel testimoniare e propagare la legge. Che cosa gli accade a Damasco? Quale è il cuore della sua vicenda di conversione, quella caduta, per la quale in lui il mondo cambia? qual è il cambiamento che Paolo vive? Esattamente questo: il passaggio dal mondo della legge al mondo della Grazia, dal mondo di chi – con le proprie forze, senza riuscirci – vuole conquistarsi un posto davanti a Dio al mondo di chi invece si accorge che quel posto gli è già stato conquistato dall’amore di Dio, dalla Grazia di Dio! Questo passaggio, questa caduta, noi tante volte dobbiamo ancora viverla, perché siamo nel mondo precedente, in un mondo antico, in un mondo vecchio, il mondo che era di Levi, il pubblicano. Matteo sul monte ha capito che c’era un mondo nuovo, Paolo quando è caduto da cavallo si è accorto che si apriva un mondo nuovo … non per nulla diventa cieco sul mondo di prima e apre gli occhi sul mondo nuovo. Lo spartiacque decisivo per Matteo è sul monte delle beatitudini, per Paolo è sulla via del Damasco. Il mondo vecchio non c’è più, la schiavitù è abbattuta: c’è un mondo nuovo, il mondo della libertà, della Grazia, di questa potenzialità nuova, della carità di Cristo che ormai ha preso possesso della nostra vita e del nostro cuore. Perciò l’inno alla carità è un canto di sorpresa, di lode, di gratitudine e meraviglia di fronte a qualcosa che noi abbiamo in dono: la carità del cuore di Cristo! Paolo si guarda dentro e scopre che si può amare così, che la sua vita può essere una tale carità, può essere luminosa a tal punto! Per questo Paolo inizia l’inno alla carità introducendolo per tre volte, riprendendo cose così importanti, così belle, ma per le quali senza la carità non c’è nessun valore … In questi tre passaggi Paolo ricorda l’uomo vecchio, quello che in fondo lui voleva avere, poteva avere, ma senza la carità è nulla, non giova a nulla. La carità non avrà mai fine, perché è l’amore di Dio, e che cosa rimarrà nell’eternità, se non Dio amore e null’altro? e dunque rimarremo noi, quando avremo l’amore di Dio, la carità di Dio! Allora anche noi oggi, con l’aiuto di Matteo e di Paolo, vogliamo innalzare il nostro inno alla carità del Signore nostro Dio, alla salvezza che il Signore ci ha donato, alla vita nuova che è dentro di noi, a questa libertà nella quale ormai viviamo e siamo chiamati a vivere!
Vogliamo ancora per un momento sostare su quanto l’apostolo ci dice nell’inno alla carità, come abbiamo sostato su quelle due immagini del sale e della luce … sostiamo un momento su questa carità, che siamo chiamati a vivere perché l’abbiamo, perché ormai è la nostra, perché ci è stata donata … per gustare e quindi per non ricadere nell’errore, per gustare quello che noi siamo ormai, quello che la nostra vita è … semplicemente dobbiamo lasciar fare, dobbiamo lasciare che prenda corpo dentro di noi, lasciare che viva dentro di noi … questa carità è tutta racchiusa nel cuore, dobbiamo lasciare che si sprigioni e che prenda forma nella nostra vita! Allora noi passiamo in rassegna queste espressioni della carità che Paolo elenca proprio per dire “guarda che bellezza che mi porto dentro! guarda chi sono! guarda chi ogni giorno della vita posso essere! guarda come io posso vivere! lascia che la carità di Gesù prenda il sopravvento nel mio cuore!”.
- La carità è paziente: il termine paziente ha in sé la radice etimologica del “portare” (dal verbo latino patior, porto), perché la carità è paziente in quanto porta su di sé l’altro … Come è bella quella sorella che è capace di portare su di sé l’altro e i suoi dolori perché li fa suoi, di portare le pesantezze dell’altro perché le fa sue, di portare le fatiche di chi vive accanto a lei perché le fa sue … e com’è bella anche la sorella che è capace di portare le gioie dell’altra perché le fa sue, perché quelle gioie sono anche sue personali! La carità è paziente perché porta. Il Signore ci ha dato questa capacità di amore, di saper portare l’altro sulle nostre spalle e sul nostro cuore con le sue gioie e con i suoi dolori, perché ci sta a cuore!
- La carità è benigna: come è bello quando abbiamo una sorella che è buona, non solo perché – come si dice a volte nel nostro modo di parlare – è una donna buona, ma perché mi accorgo che i suoi occhi esprimono bontà, il suo volto dice bontà, la sua parola è bontà, la sua presenza è dono, bontà e rende buone le relazioni, l’ambiente, la vita … Io spesso racconto quanto tante volte ha raccontato a me il Cardinale Canestri che, diventato parroco, era andato ad incontrare il suo Vescovo di allora, a Roma, di cui lui era molto amico e gli aveva chiesto in quell’occasione un consiglio per poter iniziare il suo nuovo ministero come parroco. Il Vescovo gli aveva risposto così : “Sì, volentieri te ne do uno: sii buono e non sbaglierai mai!”. Diversi anni dopo, diventando Vescovo, era andato di nuovo dal suo amico ponendogli la stessa domanda: “Iniziando questo nuovo importante ministero, mi dia un consiglio” e ne aveva ricevuto la stessa risposta: “Te l’ho già detto una volta: sii buono e non sbaglierai mai!”. La bontà è un’espressione bella della carità del cuore del Signore presente dentro di noi, possiamo essere così belli, perché pazienti, possiamo essere così belli, perché buoni!
- La carità non è invidiosa: vorrei mettere adesso qui in evidenza ciò che noi viviamo nelle relazioni quotidiane, soprattutto all’interno di una comunità là dove si incontrano, si incrociano età diverse, strade diverse, vite diverse. Tante volte viviamo questa sorta di concorrenza, di invidia e di gelosia che prende una forma particolare … ma vediamo in positivo: colui che è più avanti in età ha un’esperienza da dare, storia da donare, delle radici da custodire e trasmettere. D’altra parte chi invece è ancora giovane in età ha uno slancio da portare, una novità da introdurre, una speranza da donare. Il vivere insieme non è nell’invidia, non è nella gelosia: da questo punto di vista è la capacità di sapersi reciprocamente dare quei doni che caratterizzano l’età e la storia di ciascuno. Io ti donerò la mia esperienza, ti darò la mia storia, guarderò con simpatia la tua novità, il tuo slancio, la tua speranza. Io non posso essere invidioso di te che sei giovane, cominciando a dire “questo non va, quest’altro non va, questo non si è mai fatto, questo quando ero giovane non si faceva” … E’ una sorta di invidia che mortifica la vita e che tra l’altro va contro di me, perché tu sei il mio domani, tu sei la possibilità che quello che ho vissuto, la mia storia, le mie radici, la mia esperienza possa proseguire. D’altronde tu che sei giovane devi guardare con interesse chi è avanti negli anni, che ti consegna un patrimonio che tu dovrai portare avanti anche con delle novità, quel patrimonio che è la tua storia, le tue radici … E allora non dirai “questa non capisce più niente”, ma la guarderai con amore e con ammirazione per quello che è, la sua storia, la sua vita. Ecco che cosa significa non essere invidiosi dentro una realtà comunitaria, che ha una sua storia, e così siamo belli nella carità … come è bello lo sguardo di una sorella anziana che mi vuole comunicare quanto ella ha vissuto, ma nello stesso tempo mi osserva con simpatia, perché vede crescere dei germogli, li aiuta a crescere e non li abbatte … e com’è bella quella suora giovane che è piena di slancio, che porta la propria novità, che porta la freschezza della sua vita giovane, ma anche guarda con tanto rispetto, con ammirazione, con il desiderio di apprendere un’esperienza di vita inestimabile, che è stata vissuta, che è un patrimonio. Ecco la carità che non è invidiosa: noi possiamo vivere da non invidiosi questa bellezza della carità, del cuore Signore.
- La carità non si vanta: c’è un modo di vantarsi che tante volte ci caratterizza ed è quel vanto che noi esprimiamo attraverso il giudizio, il giudizio velenoso, cattivo, che fa morire, che propaga veleno di morte. Perché quello è un vanto? Perché, quando noi giudichiamo, giudichiamo in modo cattivo, ci mettiamo al di sopra dell’altro, siamo sulla cattedra di chi può dare i suoi giudizi incondizionatamente. Mi sento più alto, mi metto più in alto dell’altro, che è là in basso e deve prendere su di sé questo veleno cattivo del mio giudizio. La carità, invece, non si vanta, perché mi rende capace di mettermi sotto la cattedra e di guardare non dall’alto in basso, ma dal basso verso l’alto, sapendo riconoscere la bellezza dell’altro, la bontà dell’altro, sapendo mettere in evidenza le cose positive dell’altro, facendo risaltare la luce dell’altro e non sempre le ombre e l’oscurità.
C’era un monaco che in monastero era conosciuto per essere costantemente in ritardo. Era un monaco benedettino, pertanto la puntualità era un elemento importante dell’osservanza monastica. Eppure in coro arrivava sempre tardi e quindi, ogni volta, come sapete, doveva mettersi in ginocchio e sottostare alla penitenza monastica che l’abate gli dava. E questo andò avanti fino all’ultimo dei suoi giorni. Morì e, come accade nei monasteri benedettini, l’abate fece un profilo di questo suo monaco e, tra le altre cose, disse questo particolare, che era noto a tutti e per il quale spesso questo monaco era sulla bocca di tutti, perché lo giudicavano e lo consideravano imperfetto nella sua vita monastica. L’abate cominciò a tracciare il profilo, poi arrivò a questo dato della vita del suo monaco e quindi si fermò e disse ai monaci che erano riuniti nel coro: “Vedete, questo nostro fratello per tutta la vita è arrivato in ritardo alla preghiera e al coro, e voi l’avete giudicato, ma dovete sapere che questo nostro fratello era un uomo di grandissima orazione e tutte le notti per lunghe ore vegliava in preghiera senza che nessuno di voi lo sapesse; lo sapevo io, e per mantenerlo umile gli avevo dato questa penitenza: di arrivare sempre in ritardo al coro”. - La carità non manca di rispetto:significa dire all’altro “tu sei importante, tu vali, io ti rispetto, sei degno della mia attenzione”. Purtroppo c’è una realtà triste nelle nostre esistenze comunitarie: noi a volte non soltanto non viviamo una carità bella e fatta di slancio, ma a volte manchiamo di rispetto, addirittura manchiamo di una sana educazione, che è la prima forma della carità. Pensate a quelle parole dette senza educazione, mancando di rispetto, pensate a quei modi di comportarci che mancano di rispetto e che non sono educati, pensate a quei musi prolungati che sono mancanza di rispetto e che non sono educazione. Per una mancanza di rispetto e di educazione nelle comunità a volte ci prendiamo in negativo delle libertà che fuori non sarebbero possibili, perché in un contesto diverso mi farebbero pelo e contro pelo … Nelle nostre comunità questo si sopporta, ma questa è la carità del cuore di Gesù? Allora, in positivo, com’è bella quella sorella, quella consacrata che non manca mai di rispetto, perché si vede che nel suo cuore vive la carità del cuore del Signore, che le fa percepire la bellezza e la dignità, l’importanza, il valore di chi ha davanti, che tratta con delicatezza, con attenzione! Ognuna ha un tesoro che è rispettato, guardato con attenzione, con amore, trattato con altrettanta attenzione, con altrettanto amore!
- La carità non cerca il suo interesse: a Roma c’era un grande confessore, padre Felice Cappello, di cui è in corso la causa di beatificazione, uno dei grandi confessori di Roma del secolo scorso. Padre Cappello, che era un grande moralista e un uomo anche di grande cultura, era un gesuita. Veniva spesso consultato dal Cardinale Vicario di Roma, proprio perché di lui si fidava molto. Un giorno lo convocò insieme ad altri collaboratori: c’era una questione importante, per la quale doveva arrivare ad una decisione, e quindi convocò i suoi collaboratori e insieme chiamò anche il padre Cappello. Li incontrò nella sala dell’episcopio e, dopo aver posto la questione, ad uno ad uno chiese il parere. Ciascuno, in verità, aveva già ricevuto prima dal Cardinale le informazioni circa la problematica, quindi aveva avuto la possibilità di pensare, e ognuno tirò fuori un po’ quello che aveva preparato e disse il proprio punto di vista. Terminato il giro della consultazione, mentre la riunione stava per finire, uno dei presenti si accorse che, per svista o per dimenticanza, il Cardinale consultando i singoli aveva saltato padre Cappello, e allora disse: “Eminenza, guardi che forse abbiamo dimenticato di sentire padre Felice”. E il Cardinale disse: “Padre, abbia pazienza, mi sono accorto forse adesso che non abbiamo il suo parere”. Il padre, che era stato lì buono, buono, non si era scomposto di fronte a questa dimenticanza un po’ grave. Si chinò sulla sua borsa, tirò fuori dalla borsa i fogli che aveva preparato, probabilmente con ore e ore di studio, di lavoro e, con grande umiltà, lesse il suo parere in merito alla questione che gli era stata sottoposta. Terminata la lettura, tutti gli altri, che avevano ascoltato in profondo silenzio, cambiarono il loro parere e la decisione che venne presa fu proprio quella che in primo tempo era stata scartata. Quest’uomo, che aveva lavorato duramente per arrivare preparato, se non ci fosse stata quella persona che si era accorta che non era stato consultato sarebbe rimasto zitto, avrebbe ripreso la sua borsa e sarebbe tornato a casa sua senza dire niente. Ecco la carità che non si vanta: aveva vissuto la carità perché aveva dato ore del suo tempo prezioso per prepararsi, ma sarebbe stato pronto a non dire il suo parere, perché la carità non si vanta, è silenziosa, discreta, nascosta.
- La carità non si adira: un giorno un monaco giovane si recò da monaco più anziano perché si era accorto di avere un grande difetto, cioè di reagire in modo sproporzionato di fronte a quello che lo feriva, lo infastidiva o riteneva una cosa ingiusta, non buona, non bella; reagiva in modo che capiva non andava bene, metteva disagio nella comunità, insomma era come se fosse colto un po’ da momenti di ira. Allora andò da questo padre anziano e disse: “Padre, io ho questo problema, che cosa posso fare? che cosa mi consigli?”. Allora le parole del padre anziano: “Se hai litigato con tuo fratello e ti proponi di ucciderlo, prima siediti e fuma una pipa; finita la prima pipa, ti accorgerai che la morte, tutto sommato, è una punizione forse troppo grande per la colpa commessa e ti proporrai di dargli soltanto una buona bastonata. Allora carica la seconda pipa e fumala fino in fondo: alla fine ti persuaderai che alcune parole energiche, tutto sommato, possono sostituire anche le botte. Allora carica la terza pipa, e quando avrai finito di fumarla, sai che cosa ti capiterà? Andrai dal tuo fratello e lo abbraccerai!”. La carità è questa capacità di non essere totalmente in balia delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, delle proprie passioni, questa capacità di saper arginare, di saper contenere, in vista di un qualcosa di più grande, di più bello, e di un volere bene autentico.
- La carità non tiene conto del male ricevuto: qui ciascuno potrebbe riflettere su quanto siamo capaci di perdonare autenticamente. Dico solo questo: a volte nelle relazioni fraterne, soprattutto nelle comunità, ci sono dei rancori che vengono custoditi nel cuore per anni, se non per tutta la vita, e dopo tanto tempo – dopo che sono passati anni e a volte dopo che è passata una vita – ancora c’è chi dice “questo mi ha fatto … quello mi ha detto …”. Questo a volte è una realtà della nostra miseria, ma quale capacità di perdono è la carità del cuore di Gesù, che muore in croce perdonando!
- La carità non gode dell’ingiustizia: c’è un’ingiustizia che noi reciprocamente ci facciamo, a volte interiormente – perché non la esprimiamo – altre volte con la parola … è quella che si realizza quando noi svalutiamo gli altri e mettiamo in evidenza ciò che è negativo. Quante volte questo accade: godiamo, proviamo piacere nel sottolineare che l’altro ha sbagliato, che l’altro non ha quella dote, che ha quella imperfezione … La svalutazione dell’altro è un’ingiustizia: la carità del cuore di Gesù non ci fa godere dentro l’ingiustizia, ma ci fa godere solo della giustizia e cioè ci rende capaci di mettere in evidenza la bellezza altrui, la bontà altrui, il bene.
- La carità si compiace della verità: la verità è anche la concretezza del bene e della carità …
C’era una donna molto semplice, che nella sua vita aveva fatto, la mamma di famiglia stando a casa e quindi dedicandosi alle cose della casa, dei suoi figli, del marito, aveva vissuto anni e anni così. Quando morì, andò verso le porte del paradiso e lì in lontananza vide Gesù che accoglieva coloro che gli si presentavano innanzi. Mentre si avvicinava, cominciò a sentire Gesù che diceva “entra nella mia casa, tu che hai versato il sangue per testimoniare il Vangelo”, e poi “entra nella mia casa, perché tu hai parlato bene di me, hai insegnato, hai annunziato il Vangelo”, e poi ancora “entra nella mia casa, perché hai realizzato questa grande opera per me”. Questa umile donna, man mano che si avvicinava, cominciava a preoccuparsi e a dire a stessa “io veramente di queste cose non ne ho fatto nella mia vita. Cosa mi dirà il Signore?”. Quando fu sulla soglia del paradiso, Gesù l’accolse con un grande sorriso e lei Gli disse “Signore, non so che cosa ho da presentarti …”, ma Gesù le fece un sorriso ancora più grande e le disse “entra, perché tu mi hai stirato tante camicie”. La verità della carità è la carità che si rende concreta in quei dettagli della vita, in quella concretezza della vita che non fa capriole di fantasia, ma che sa realizzarsi lì, nella realtà e nella concretezza in cui si trova.
Questo è l’inno alla carità, che dobbiamo considerare per mettere a fuoco le nostre incongruenze, ma soprattutto per fare risaltare ciò che la nostra vita può essere nella misura in cui lasciamo spazio a quell’amore che è stato riversato nei nostri cuori. Allora oggi, in questa giornata, innalziamo anche noi un inno di ringraziamento al Signore perché, come ci ricorda Matteo, è il Dio fedele che non ci lascia, che ci dona la libertà della vita nuova e ci salva.
Savona, 22 luglio 2019
PRIMA MEDITAZIONE
Mentre invocavamo lo Spirito Santo su di noi pensavo come sia importante che questa invocazione accompagni questi giorni degli Esercizi, ma anche in generale il cammino della nostra vita, perché davvero abbiamo bisogno di questo Spirito che venga in noi e a volte ci aiuti a piangere con sincerità sulle nostre colpe, altre volte a provare la gioia per la fede che ci è stata donata, altre volte a ritrovare lo slancio del cuore affaticato dalle vicende delle nostre giornate. Davvero questo Spirito è vita, vita di Dio in noi che dobbiamo con tanta fiducia continuare a invocare su di noi anche durante gli Esercizi. Certo, c’è il momento dell’invocazione comunitaria, ma mi pare importante che ci sia anche quasi continuamente il momento di una invocazione personale perché questo Spirito scenda e muova davvero il cuore, perché possa orientarci in modo completo, integrale, definitivo verso Dio. Lo Spirito è l’amico della nostra vita spirituale, lo Spirito è il grande alleato nella nostra quotidiana ricerca del volto di Gesù e dunque della santità. Ecco perché dobbiamo davvero continuamente invocarlo con tanta fiducia, anche perché in verità qual è la grande domanda che racchiude tutte le altre domande e che il Signore stesso ci invita a fare? E’ proprio la domanda che invoca lo Spirito Santo, perché nello Spirito Santo c’è tutto e noi non sempre prendiamo con la dovuta serietà questa indicazione che Gesù ci offre. E’ la richiesta più bella, più importante della vita, è quella che racchiude tutte le altre richieste che possiamo portare nel cuore e formulare nella nostra preghiera.
Abituiamoci a questa invocazione ripetuta perché lo Spirito scenda su di noi: l’invocazione che abbiamo cantato oggi conosce delle note alte e a volte è un po’ faticoso arrivarci … comunque la fatica del salire ci dice che invocare lo Spirito Santo significa esattamente questo: andare in alto, supplichevoli, per portare giù presso di noi lo Spirito. E’ bello arrampicarsi con la voce nelle note più alte e chiedere allo Spirito “vieni, vieni, …”.
Il cammino degli Esercizi Spirituali
Il cammino degli Esercizi Spirituali prevede abitualmente tre tappe per il lavoro personale che ciascuno è chiamato a fare durante gli Esercizi stessi:
- la via purificativa:punta alla riforma del cuore e della vita, è quel momento nel quale noi guardiamo da dove veniamo, come stiamo e facciamo il punto della situazione. E’ il momento nel quale ci decidiamo con forza a riformare quanto capiamo che ci separa da Dio al momento presente, è quella via che tradizionalmente viene sintetizzata così: deformata reformare, le cose che sono deformate, cioè che non sono in sintonia con la forma della nostra vita, le dobbiamo riformare, cioè riportare alla forma vera, la forma bella. La forma della nostra vita chi è? E’ Gesù! Noi deformiamo questa forma e allora dobbiamo riformare ciò che abbiamo deformato attraverso il peccato e attraverso la nostra ribellione al Signore. Deformata reformare: questo è il grande esercizio che nel tempo degli Esercizi Spirituali siamo chiamati a fare. Di fronte a Gesù Lo guardiamo, ritroviamo in Lui ciò che dobbiamo essere, capiamo ciò che si è deformato in noi e lo riformiamo, per cercare di riprendere quella forma originaria che ci è stata donata dal Signore, il Salvatore.
- la via illuminativa:è il momento nel quale noi con gioia e con rinnovato slancio del cuore cerchiamo di conformare la nostra vita al Signore ed è quello che con il linguaggio della tradizione spirituale sintetizziamo dicendo riformata conformare, cioè quello che noi abbiamo rinnovato vogliamo conformarlo pienamente all’immagine, a Gesù, a cui dobbiamo sempre più somigliare, di cui dobbiamo riproporre i tratti del volto, del cuore, degli occhi, della vita, della nostra personale esistenza. Anche questo fa parte degli Esercizi, riformata conformare. Quale strada devo percorrere per vivere conformemente al Signore della mia vita?
- la via unitiva:tende a farci diventare sempre più partecipi della vita stessa di Gesù, perché questa vita sia dentro la nostra vita: è quello che con il linguaggio della tradizione sintetizziamo dicendo conformata confirmare.
Ecco quello che gli Esercizi devono portarci a realizzare: non ci sarebbero realmente Esercizi senza il passaggio attraverso queste tre tappe. Questo è l’esercizio spirituale che con la Grazia di Dio siamo chiamati a fare ogni volta per ritrovare la via, rimetterci saldamente su di essa e radicarci con una decisione definitiva, vera, totale. Questo triplice passaggio è quello che l’Evangelista Marco intende farci fare attraverso il suo Vangelo: chiediamogli l’aiuto per cogliere nelle sue pagine e nelle sue parole un’altra espressione della buona notizia del Vangelo per la nostra vita.
Gesù è la bella notizia
Si è detto che Matteo è un po’ il Vangelo del catechista, cioè il Vangelo di chi presenta Gesù come il grande catechista che porge la novità della Parola, la novità della salvezza. Si dice che il Vangelo di Marco è il Vangelo del catecumeno, colui che inizia e poi conferma la propria sequela del Signore, punta gli occhi su Gesù, che è la forma della sua vita, guarda la propria vita deformata, la riforma, la conforma su quel Gesù a cui si è appassionato e poi si conferma in questa appartenenza al Signore con decisioni precise e concrete che riguardano la sua esistenza.
Ecco, noi ci mettiamo alla scuola di Marco per puntare oggi gli occhi su Gesù, anche perché la bella notizia, così come Marco la esprime, è sempre quella di cui parla Matteo, di cui parla Luca, di cui parla Giovanni, ma ciascuno la esprime secondo categorie proprie, non soltanto legate alla personale esperienza della fede, ma anche in relazione alla comunità cristiana a cui si riferisce. Per Marco la bella notizia è un nome, Gesù: Gesù è la gioia, Gesù è la bella notizia che è entrata nel mondo, Gesù condensa in sé tutto quello che può realmente portare l’uomo al proprio compimento definitivo e salvarlo. Questa in Marco è la bella notizia. Quando noi percorriamo il Vangelo di Marco dobbiamo vederlo come condensato in quell’esperienza che fece Francesco quando a Natale – ci racconta il biografo – nominando il nome di Gesù, il bambino di Betlemme, si leccava le labbra per gustare la dolcezza di questo nome che risuonava nella sua bocca e nelle sue labbra. Ecco, Marco vive questa esperienza di gustare la bellezza e la dolcezza del nome di Gesù in cui è tutto, perché è condensato tutto il progetto di Dio sulla storia e sull’uomo, e di questa dolcezza che lui gusta con le proprie labbra ci vuole rendere partecipi, vuole che anche noi ascoltiamo questa bella notizia e troviamo in Gesù la dolcezza della vita, la gioia della vita, tutto ciò di cui abbiamo realmente bisogno, in modo sovrabbondante e imprevedibile. Questo è il Vangelo di Marco ed è proprio su questo che cercheremo di porre attenzione considerando alcuni testi.
Quello di Marco è il più breve dei 4 Vangeli e anche il più antico. Chi lo legge, – si tratta più o meno di 670-687 versetti – lo legge tutto di un fiato (tanto che è stato definito il Vangelo di una notte) e quando lo si legge con attenzione (sarebbe interessante leggerlo di seguito, in una volta sola) si coglie questa passione che Marco ha per Gesù, la sua persona, la sua vita, il suo nome, ciò che Egli fa, ciò che Egli dice. Chi lo legge così rimane colpito da una tensione che percorre il racconto dall’inizio alla fine: c’è una tensione che procede dal passato e va verso il presente, perché Marco, intende parlare ai destinatari di oggi, dal passato al presente. Fa memoria della vita di Gesù e dell’opera di Gesù perché tu, che oggi ti avvicini all’annuncio della fede, ti possa accorgere della bellezza di questo nome e di questo volto.
E’ il Vangelo per i catecumeni, quindi c’è l’interesse per il presente, e Marco desidera che chi accosta oggi l’annuncio del Vangelo ne colga tutta la bellezza, i tratti del volto e del cuore del Signore. Però c’è un’altra tensione che si intreccia con questa, una tensione che procede dal presente al passato, perché chi oggi incontra Gesù si pone delle domande: voglio capire di più chi era, come ha vissuto, cosa ha detto, qual è il segreto della sua vita, dove sta la sua profonda identità … Ecco, Marco porta il catecumeno ad incontrare oggi la bellezza del Signore e poi porta il catecumeno a ciò che è stato, ad entrare dentro la vita del Signore e appassionarsi sempre di più a Lui. Il Vangelo di Marco è un Vangelo che vuole appassionare a Gesù, che vuole rendere innamorati di Gesù, che vuole legare a Gesù con un legame di amore. Questo è quello che Marco vuole trasmettere ai catecumeni, a chi si avvicina per la prima volta alla fede. Ecco il punto di arrivo del catecumeno, che condotto per mano da Marco ha guardato la vita del Signore, ha ascoltato la sua Parola, ne ha considerato il contenuto, ha contemplato i gesti e arriva a dire come il centurione “questo davvero è il Figlio di Dio, Colui dal quale sono salvato, in cui trovo la vita, in Lui il cuore trova la pace e trova l’appagamento che sempre ha cercato!”. E’ questo il cammino che Marco fa fare al catecumeno e anche a noi, perché anche noi, in verità, abbiamo bisogno di ritornare a questa centralità di Gesù. Qualcuno ha detto che oggi la vita dei cristiani è riempita da tante cose, ma svuotata della presenza di Cristo e dell’adesione a Cristo. E’ un po’ dura l’espressione, ma a volte è vera! Anche perché noi cristiani ci lasciamo prendere da tante cose, pensiamo a cose pur buone e belle – la pace, i valori, la questione ecologica – ma … dov’è Gesù? Non rischiamo di svuotare il cuore di Gesù, altrimenti che cosa siamo? Dei volontari di un’associazione, come ce ne sono tante … ma noi siamo ben altra cosa! Ecco allora perché è importante che noi entriamo nel Vangelo di Marco lasciandoci portare per mano a recuperare la centralità della presenza del Signore, ripartendo poi sempre con Lui mano nella mano, cuore nel cuore, occhi negli occhi, dando la vita a 360° a partire da lì, con la forza rinnovatrice di questa Presenza che fa cambiare tutto, anche i modi con cui gestiamo ogni realtà. In altre parole attraverso Marco noi arriviamo al termine dell’itinerario che ci fa percorrere, dicendo insieme a S. Paolo davvero per me vivere è Cristo!
Vediamo ancora alcuni brani di questo breve ma splendido Vangelo. Quello che Marco fa fare è un cammino progressivo: egli parla al catecumeno, lo prende per mano perché vuole che progressivamente compia il cammino dell’ingresso nella realtà della fede e nella crescita dell’appartenenza della fede. Questo itinerario progressivo aiuta il catecumeno a capire che la vita di fede è una vita in progresso, cioè una vita in crescita, un cammino in una conoscenza sempre più profonda del Signore, in un’appartenenza d’amore sempre più radicale. Quindi è un itinerario che aiuta fin dall’inizio il catecumeno a capire che tutta la sua vita sarà in realtà un itinerario progressivo, un’ascesa, un andare verso la misura alta della vita cristiana senza fermarsi mai. E Marco lo ricorda anche a noi, che oggi diventiamo catecumeni con i catecumeni! Tante volte procediamo stancamente e diciamo “quello che dovevo fare l’ho fatto” oppure “tanto di più non ce la faccio, non è per me”, invece Marco ci dice “no! il tuo essere concentrato su Gesù ti porta ad andare sempre fuori da te e a pensare che il cammino è sempre in progresso, che hai sempre da raggiungere qualcosa di nuovo e di più, che la santità è il senso della tua vita, dunque il camminare verso, non lo stare fermo, ma andare verso …”. Questa conquista del volto di Gesù mette in movimento. Certo, se siamo davvero conquistati della bellezza del Signore, del suo amore per Lui il cuore si muove. Se il cuore non si muove, è perché si è annebbiata la bellezza del Signore e la conoscenza di Lui.
Un altro aspetto dell’itinerario che Marco propone al catecumeno è che si presenta come un itinerario impegnativo. Marco nel Vangelo non fa sconti, quindi presenta in tutta la sua radicalità ciò che comporta mettersi alla sequela di Gesù, decidersi a seguirLo. Da questo punto di vista chi diventa il punto di riferimento per il catecumeno? Quell’apostolo al quale ogni catecumeno è chiamato a identificarsi: Pietro, che vive tutta la fatica di stare dietro a Gesù, ne è affascinato, ne è conquistato, vuole addirittura dare la vita – dice “dovunque tu andrai, io andrò” – però poi vive tutta la fatica di una sequela che chiede una vera conversione della vita. Diciamo che la fede è il compimento delle attese del cuore, che nel Signore trova veramente pace il cuore inquieto, che in Lui le attese dell’anima trovano la risposta … è vero, ma questo accade soltanto per un cuore che si è convertito, per un cuore che è cambiato, perché non c’è una naturale pienezza del cuore in Gesù, perché Gesù è quello che va sulla croce. Pietro ha sperimentato questo, ma ad un certo punto non ha capito più nulla, ha dovuto convertirsi, ha dovuto cambiare e lasciarsi trasformare per trovare in Gesù l’appagamento definitivo, vero, reale della sua umanità, di una umanità che si è convertita. C’è il peccato nella nostra vita e dunque Gesù appaga il cuore nel momento in cui questo cuore ha saputo lasciarsi cambiare, trasformare, convertire. Marco lo ricorda: Gesù affascina, è vero; ma viene anche il momento nel quale questo Gesù chiede un cambiamento radicale, un lasciarsi portare dove tu non vuoi e dove tu non pensavi. Pietro era affascinato da Gesù e Lo amava con tutta la ricchezza della sua umanità e tutta la piccolezza della sua umanità: Lo amava, ma è giunto il momento nel quale si è dovuto lasciare trasformare e cambiare, e solo allora Lo ha realmente ritrovato in tutta la Sua bellezza e capacità di riempirgli la vita, di appagare le attese del cuore … solo allora Lo ha trovato nella realtà e nella verità! Questo non dobbiamo dimenticarlo e Marco ce lo ricorda: non c’è itinerario della sequela di Gesù senza conversione, senza rinnegamento, senza una morte, perché il cuore lì muore.
Quello di Marco è un itinerario che definiremmo pasquale, perché è molto probabile che il Vangelo di Marco fosse il Vangelo che veniva letto interamente la notte di Pasqua, nella veglia tra il sabato e la domenica. I catecumeni in quella circostanza ricevevano il Battesimo, il Sacramento dell’iniziazione: dovevano ascoltare integralmente il Vangelo di Marco quasi a ripercorrere l’itinerario catecumenale accedendo al banchetto eucaristico e in quella circostanza operare la loro decisione fondamentale, dire il loro sì avendo ascoltato il Vangelo di Marco. Perciò il Vangelo di Marco è il Vangelo della decisione, cioè del sì definitivo detto a Cristo Signore. Il catecumeno che ascoltava il Vangelo a seguito di questa Parola che faceva sua si decideva definitivamente: anche noi ascoltiamo il Vangelo di Marco desiderando prendere in mano la nostra vita per decidere con maggior definitività per il Signore. Vogliamo dire il nostro sì in modo rinnovato, vogliamo dire il nostro sì davvero, vogliamo dire il nostro sì dal profondo del cuore, vogliamo dire il nostro sì adesso, non domani, ora, perché oggi veniamo interpellati da questa Parola e da questo Signore che incrocia la nostra vita! Il Vangelo di Marco vive questa duplice tensione: far tornare indietro il catecumeno perché si incontri con tutto ciò che Gesù ha vissuto. Questo è ciò che vogliamo fare anche noi.
Il Battesimo nel Giordano (Marco 1, 9-11)
È un episodio della vita del Signore che Marco tratteggia molto brevemente, dicendo in poche parole quello che il Signore ha vissuto. Noi come i catecumeni vogliamo vivere la gioia di considerare i passi che nella sua vita terrena il Signore ha fatto, vogliamo tornare a rallegrarci della vita del Signore, perché quale vita deve maggiormente interessarci, quale vita deve maggiormente appassionarci se non quella di Gesù? Sono state scritte numerosissime vite di Gesù nei secoli: non dico che dovremmo leggerle tutte, ma la vita di Gesù dovrebbe essere la nostra lettura preferita, innanzitutto attraverso la Sua Parola, ma anche tramite queste letture. Che cosa ci può interessare più di questo? Dobbiamo avere il Vangelo quotidianamente sotto gli occhi – come quei Santi che portavano il Vangelo sul cuore – perché è la cosa più importante: che cosa abbiamo di più prezioso della vita di Gesù?!? Ecco perché c’è una compenetrazione nella nostra spiritualità tra Parola ed Eucarestia, perché la Parola è la memoria viva dell’oggi di quello che Gesù ha vissuto nella sua vita, ma l’Eucarestia è la Presenza adesso di tutta la Sua vita terrena, perché quando ci mettiamo davanti a Gesù Eucarestia ci incontriamo con il Risorto che porta in sé tutto il bagaglio della sua vita terrena, quindi noi dobbiamo contemplare i misteri della sua vita terrena, perché lì c’è tutto il Risorto, perché lì c’è tutto, quella Parola che contemplo è presente in tutta la sua realtà! Ecco perché Parola ed Eucarestia sono il tutto della nostra vita, il centro, il cuore, perché lì c’è Gesù, il tutto della nostra esistenza, a cui possiamo appassionarci ogni volta!!
Come Marco presenta il Battesimo di Gesù? Sono pochi versetti, nei quali ci è dato di guardare alla vita di Gesù in un momento particolare: Gesù viene da Nazareth di Galilea, da un mondo pagano, da un mondo disprezzato nell’ambito del giudaismo; il fatto che Gesù venga da lì, che cosa dice al catecumeno che ascolta per la prima volta questa Parola? Suggerisce queste domande: da dove vengo io? da dove viene la mia vita? Gesù viene da Nazareth, quindi per ogni uomo c’è possibilità di salvezza: Gesù ha voluto condividere la radicale povertà della nostra umanità perché qualunque sia la nostra provenienza è sempre una provenienza povera e non soltanto per quanto riguarda l’inizio, ma per quanto riguarda ogni inizio ad esempio di giornata, di preghiera … Avvertiamo in questa Parola che ci parla di Gesù un grande conforto, una grande consolazione perché in questa provenienza povera il Signore si è calato per essere con me qui, in questa appartenenza povera, queste radici povere, in questo procedere sempre povero che mi caratterizza e da cui vengo.
Marco sembra rincarare la dose, perché questo Gesù che viene da Nazareth di Galilea fu battezzato nelle acque del Giordano: Colui che non ha peccato entra dentro la realtà del peccato dell’uomo, entra nelle acque del Giordano per purificarle. Quelle acque che sono state toccate dall’impurità, dal peccato, dall’immondizia del cuore umano sono le acque che accolgono Gesù, quelle acque del Giordano dove Lui entra siamo noi, il Giordano siamo noi, siamo noi l’acqua impura dentro la quale Lui viene per purificare, per salvare, noi siamo questa acqua immonda di cui Gesù non ha timore, dove Gesù entra perché la vuole recuperare, la vuole salvare! Ecco che cosa ascolta il catecumeno: che Gesù entra dentro l’impurità della mia povera vita per riscattarla!
“Vide squarciarsi i cieli uscendo dall’acqua”: quel Gesù che entra nell’acqua ne esce, non viene fagocitato dall’acqua sporca, ne esce. Il catecumeno sente uscire dall’acqua il proprio peccato e la propria povertà. Inoltre Gesù vede i cieli squarciati e il catecumeno con Lui vede finalmente i cieli, si riapre il cielo di Dio che fino ad allora era chiuso per me, catecumeno, che il cielo non lo vedevo più … adesso finalmente mi si riapre l’orizzonte della volta celeste e mi è data la possibilità della storia con Dio, dell’amicizia con Dio! Ecco quello che ascolta il catecumeno, quello che sperimenta, quello che vive. E poi lo Spirito, che scende come una colomba, che prende possesso, dunque il catecumeno insieme a Gesù non soltanto vede i cieli, ma vede questi cieli che scendono sulla terra, su quella sua povera vita. Allora quella terra dimenticata di Nazareth, quella terra macchiata da tante lordure, quella terra non è stata soltanto abitata da Gesù, non soltanto è stata purificata da Gesù, ma adesso in Gesù Dio prende dimora pienamente e la rende bella della bellezza dei cieli, che si sono aperti finalmente sopra di Lui e davanti a Lui. E poi la voce … non soltanto il cielo si apre, ma c’è anche una voce che risuona e il catecumeno ascolta questa voce, la Parola di Dio di nuovo prende forma nella sua vita ed è una Parola particolare perché la dice l’Amato. Ecco, il catecumeno così scopre: di sentirsi davvero amato, perché la prima parola che ascolta da Marco e da Dio è la parola amore, non ce n’è un’altra. Allora capiamo perché fin dall’inizio il Vangelo di Marco è un annuncio bello, perché il catecumeno che comincia a sfogliare il Vangelo si sente dire queste parole e vive questa esperienza: guarda Gesù e dice “questa vita è meravigliosa!”, guarda Gesù e dice “questo annuncio ha in sé una gioia straordinaria!”, guarda Gesù e dice “io sono chiamato a questo, io posso vivere questo!”. Ecco la bellezza della vita di Gesù e il fascino della vita di Gesù, che Marco comunica attraverso questa pagina evangelica.
Gesù viene tentato nel deserto (Marco 1, 12 – 15)
Questo testo, a differenza degli altri Vangeli, si presenta molto breve: Marco in due versetti esaurisce ciò che Gesù vive nel deserto, perché a Marco non sta a cuore il dettaglio della tentazione (come sta a cuore invece a Matteo e a Luca), ma sta a cuore entrare dentro la realtà che accomuna ogni tentazione e con la quale Gesù si confronta vincendola, perché per lui è importante capire la radice di ogni tentazione e anche capire immediatamente, senza perdersi in altri dettagli, che questa radice che il catecumeno sente come profondamente inscritta nella propria vita è vinta e dunque può essere vinta perché Gesù l’ha vinta. Anche qui allora diventa buona notizia, annuncio gioioso: tu, catecumeno, capisci che nel tuo cuore c’è una battaglia; però attraverso questa Parola ti rallegri perché sai che questa battaglia ormai è vinta dalla vittoria di Gesù se tu Lo abbracci e stai strettamente unito a Lui! Gesù combatte contro satana; la tentazione viene da lì, da questo nemico, e così il catecumeno è aiutato a capire che dietro ogni peccato, dietro ogni ribellione a Dio, ogni tentazione che lo porta lontano dal Signore sta questo avversario, questo divisore tra uomo e Dio, c’è una radice personale cattiva in quella divisione del cuore che vuole allontanare l’uomo da Dio. Il catecumeno scopre questa realtà, ma qual è questa tentazione radicale che il catecumeno deve imparare a conoscere e a scoprire dentro di sé? C’è un’alternativa (ci sembra di risentire S. Agostino): o l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio – questo è il peccato e la tentazione quando prende forma nel cuore – o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé. Questa è la vittoria sul peccato! Satana Lo avvicina e Lo accosta perché vuole che Gesù non viva la volontà di Dio fino a dimenticarsi, fino a dare la Sua vita per i fratelli; vuole che Gesù viva l’amore di sé fino a dimenticarsi del progetto di Dio e del disegno di salvezza che Dio ha pensato da sempre per l’uomo attraverso di Lui. Ecco il dramma della tentazione, ecco l’esperienza del deserto, ecco la divisione interiore che Gesù sperimenta: essere diviso tra una vita che desidera essere di Dio dimenticandosi di se stessa e una vita che lascia da parte Dio …
Anche qui attraverso questa pagina di Vangelo Gesù si presenta come colui che porta la bella notizia al catecumeno, che fino ad allora non aveva sentito parlare di una vittoria definitiva, ultima, su questo male, su questo peccato sperimentava nella propria vita.
Per noi oggi questi due brani sono sufficienti per iniziare questa giornata alla luce di questa Parola che ci porta a fissare lo sguardo di gratitudine, di amore, di stupore, di rinnovato entusiasmo sul volto di Gesù. Con Marco attraverso questi testi noi vogliamo ri-appassionarci a Gesù, con l’aiuto di Marco vogliamo dire oggi al Signore “Tu sei tutto per me!” e come il centurione “Tu sei il Figlio di Dio, e non c’è altro al mondo per cui io voglia vivere, per cui io voglia dare la vita!”. Lo diciamo con S. Ambrogio, che quando parlava con la sua gente diceva “Cristo, Tu sei tutto per la nostra vita!” e chiediamo di poter dire e ridire questo anche noi oggi e sempre!
Savona, 22 luglio 2019
SECONDA MEDITAZIONE
C’era un ragazzino che un giorno parlava col nonno e gli diceva di un’esperienza che stava avendo via via che cresceva, ovvero avvertiva dentro di sé come una doppia presenza di sentimenti buoni, di pensieri buoni, di propositi buoni e dall’altra parte invece la presenza di sentimenti cattivi, pensieri non belli, propositi non buoni, e si domandava che cosa fosse questa realtà che cominciava ad avvertire dentro di sé, dentro il proprio cuore. Allora il nonno, cercando di fargli capire, gli presentò quella realtà così e disse: “Vedi, dentro di te è come se ci fossero due lupi: un lupo rappresenta un po’ tutta questa realtà cattiva che avverti e che cerca in ogni modo di allontanarti dal Signore, invece l’altro lupo rappresenta tutta la realtà più buona, quella che ti tiene legato e in sintonia con il Signore; dentro di te questi due lupi lottano tra di loro …”. A questo punto però il bambino incuriosito domandò al nonno: “Ma alla fine in questa lotta chi vince tra i due lupi?”. Il nonno gli rispose così: “Vince quello a cui tu dai maggiormente da mangiare”. Questa saggezza dell’anziano trasmessa al bambino, al nipotino, è una saggezza che vogliamo raccogliere in questi giorni, perché è proprio così quella battaglia, di cui anche parlavamo questa mattina ricordando le tentazioni di Gesù nel deserto: la vinciamo nella misura in cui ci lasciamo costantemente nutrire dal Signore e cerchiamo in Lui il nostro nutrimento e la nostra forza. Nella vita, lo sappiamo, volenti o no, abbiamo anche tanti altri generi di nutrimento che entrano in noi, perché il mondo nel quale siamo inseriti comunque ci nutre, direttamente o indirettamente … abbiamo bisogno di essere nutriti molto e molto di più da Dio, ecco perché rimane sempre così decisiva la priorità che diamo al Signore e all’ascolto della sua Parola: il nutrimento di cui ci stiamo servendo oggi è un nutrimento importante, perché con l’aiuto dell’Evangelista Marco andiamo là dove troviamo nuovamente la bellezza del Signore! Abbiamo continuamente bisogno di nutrirci di questa bellezza, proprio perché non tramonti nella nostra vita non tanto la bellezza di Gesù – perché quella non tramonta mai – ma la nostra percezione di questa bellezza, il nostro incontro con la bellezza: abbiamo bisogno di questo nutrimento quotidiano perché rimanga vivo il nostro interesse per il Signore, rimanga vivo il nostro desiderio di Lui, rimanga viva questa passione dell’anima che nutriamo per Lui!
Chi dice la gente che io sia? (Marco 8, 27)
Questa mattina abbiamo considerato, nell’itinerario che Marco fa fare al catecumeno, quello relativo alla vita del Signore; in particolare ci siamo soffermati su due episodi, che segnano l’inizio del cammino terreno pubblico di Gesù: il Battesimo e le tentazioni. Quest’oggi facciamo un passo avanti, ovvero andiamo a prendere in considerazione, potremmo dire, la seconda parte di questo itinerario che Marco fa fare al catecumeno: ha condotto per mano il catecumeno a conoscere la vita del Signore, a vederla, ad amarla, ad ammirarla, ad apprezzarla, e ora c’è un punto di svolta. Siamo al capitolo 8 e Marco introduce qualcosa che segna uno spartiacque nella vita di Gesù, perché ci troviamo davanti al primo annuncio della passione, che segue immediatamente il dialogo tra Gesù e gli Apostoli – e in particolare tra Gesù e Pietro – in merito alla sua identità: è come se l’Evangelista portasse il catecumeno dentro quel dialogo e gli dicesse “ora che hai guardato Gesù, che ne hai considerato la vita, che ne hai visto i gesti, ne hai ascoltato la parola, hai subito il fascino di Colui che è Figlio di Dio, adesso entra dentro questo dialogo con Lui, perché a questo punto Gesù ti interroga e ti pone la domanda!”. Ecco che cosa deve vivere il catecumeno in questo momento del suo cammino: si trova davanti a Gesù che gli pone la domanda e poi si pone davanti a Gesù identificandosi e dovendosi identificare con l’apostolo Pietro. Gesù pone la domanda relativa a quello che la gente sta dicendo di Lui, quindi ci immaginiamo il catecumeno che è chiamato ad interrogarsi: “Fuori che cosa dice la gente di me? Voi mi avete conosciuto, avete cominciato a conoscermi … e la gente cosa dice?”. E il catecumeno riporta quello che la gente ha da dire su di Lui … A questo punto possiamo dire che Gesù compie un passaggio decisivo, perché ora vuol sapere dal catecumeno che cosa egli intenda riguardo alla sua identità. Il catecumeno probabilmente pensa di saperlo, perché ha già fatto un tratto di cammino piuttosto lungo, ha visto, ha sentito e quindi l’identità di Gesù gli pare abbastanza definita, chiara, però arriva questa domanda: “Ma tu cosa dici, chi dici che io sia?”.
Ciò che anzitutto da questa domanda vogliamo trarre è che la storia di Gesù non può essere semplicemente la storia e la vicenda di chi osserva dall’esterno, di chi guarda qualcuno, di chi semplicemente si fa spettatore di una vita: Gesù con questa domanda provoca ad entrare dentro, provoca a compromettersi, provoca a coinvolgersi; a questo punto