Valloria
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INTRODUZIONE AGLI ESERCIZI SPIRITUALI
Abbiamo iniziato gli Esercizi Spirituali con il silenzio e con un tempo prolungato di deserto, che trova conferma in questo tempo serale che passeremo in Adorazione davanti a Gesù Eucaristia. Perché è bello, perché è importante, perché è ricco di significato questo inizio? Perché ci ricorda la verità fondamentale: quando consideriamo la nostra vita e il percorso della nostra vita personale dobbiamo sempre partire da Dio e sempre ripartire da Dio, perché se non partiamo da Dio non cambierà mai nulla. E quando consideriamo la nostra vita comunitaria dobbiamo partire da Dio, perché anche lì se non partiamo da Lui non cambierà mai nulla. E quando consideriamo la nostra missione nel mondo dobbiamo ripartire da Dio, perché anche nella nostra missione nel mondo o partiamo da Dio o non cambia nulla, non combiniamo nulla … Ripartire da Dio è un’urgenza, è un primato, è una priorità. Iniziando così gli Esercizi, vogliamo riaffermare questa verità nella nostra vita, perché non sia soltanto una verità che affermiamo qui, oggi e in questi giorni, ma una verità che rimanga impressa nel cuore, nell’esistenza, nella quotidianità, perché il nostro vivere sia sempre un partire da Dio, sia sempre ripartire da Dio, sia sempre un guardare noi stessi e gli altri e il mondo a partire da Dio: questo è l’unico, vero segreto della fecondità personale, comunitaria e della testimonianza! Introducendoci abbiamo invocato lo Spirito Santo … pensiamo come è bello! Invochiamo lo Spirito Santo perché scenda su di noi, ma nel momento in cui scende su di noi ci risucchia in alto verso Dio! Questo è il suo compito: portarci nell’intimità di Dio, dentro il cuore di Dio, disporci all’ascolto di Dio che ci parla, metterci alla Sua presenza. Noi Lo invochiamo: “Scendi su di noi!” e Lui viene, scende su di noi, ci porta verso l’alto, perché soltanto lì – nell’alto e dall’alto – possiamo guardare, considerare, valutare e poi cambiare. Iniziamo dunque ricordando questa grande verità, che si imprima nel cuore, che divenga vita nella nostra vita.
In questo momento, mentre ci accingiamo a rimanere davanti al Signore, vorrei che tenessimo presenti 4 verbi:
- stare: pensate che stare è la prima cosa che Gesù ha chiesto ai suoi, “Li chiamò perché stessero con Lui”. In questi giorni dobbiamo stare davanti al Signore: ricordate quando Elia, profeta di Dio, si presenta davanti al Signore “alla cui presenza io sto” … questa è la sua identità ed è la prima cosa importante della sua vita. Lo è anche per noi: stare richiama delle mete importanti di questo periodo, cioè il nostro silenzio. Ce lo ricordiamo sempre, non perché è consuetudine ricordarcelo, non perché dobbiamo ricordarcelo e così assolvere un compito, ma perché il silenzio è decisivo, perché dobbiamo ridire ancora una volta il nostro amore per il silenzio, perché la nostra capacità di silenzio dice il nostro amore per la presenza di Dio e la nostra capacità di fare spazio a Dio! È triste che una persona consacrata non riesca a vivere il silenzio, significherebbe una persona consacrata che non ha in sé lo spazio di Dio, il desiderio di fare spazio a Dio …
Non possiamo allora non amare il silenzio e non attendere con ansia questo momento di grazia nel quale finalmente – purtroppo nell’ordinarietà non ci è possibile – abbiamo un tempo per vivere questo silenzio, per fare spazio al Signore della nostra vita. Viviamolo così: è l’espressione e la riprova che davvero in noi c’è il desiderio di Dio, il non farlo direbbe esattamente il contrario. Stare dentro a questo silenzio a volte può essere faticoso, certo, però in questa fatica sta tutta l’espressione di un cuore che cerca Dio e che vuole Dio, che Lo vuole incontrare.
Si racconta della vita di un giovane seminarista che un anno partecipò, come di consueto, agli Esercizi Spirituali annuali. Era giovane, era ai primi anni del suo cammino di formazione in seminario e quell’anno predicava gli Esercizi un sacerdote santo, un santo predicatore. Terminato il primo giorno, questo giovane seminarista faticava a rimanere nel silenzio per cui un po’ si distraeva e andava a cercare i suoi compagni … il predicatore si accorse di questa cosa, ma il primo giorno non disse nulla. Il secondo giorno si ripetè la stessa scena: questo giovane con fatica viveva il silenzio, per cui anche per quel secondo giorno ebbe modo di distrarsi, guardarsi attorno, cercare qualche amico … Il predicatore lasciò passare anche il secondo giorno, ma all’inizio del terzo giorno lo prese in disparte e, come sanno fare i santi, guardandolo con occhi insieme di fuoco e di amore gli disse una parola: “Senti, ma tu lo sai che cosa sono gli Esercizi Spirituali?” Questo giovane rimase colpito al cuore, tanto che diede inizio al cammino che l’avrebbe portato poi alla santità. Ecco, noi dovremmo sentirci risuonare questa parola incisiva: “ma tu lo sai che cosa sono gli Esercizi, l’importanza degli Esercizi, la dimensione decisiva degli Esercizi nella tua vita?” Non sono quella pausa annuale che dobbiamo fare per ottemperare a un dovere, non sono semplicemente un lasso di tempo nel quale ci distendiamo, ci riposiamo, abbiamo l’opportunità di stare più tranquilli, anche di pregare, di ascoltare magari cose più o meno belle … No, gli Esercizi sono momento decisivo della vita! “Lo sai cosa sono gli Esercizi?” Ripetiamocelo anche quando faremo un po’ più fatica a stare, dobbiamo starci per l’importanza che ha questo tempo, un tempo importante nel nostro cammino. - adorare: per questo siamo qui, per dire al Signore che Lui è il centro e il primo della nostra vita. Lo sappiamo: noi arriviamo agli Esercizi disorientate, scombussolate, con un cuore piagato, forse con un cuore riempito da tante cose, tanti legami, tanti falsi affetti, persino anche affetti non buoni, legami non buoni, di tanti generi … Siamo qui per dire al Signore: “Tu sei il primo,Tu sei il tutto!”.
Vorrei ricordare un’espressione di un santo la cui memoria ricorre in questo mese di luglio, san Gaspare del Bufalo, che visse in un momento difficile della vita della Chiesa in Italia sotto la dominazione napoleonica. L’autorità francese che un giorno lo prese e lo fece prigioniero voleva costringerlo a comportamenti che sarebbero andati contro la Chiesa, contro il Vangelo, contro la volontà del Signore sulla sua vita. Egli rispose in modo perentorio: “Io non posso, io non devo, io non voglio!”. Noi siamo cui per dire “io non posso, io non devo, io non voglio abbracciare tutto quello che contraddice il primato del Signore nella mia vita! Non posso, non devo, non voglio, non posso più, non devo più, non voglio più! D’altra parte, ricordiamo che san Francesco quando ascoltò il brano del Vangelo della sequela disse “Il cuore infiammato dall’amore, questo io desidero, questo io voglio, questo io chiedo con tutto il cuore, cioè seguirti!”. Noi adoriamo per dire al Signore “questo io voglio, questo io desidero, questo io chiedo: che Tu sia il primo della mia vita, che Tu sia il centro e il cuore della mia vita!”. Ecco che cosa significa adorare: dire no a ciò che non è Dio, dire sì a Lui, perché sia il primo, il cuore e il centro! - ascoltare: stamattina abbiamo riascoltato la pagina del Vangelo nella quale l’introduzione dell’Evangelista fotografa ciò che il Signore sta vivendo. I farisei, dice l’Evangelista , fecero consiglio con i capi e decisero di toglierlo di mezzo … una frase che non ammette ambiguità, decisero di toglierlo di mezzo, cioè volevano mettere a tacere la Parola vivente di Dio perché voleva intralciare la loro vita, mettere in discussione la loro vita … doveva essere messa a tacere, eliminata, uccisa. Noi pensiamo forse che questo non ci riguardi, ma quante volte noi uccidiamo nel nostro cuore la Parola del Signore, quante volte rimaniamo indifferenti e quindi la uccidiamo, quante volte, dato che ci scomoda, facciamo finta di non ascoltare e quindi la eliminiamo, quante volte ci contrapponiamo addirittura ad essa togliendola di mezzo! Noi siamo qui davanti al Signore, stasera, per ascoltare ciò che desidera, per non mettere ostacoli a questa Parola, perché venga in noi, entri in noi, si radichi nel nostro cuore, metta radici in fondo al nostro cuore, senza timore, senza paura. Certo, metterà a nudo e ci farà scoprire ciò che non va bene, ci proporrà mete alte, che a volte potranno spaventarci, ma lasciamo che questo operi togliendo il male, proponendo il bene, purificando, infiammando, sradicando e facendo fiorire!
- donare: noi stiamo, noi adoriamo, noi ascoltiamo per poi donare e donarci, perché finalmente quel Signore davanti a cui siamo stati e che abbiamo adorato, che abbiamo ascoltato con intensità nella Parola divenga vita della vita attraverso un’esistenza che porti la Sua traccia, la Sua impronta. In questo senso donare è fare della vita una vera e propria incarnazione del Vangelo, un Vangelo vivente, Dio e noi!
Ecco, questi quattro verbi accompagnano la nostra Adorazione questa sera, ma dovrebbero accompagnarci sempre, perché sempre adoriamo e ascoltiamo per donarci; facciamo in modo che accompagnino questo tempo degli Esercizi, nel quale così staremo, adoreremo, ascolteremo per donare senza riserve e senza condizione noi stessi. In verità questi quattro tempi che viviamo questa sera e viviamo in questi giorni sono quattro tempi della vita, perché la vita ruota con questi quattro tempi, o ci sono questi quattro tempi o non ci può essere una realtà di santità. Ecco, questo deponiamo stasera qui davanti al Signore e chiediamo la grazia che ci aiuti a viverlo davvero con tanta intensità!
Savona, 21 luglio 2019
PRIMA MEDITAZIONE
Abbiamo invocato lo Spirito Santo con questo bel canto che ha degli accenti di natura poetica e nei quali noi chiediamo allo Spirito Santo di scendere su di noi e di muovere le corde della nostra arpa in cui è come rappresentata e raffigurata la nostra vita; e ancora gli chiediamo di scendere perché venga a riempire il cuore con la musica che Egli è capace di suonare nella nostra esistenza. Sono invocazioni belle che vogliamo che risuonino sulle nostre labbra, non con superficialità, ma con il desiderio che realmente possano realizzarsi, che lo Spirito Santo venga a suonare l’arpa della nostra vita e che lo Spirito Santo venga a colmare di sé i nostri cuori.
Forse ho già raccontato in passato che in una parrocchia tanti anni fa si stava concludendo l’anno catechistico: a quel tempo la conclusione dell’anno catechistico significava anche una gara tra le parrocchie con i bambini che avevano partecipato al catechismo, per verificare chi tra le varie parrocchie era quella più preparata. Il parroco di una di queste parrocchie teneva molto a fare bella figura e sperava che i ragazzi potessero vincere questa gara catechistica: allora, verso la fine dell’anno, aveva impresso un particolare impegno per la preparazione. Venne un giorno nel quale ai suoi ragazzi cominciò a fare delle domande per verificare se effettivamente potessero considerarsi pronti. I ragazzi erano preparati, quindi decise di fare una sorta di interrogazione personalizzata e li chiamò ad uno ad uno. Il parroco si stava dimostrando soddisfatto, quando arrivò uno di questi bambini ai quali tra le altre domande pose la seguente: “Mi sapresti dire che cosa fa Spirito Santo nella nostra vita?”. Questo bambino faceva un po’ fatica a rispondere a questa domanda ed era lì davanti al parroco con la testa bassa perché si sentiva in difficoltà. Il parroco insisteva “dai, coraggio, che cosa fa lo Spirito Santo nella nostra vita?”. Il bambino continuava a tenere la testa bassa timidamente, come a dire “Per favore, lasciami in pace, cambia domanda…”, ma il parroco non si dava per vinto, e alla fine, perdendo anche un po’ la pazienza, disse “Senti, per favore, dimmi che cosa fa lo Spirito Santo nella vita. Di’ qualcosa, perché se quando andiamo alla gara ti fanno questa domanda e tu non rispondi ci fai perdere!”. Allora il bambino, messo alle strette, capendo che non poteva tirarsi indietro e che qualche cosa doveva pur dire, alzò gli occhi timorosi e disse così “Padre, io credo che lo Spirito Santo faccia un po’ quello che può”. Era pronto a sentirsi dire di tutto dal parroco, invece il parroco fece un grande sorriso e gli disse “Guarda, sai che hai risposto bene? perché è proprio così: lo Spirito Santo vuole fare tante cose nella nostra vita, però alla fine fa quello che può, perché fa quello che noi gli lasciamo fare!”.
Ecco perché noi lo invochiamo: Egli vuole suonare l’arpa della nostra vita, rendendola una stupenda melodia, vuole abitare il nostro cuore, mettendovi dentro la sua stupenda musica di amore, ma lo può fare se noi glielo consentiamo, se gli apriamo realmente il cuore e l’anima. Allora queste invocazioni siano autentiche, siano vere, dicano il nostro desiderio profondo che Lui venga come sa e come vuole, al di la di noi.
Celebrare il Capitolo
Ieri sera ricordavamo quelle quattro parole, le ricordavamo a proposito della serata davanti all’Eucaristia e in merito a questi giorni di Esercizi, e le ricordavamo anche in relazione alla nostra vita quotidiana. Mi pare che sia importante anche ricordarle in relazione al Capitolo che celebrerete nei prossimi giorni, perché quelle tre prime parole – stare, adorare e ascoltare –sono necessarie e imprescindibili anche nel lavoro capitolare, perché lì si tratta non di portare noi stessi o i nostri personali umani punti di vista, non semplicemente le emozioni e le passioni del cuore, ma al Capitolo si va pensando che dobbiamo portare noi stessi dopo che ci siamo immersi in Dio e ci siamo lasciati bagnare dalla sua Grazia e dal suo amore. Soltanto se questo accade, noi diventiamo capaci di vedere meglio, di vedere di più, di diventare dei “visionari”, cioè capaci di andare al di là di noi stessi, delle nostre piccole misure, a volte anche delle nostre umane meschinità. Dobbiamo vedere in grande, pensare in grande, con un’intelligenza grande, con un cuore grande, ma questo è possibile nella misura in cui ci lasciamo trovare dal Signore, toccare dal suo amore, dalla sua Grazia. Sempre dunque – di nuovo lo ripetiamo – si parte da Dio, anche nei lavori di un Capitolo. Il Capitolo è importante perché segna una tappa della vita della Congregazione, segna anche gli anni che vengono e l’impostazione della vita, però manteniamo la gerarchia delle importanze: è più importante la nostra conversione personale qui durante gli Esercizi, è più importante questo di un Capitolo, perché è più importante la nostra santità che un Capitolo, è più importante la nostra vita data a Dio di un Capitolo. Il nostro rivolgere completamente la vita al Signore allora fa bene al mondo più che un Capitolo. Certo, siamo presi anche dalle occupazioni, preoccupazioni, desideri che i lavori capitolari comportano, ma dobbiamo essere ancora più presi da questo lavoro su noi stessi, o meglio, da questo lavoro che il Signore vuole fare su di noi per renderci come Lui ci vuole, per renderci santi. La salvezza, chiamiamola così, di una Congregazione non viene dai capitoli né dalla santità della nostra vita, non viene da quello che progettiamo o pensiamo noi, ma viene da quanto Dio fa attraverso di noi, perché lasciamo ci abiti, ci conquisti il cuore e si renda presente nella nostra vita. Allora certo avremo giorni importanti, capitolari, ma sono ancora più importanti questi giorni nei quali si decide per quale strada ciascuno di noi vuole andare con l’aiuto del Signore. Non lo ricorderemo mai abbastanza, ma è sufficiente che uno di noi qui, in questi giorni, si decida una volta per tutte a dare la vita al Signore, senza riserve, senza condizioni, non soltanto per cambiare la vita della Congregazione, ma per cambiare la vita del mondo, per un contributo decisivo alla vita della Chiesa. Questo è il cuore, questo è il centro, questo è ciò in cui dobbiamo perderci dando tutto veramente di noi stessi.
In questi giorni di Esercizi ci troveremo davanti al Signore a rivedere in Lui la nostra vita, perché possa ripartire il più possibile secondo la Sua volontà; ci metteremo allo specchio, come sempre, della Parola del Signore, e lo faremo attraverso i tre Vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca, che ci accompagneranno ciascuno per ogni giornata. Sarà come un breve trittico che speriamo possa aprire la nostra vita in un modo nuovo e possa farci rientrare nella vita profondamente trasformati.
“Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20)
Quest’oggi la nostra meditazione riguarderà il Vangelo di Matteo: noi sappiamo come questo primo Vangelo sia strutturato attorno ai cinque grandi discorsi di Gesù, che viene presentato come il nuovo Mosè. Infatti questi cinque grandi discorsi sembrano riprendere i cinque libri della legge del Pentateuco. Dunque da una parte avevamo Mosè, il grande legislatore, colui che porta al popolo la legge di Dio, ed ora abbiamo dentro il popolo d’Israele il nuovo e definitivo legislatore, Gesù, che porta la nuova legge dell’amore. Così in fondo si presenta a noi il Vangelo di San Matteo: ciò che San Matteo vuole comunicare alla comunità cristiana, per la quale scrive e redige il suo Vangelo, è soprattutto il pensiero che Dio accompagna il suo popolo lungo il cammino della storia e con Provvidenza di amore non lo abbandona mai, non lo lascia mai. Ecco perché Gesù è presentato come nuovo Mosè, ecco perché questi cinque grandi discorsi che recuperano e portano a compimento la legge antica: la parola “compimento” è molto cara a Matteo, perché il Signore che ha iniziato la sua opera ora la porta a compimento. Si tratta di un Dio fedele, che promette e che poi realizza queste promesse nel corso del tempo. Dunque il discepolo e la comunità cristiana, che si pongono in ascolto del Vangelo di Matteo, che cosa devono custodire nel cuore? Quella parola di Gesù che conclude il Vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. È la parola sigillo sull’ intero Vangelo, cioè la parola attraverso la quale Gesù stesso dice la fedeltà di Dio, la promessa di Dio che si realizza e che si realizzerà, la Provvidenza di amore che non abbandona mai, una compagnia fedele che non lascia mai lungo la strada e lungo il cammino. Questo è ciò che il Vangelo di Matteo in particolare ci vuole comunicare. Allora facciamo in modo di ascoltare le pagine sulle quali mediteremo tenendo presente questo messaggio di fondo, questo annuncio di fondo, questa buona notizia di fondo, perché il Vangelo è sempre buona notizia, di volta in volta espressa secondo le esigenze degli Evangelisti e delle comunità alle quali essi si rivolgono. Questo è l’aspetto di buona notizia che vogliamo accogliere con gioia: Dio è un Dio fedele, Dio non ci abbandona, Dio è amore provvidente, Dio è Colui che mi dice ancora oggi “Ecco, non temere, Io sono con te fino alla fine del mondo, fino alla fine della tua vita e dei tuoi giorni!”.
Stamattina ci soffermiamo su un testo che generalmente non ci appassiona molto, lo ascoltiamo poche volte durante l’anno e forse, quando lo ascoltiamo, lo facciamo con un senso un po’ di stanchezza e monotonia. Ma questo dipende semplicemente – purtroppo tutti ci siamo dentro – dalla nostra povertà, perché questo testo che effettivamente può darci nell’immediato un po’ l’idea di monotonia, di pesantezza, in verità se noi lo ascoltassimo con attenzione, con il cuore in mano e con fede, ci accorgeremmo che è una vera e propria poesia che ci trasmette moltissimo di questa notizia bella e di questa notizia buona di cui Matteo si vuol fare portatore.
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide (Matteo1,1-17): sono i primi diciassette versetti del primo capitolo del Vangelo di Matteo, è la genealogia che in modo significativo Matteo introduce indicandola come libro delle origini, in qualche modo della genesi di Gesù. Questo elemento introduttivo di genesi, di origine riguardante la vita di Gesù è importante, perché ci raccorda immediatamente con il libro della Genesi, cioè con l’origine dell’umanità in Adamo, il primo uomo. Così Gesù è presentato come il nuovo Adamo, l’inizio della nuova creazione, Colui che inaugura una nuova storia, una nuova vicenda, una nuova pagina dell’esistenza, dell’umanità. Però c’è anche una differenza fondamentale, quello su cui noi vogliamo per il momento soffermare l’attenzione, perché mentre Adamo è all’origine di una discendenza che lo seguirà e che attraverserà la storia, qui di Gesù si manifesta la ascendenza, cioè coloro che vengono prima, fino a tornare all’origine. E che cosa significa questo? Significa, in modo del tutto singolare, che il Signore è voluto entrare dentro una storia, ha voluto rendersi partecipe della vicenda umana, si è calato nelle profondità dell’esistenza, dell’umanità, del mondo.
Questo è importante, perché quando noi leggiamo la genealogia ci viene da dire che davvero il Signore è entrato nella nostra storia, davvero è entrato nella mia storia, davvero ha voluto e vuole condividere il cammino della mia esistenza, vuole farsi compagno della mia vicenda, bella o brutta che sia. Lui ne è partecipe fino in fondo, vuole entrare dentro. Allora una domanda: Lo lascio veramente entrare dentro di me? Gli consento di prendere casa nella mia casa? Gli permetto di occupare uno spazio nella mia esistenza? La genealogia, partendo dall’inizio, dice proprio questo, che il Signore non vuole lasciare proprio neanche un frammento di storia privo della Sua Presenza e della Sua Opera, perché è soltanto così che la storia è riscattata. Così è per la nostra vita, nessun frammento può rimanere estraneo alla Presenza del Signore, perché solo così la nostra vita è riscattata e soltanto così la nostra vita conosce la bellezza autentica che le è propria, quella donata da Dio. Solo così , quando noi Gli consentiamo di realizzare in noi ciò che questa genealogia esprime e dice a chiare lettere, ossia di essere tutt’uno con la vita degli uomini, cioè di essere tutt’uno con la nostra vita.
Che cosa allora, ancora oggi di nuovo arrivando in questi Esercizi, dopo tanti anni, devo ammettere di non avere ancora consegnato all’Opera e alla Presenza del Signore? Che cosa ancora? La domanda che tante volte ci siamo posti nel cammino della nostra vita di fede, della nostra vita di consacrazione … che cosa ancora mi manca? Sembra di risentire la domanda del ricco del Vangelo … che cosa ancora devo aprire alla Tua influenza, alla Tua parola, alla Tua vita, che cosa? Il Signore risponde a noi come al giovane ricco: ti manca ancora di aver dato tutto … Quindi per arrivare a questo tutto, che passo devo fare in questi Esercizi? Quale porta devo aprire, quale chiave devo prendere in mano coraggiosamente perché il Signore vi possa fare il suo ingresso, il suo ingresso di amore, per portare vita, per portare pienezza, per portare gioia, per portare salvezza, per portare quella realizzazione che io cerco altrove e non trovo mai?!? che cosa devo ancora realmente aprire e consegnare? consegnare è il termine più bello, anche perché è un termine evangelico con il quale viene espressa la consegna di Gesù al Padre, cioè il rimettere totalmente la propria vita nelle mani del Padre. Che cosa ancora dobbiamo consegnare perché la nostra consegna sia totale? La consegna totale è la gioia della vita, siamo tristi perché non ci siamo ancora consegnati del tutto, siamo nell’inquietudine perché il cuore non è ancora consegnato del tutto. Che cosa ci manca? Che cosa ancora non Gli ho consegnato? Andiamo a scoprirlo e poi consegniamolo finalmente del tutto a Lui che è già entrato nella nostra vita, ma vuole entrare là, dove ancora non è presente.
Ascoltando la genealogia e tenendo presente questo grande dato che l’Evangelista ci vuole comunicare, possiamo rispondere a tre domande che immediatamente sorgono:
- chi è Dio?
- chi èl’uomo? chi sono io?
- quale risposta vuole da me questo Dio che si svelae si scopre nella genealogia?
Vuole che mi scopra, mi sveli. Forse ci può aiutare a collocarci nel modo giusto dentro questa pagina di Vangelo l’esperienza che fece alla Verna S.Francesco, quando in quella notte prolungata di preghiera, contemplazione, silenzio, Adorazione e anche supplica, prima di ricevere le stigmate continuò a pregare ponendo due domande: “Chi sei Tu? chi sono io?”. Sono le due grandi domande che la genealogia ci pone e alle quali dobbiamo rispondere arrivando poi a dire: “Bene, se questo è Dio e questo sono io, in quale relazione mi devo porre? Che cosa mi chiede il Signore?”.
- chi è Dio?
Cerchiamo di rispondere alla prima domanda con un grande desiderio, quello di poter stare – ritorna questo bel verbo – davanti al volto di Dio, ritrovando la gioia per questo volto, ritrovando lo stupore per questo volto, ritrovando la meraviglia per questo volto e dunque ritrovandoci innamorati di questo volto. Non si può non amare Dio perdutamente quando Lo si contempla, non si può non perdersi per Lui quando Lo si trova. Questa è l’unica cifra della vita – di una vita che lo abbia incontrato – amarLo perdutamente, esserne innamorati alla follia. Non c’è altra cifra per la nostra vita! Noi freddi, distaccati, incapaci di amare, attratti da tante infedeltà e da tanti tradimenti desideriamo stare davanti a questo volto con il desiderio di re-innamorarci, senza timore di questa parola che è semplicemente umana, perché prima di altre cose ci si innamora di Dio, ci si innamora di Lui, ci si dona senza riserve a Lui. Ci ritroviamo davanti a questo volto con la gioia di essere innamorati e di sapere, di riscoprire che la nostra vita è una vita da innamorati, è una vita di amore.
La genealogia è il primo punto: ci mostra personaggi molto vari, uomini e donne di diversa provenienza, di diversa cultura, alcuni importanti, altri meno, giusti e peccatori, santi e poveri, addirittura le donne al tempo non avevano valore legale, quindi la loro importanza era relativa. Questa è la genealogia, il volto di Dio che Matteo descrive, il volto di un Dio che non esclude nessuno, che entra in relazione con tutti, buoni e cattivi, abbraccia ogni uomo. Quanto ci consola questo particolare del volto di Dio, perché quei giusti e peccatori siamo ciascuno di noi, quelli importanti o quelli esclusi e dimenticati siamo noi. Tutti siamo dentro questa genealogia, nelle cose belle e nelle cose brutte, abbraccia tutti. Questa pagina ci mette di fronte a questo tratto così bello e commovente di Dio, ad una caratteristica che forse non sempre consideriamo ossia l’umiltà di Dio, perché se Dio mostrasse la Sua potenza questa genealogia andrebbe distrutta, perché non ci potrebbe essere spazio per ciò che contraddice la Sua volontà e la Sua opera, Dio potrebbe occupare tutto e dunque incendiare, distruggere, estirpare ciò che non è, tutto ciò che non è Lui. Invece Dio si fa umile e piccolo per dare spazio alla libertà, perché possano vivere i buoni e i cattivi, perché nella libertà si possa decidere una vita, perché Gli si possa dire sì, oppure no .
- C’è un’espressione dei mistici ebrei un po’ particolare, che può anche suscitare il sorriso, che si chiama zim zume indica la contrazione, cioè Dio che si contrae, si fa piccolo, per fare spazio all’uomo, per fare spazio a questa creatura piccolissima. Come affermava un autore spirituale, Taulero, l’umiltà è la virtù nascosta nel più profondo della divinità e S.Francesco, che in quella notte aveva potuto contemplare il volto di Dio, dirà nelle Lodi del Dio Altissimo: “Tu sei l’umiltà”: contemplando la propria piccolezza e povertà, Francesco capisce che Dio si contrae perché l’uomo possa avere spazio, Dio si rende piccolo perché la piccolezza dell’uomo possa sussistere; Francesco ne rimane commosso e dice: “Tu sei umiltà, perché ti puoi contrarre davanti a me, perché io possa esserci e possa amarti nella mia povertà e nella mia piccolezza”. Fermiamoci dunque sul questo tratto del volto del Signore, la Sua umiltà che mi svela un elemento di questo amore infinito con il quale il Signore accompagna la mia vita e di cui la genealogia mi parla, un Dio umile per amore, perché io possa amarlo nella libertà.
- La genealogia parla di un tempo che scorre, il tempo che passa, si parla di quattordici generazioni per tre volte. Dio, dunque è un Dio che accetta il tempo: Egli che è l’eternità e il presente senza tempo accetta il tempo, cioè accetta il mio tempo, accetta i nostri tempi. Egli che è tutto presente, accetta che io cammini nel tempo con la mia fatica, con la mia stanchezza, con i miei ritardi, stentando a dire sì, facendo un passo avanti e uno indietro nel mio cammino di conversione: è l’accettazione del tempo da parte di Dio, la pazienza infinita che scaturisce dal volto che noi contempliamo, nella quale per noi risulta una grande speranza. La speranza deriva proprio da questo, dal fatto che Dio abbia tempo per noi: Dio ha tempo, Dio ci dà un tempo, Dio attende con pazienza, Dio aspetta, si mette al mio povero, poverissimo passo e mi porta per mano, mi accompagna.
- Dio ci ama con un amore che la Scrittura non fa fatica a definire come un amore materno– oltre che paterno, sponsale, amicale – per indicare un amore viscerale, un amore che entra dentro, un amore che sconvolge l’interiorità. È un amore più forte di tutto, che non si arrende davanti a nulla, che non si ferma davanti alla mia povertà, che è tenerissimo nella sua intensità e profondità.
Una bambina, alla quale il papà un po’ alla volta stava insegnando i primi rudimenti della fede e del catechismo, ebbe un’espressione particolare e anche molto bella … la verità esce dal cuore dei bambini … Il papà le stava insegnando il segno della croce e la bambina aveva appreso il gesto con la mano destra e ora stava apprendendo le parole con le quali doveva accompagnare quel gesto: era arrivata a “nel nome del Padre, del Figlio …”, si trattava di compiere il terzo passaggio. Il papà volle provare a chiedere alla bambina come avrebbe pensato di concludere il segno della croce. La bambina, con gli occhi pieni di luce, col sorriso sulle labbra, cominciò e disse: “nel nome del Padre, del Figlio e … della mamma!”. Aveva capito perfettamente il mistero di Dio, di quello Spirito che è materno nella cura che si prende di noi!
Quando noi leggiamo la genealogia entriamo dentro questo cuore materno di Dio che accompagna la storia, che accompagna l’umanità, che accompagna me, che è umile e non si stanca della mia povertà.
I bambini ci aiutano a capire il mistero di Dio, perché ai bambini è rivelato il mistero del Regno dei Cieli. Un bambino chiese alla mamma “senti mamma, è proprio vero che Dio esiste?” e la mamma gli rispose “certo!”; il bambino disse “va bene, ora che tu me l’hai detto e me l’hai confermato, io non ho più dubbi e ci credo, però mi rimane una domanda: com’è Dio?”. Questa volta la mamma si trovò in difficoltà a rispondere: la domanda era impegnativa, soprattutto per un bambino. Allora non disse parole e fece un gesto: lo prese tra le sue braccia, lo strinse forte al suo cuore, e quando poi lo allontanò da sé, il bambino la guardò negli occhi, commosso, con le lacrime, e disse “grazie, mamma, ora ho capito com’è Dio!”.
La genealogia è come questo abbraccio della mamma, che ci fa capire com’è Dio, questo amore così sorprendente, così straordinario, così bello che ci commuove, ci tocca il cuore.
- Dio ci ama conun amore che soffre per noi. Dentro questa genealogia c’è un patire di Dio con l’uomo e per l’uomo, per il suo peccato, per le sue cadute, per le sue devianze, per le sue fatiche, per i suoi problemi. È un Dio che si accascia a terra quando l’uomo si accascia, cade, rimane ferito per il percorso della vita e della storia. Diceva Origene una frase un po’ forte per rendere l’idea, guardando tutta la storia biblica: Dio soffre per Nabuccodonosor, come a dire che Dio soffre per tutti. Dio si rende partecipe del cammino storico di tutti noi. Non è estraneo al nostro patire, non è distante dal nostro , è lì a patire e a soffrire con noi e per noi. Tutta questa genealogia si renderà presente proprio nel grande sacrificio della Croce, in quel patimento di Dio con l’uomo e per l’ uomo.
Questi quattro tratti del volto del Signore sono soltanto un’introduzione all’infinita bellezza del volto di Dio, di cui la genealogia ci parla e di cui vogliamo rimanere in contemplazione gioiosa oggi, ritrovarci ancora una volta conquistati e innamorati. Pensiamo a Paolo, quando dice “Tu mi hai conquistato” … la conquista è un’esperienza di amore! Da innamorati fermiamoci sulla seconda domanda:
- chi èl’uomo?chi sono io, quale è il mio volto?
Stando dentro questa genealogia, guardando il volto di Dio prevale la contemplazione gioiosa e innamorata; stando davanti al nostro volto, da una parte, prevale un senso di infinita gratitudine per ciò che il Signore ha operato e opera in noi, però nello stesso tempo mettiamo a fuoco anche le nostre manchevolezze e da esse scaturisce un esame di coscienza, il pentimento sulla nostra vita … meraviglie di Dio in noi e povertà di noi davanti a Dio.
- La prima caratteristica del nostro volto che la genealogia mette in evidenza è proprio la nostra libertà, quella che ci ha dato l’umiltà di Dio, perché il Suo contrarsi – quello zim zumche egli opera nella nostra storia – sprigiona la nostra libertà. Come abbiamo sottolineato, la compresenza dei santi e dei peccatori nella genealogia ci parla proprio di questa libertà, di questa possibilità che abbiamo; se andiamo a vedere la presenza dei peccatori e di figure certamente meno nobili ci accorgiamo che il peccato consiste in una cosa: non rimettere la propria vita incondizionatamente nelle mani di Dio, ma tenerla per sé, volerla per sé; non accettare Dio come Signore della storia, ma voler essere noi signori della nostra storia; non consegnare a Lui la nostra esistenza, ma pretendere di essere noi a scriverla e a portarla avanti, a determinarla; non accettare che sia Lui il padrone, il Signore del nostro destino, ma voler essere noi stoltamente artefici del nostro destino.
È questo un grande invito all’esame di coscienza, a guardarci, a considerare come stiamo camminando, perché tutti noi – poco o tanto – vogliamo essere padroni del nostro destino, vogliamo essere artefici della nostra storia, vogliamo salvarci dal perderci a motivo del Signore, vogliamo tenerci in mano per un senso di sicurezza, timorosi che lasciarci andare possa significare anche perdere, quando invece perdere dal punto di vista della fede significa vincere, perché è vincere con Dio, vincere in Dio.
Allora ci domandiamo: in che cosa ancora io vivo da padrone di me stesso? in che cosa ancora vado avanti come signore della mia vita? in quali scelte, in quali modi di pensare, in quali modi di decidere, in quali modi di comportarmi io vivo come se fossi signore della mia esistenza?
- Il secondo elemento che nella genealogia consegue rispetto al primo è la considerazione di coloro che sono giusti: all’interno di questo albero genealogico la giustizia di coloro che vi sono presentati ha esattamente la caratteristica opposta di quanto precedentemente indicato, sono coloro che si sono rimessi a Dio, cioè gli hanno detto realmente di sì, che non hanno tenuto nulla per sé, che si sono fidati senza condizioni e senza rimandi di quella Parola che li raggiungeva, di quella volontà sulla loro vita che ascoltavano e capivano essere da Dio. Non hanno avuto paura di Dio … lo dobbiamo ricordare ancora una volta, alla radice di ciò che ancora adesso ci impedisce una resa incondizionata – ricordiamoci che questo è amore: la resa incondizionata al Signore e alla sua volontà – è la paura che abbiamo di Lui, la paura che ci tolga qualcosa, la paura che venga a privarci di ciò che noi riteniamo importante, la paura che Egli non voglia davvero che io sia felice, la paura che darmi a Lui non mi realizzi come io vorrei, la paura … Dietro tanti nostri desideri di realizzazione in fondo sta proprio questo: la paura di realizzarsi con Dio, la paura di realizzarsi perdendosi in Dio, la paura di realizzarsi consegnandosi a Dio e dunque non pensando che Dio sia l’unico che realmente realizza e porta a compimento in un modo sorprendente la mia vita e le attese del cuore. Non c’è null’altro che possa realizzare la mia vita come Dio la realizza. La paura di Dio … quanti nostri modi di ragionare, di pensare, di progettare riguardo la nostra vita e quella altrui sono radicati in questa radice malata, in questo modo sbagliato di pensare la mia realizzazione, di pensare il compimento della vita, un modo errato di guardare … Solo Dio, solo la consegna, solo la perdita, solo lo smarrirmi, solo il darmi porta alla pienezza della vita, perché chi si vuol salvare si perde e si salva soltanto chi si perde, non teoricamente e in astratto, ma lì dove ogni giorno sono chiamato a perdermi, dove ogni giorno sono chiamato a lasciare me stesso, dove ogni giorno devo rinnegarmi, dove ogni giorno la mia umanità muore, perché possa avere spazio la presenza del Signore della vita: questo significa non avere paura di Dio e lasciare che Egli compia la mia esistenza.
- E poi un terzo aspetto: questa genealogia parla di una mia storia con il Signore e mi dice anche che questa storia con Dio non è mai individuale, è personale, ma sempre dentro una comunione, una comunità, una solidarietà in positivo e in negativo, perché questi nomi non sono nomi singoli, ma sono nomi di un popolo, nomi di un popolo che ha fatto una storia, nomi di un popolo che si è incontrato con il Signore, nomi di un popolo che ha trovato la presenza provvidente di Dio dentro la comunità, dentro una comunione, dentro una realtà di insieme.
Questo mi ricorda che Dio mi salva e mi vuole santo non da solo, ma con gli altri, non senza gli altri o nonostante gli altri, ma con gli altri e grazie agli altri. E in questa genealogia vediamo anche la nostra comunità, nella quale siamo chiamati a vivere: è questa comunità che Dio visita, è in questa comunità che Dio abita, è con questa comunità che Dio vuole camminare, è con questa comunità che vuole scrivere una storia di santità. Non posso pensare alla mia santità fuori della vita della comunità, isolata dalla vicenda delle altre e degli altri, perché io divento santo dentro questa storia; o rispondo dentro una comunione oppure non Gli sto rispondendo, o io sono dentro questa realtà, mi ci metto, mi ci butto fino in fondo, ci muoio e ci vivo, mi dono senza riserve, o non esiste una mia storia di santità, come non esiste per il cristiano al di fuori della Chiesa. Per noi non esiste una vicenda di santità senza la presenza degli altri.
- quale risposta vuole da me questo Dio che si svelae si scopre nella genealogia?
Che cosa deriva dall’avere contemplato la bellezza del volto di Dio – dal quale rimaniamo conquistati, innamorati – e dallo scoprire almeno qualche tratto del nostro volto presente? Tante cose le abbiamo già messe in luce, ma ne deriva poi questo in particolare: siamo chiamati a guardare indietro, a fare memoria, perché quella con Dio è una storia. Siamo chiamati a fare memoria … di cosa? Anzitutto fare memoria della grandezza di Dio nella mia vita, perché Dio è grande sempre e anche se la mia vita è piccola Lui è grande. Probabilmente proprio perché la mia vita è piccola e proprio perché è fatta di tante povertà, è fatta anche di tante meraviglie … anche perché là dove tante volte la mia vita è stata segnata dal peccato, dalla caduta, dalla ferita della mia meschinità, della mediocrità, è stata altrettanto segnata da un supplemento di amore e di misericordia e di perdono, di carità da parte del cuore di Dio. Allora la memoria è sempre una memoria colma delle meraviglie di Dio: facciamo in modo che sia colma delle meraviglie e che il nostro guardare indietro sia un guardare così … guardare indietro non può essere mai un guardare che ci affligge, ci disorienta, ci appesantisce, ci mortifica … No, non sarebbe un guardare stando dentro la relazione tra il volto di Dio e il mio volto. Il guardare indietro è sempre rimanere sorpresi, ammirati, meravigliati, commossi dell’opera che Dio ha fatto in me e con me, a volte anche nonostante me … Quando a volte guardiamo alla galleria degli orrori, guardiamo alla galleria degli orrori che il Signora ha trasformato in meraviglie! Questa è la nostra storia, quella che ci sta alle spalle, ma se questa è la storia che ci sta alle spalle, una identica storia ci sta anche davanti! Ecco perché il nostro guardare avanti è sempre un guardare con fiducia, è un guardare con speranza, sperando anche contro ogni speranza, perché quel Dio che, fedele, mi ha accompagnato nel corso della vita, ora ancora so che mi accompagnerà nonostante la mia povertà e con la mia povertà per compiere meraviglie! L’incontro del volto di Dio e del mio volto mi dice quello che la Scrittura rivela della storia umana, che la storia è storia di salvezza, che la storia è storia dei mirabilia Dei, cioè delle meraviglie di Dio. Anche la mia storia è storia delle meraviglie di Dio, così guardo indietro, così guardo l’oggi, così guardo ciò che mi attende.
Ecco perché noi non possiamo non vivere nella gioia, ecco perché noi non possiamo non vivere nella pace, ecco perché dalla nostra vita non può che trasmettersi una vitalità bella, che porta vita, che porta speranza, che porta luce là dove siamo. Ecco perché noi non possiamo non essere un pezzetto di cielo che tocca la terra e che rende la terra un po’ più celeste, a motivo di ciò che abbiamo nel cuore, a motivo di come viviamo la vita, a motivo di questo Dio che la rende bella e che attraverso Lui rende un po’ più bello ciò che noi tocchiamo e ciò che noi viviamo.
Guardare il volto di Dio e guardare il nostro significa ricordare che la mia vita e la nostra vita è questa storia delle meraviglie di Dio: la vita è bella perché Dio la incontra, e questo dobbiamo poterlo annunciare, dobbiamo poterlo testimoniare, dobbiamo poterlo fare toccare, si deve vedere che siamo degli innamorati, dei conquistati dall’amore … Rendere un po’ più cielo la terra degli uomini: questo è il nostro grande mandato, la nostra grande missione! Il cielo abita in noi perché ci abita Dio! E questo cielo possa toccare la terra, perché diventi il cielo di Dio!
Savona, 21 luglio 2019
SECONDA MEDITAZIONE
Anche quest’oggi sostiamo sul Vangelo di San Matteo. Abbiamo visto questa mattina il suo grande annuncio – quello di un Dio fedele, che non viene meno alla Sua promessa, che ci rimane accanto per portare a compimento il disegno di salvezza – e come lo abbia espresso attraverso i primi versetti del primo capitolo, cioè attraverso la genealogia. Questa buona notizia Matteo la ripete in continuazione attraverso il suo testo evangelico, tanto che la parte conclusiva – la frase che mette il sigillo sul Vangelo – in fondo non è che una sintesi di questo grande annuncio: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.”
Il discorso della montagna (Matteo 5, 12-16)
Prendiamo in esame oggi un’altra pagina nella quale ancora Matteo – se l’ascoltiamo con grande attenzione – ribadisce questo grande annuncio. Siamo al capitolo V: è il grande discorso della montagna, quello nel quale Gesù presenta le Beatitudini. Noi sappiamo che l’intero Vangelo è il corrispettivo in qualche modo dei cinque primi libri della Bibbia, perché contiene cinque grandi discorsi, corrispondenti ai cinque libri della legge o Pentateuco: dunque Gesù è il nuovo Mosè, e questo quinto capitolo del Vangelo di Matteo, che è il grande discorso della montagna, possiamo sicuramente metterlo in relazione con ciò che avviene sul Sinai: là Mosè riceve e dona le tavole della legge, possiamo dire che quello è il grande discorso di Mosè; qui Gesù dona le nuove tavole, la nuova legge: ecco il grande discorso della montagna, con al centro le Beatitudini. Appena terminata la presentazione delle Beatitudini si presenta una conclusione, una messa a fuoco, una sottolineatura, ed è proprio su questi versetti che ci fermiamo noi quest’oggi, mettendoli in relazione con un’altra pagina che troveremo nell’epistolario paolino e che penso ci aiuterà ad entrare ancora meglio dentro ciò che Matteo intende dirci, attraverso cui vuole ancora sottolineare e confermare quella buona notizia: Dio è il Dio della fedeltà, che non ci abbandona mai.
Ci fermiamo sui primi versetti, quelli nei quali Gesù prende come riferimento l’immagine del sale. Che cosa chiede Gesù ai suoi attraverso questa immagine del sale? Il sale, nella Scrittura – dobbiamo ricordarlo per capire l’intendimento del Signore – è una sostanza che svolge due grandi compiti: il primo è quello di curare e sanare ciò che è ammalato o ferito e purificare ciò che è impuro – persone o cose – con un’azione purificatrice, guaritrice, risanatrice. Accanto a questo compito ce n’è un altro che è quello di dare sapore e gusto agli alimenti. Pensiamo, ad esempio, a quelle prescrizioni del Levitico, dove proprio si attribuisce al sale una particolare potenza di purificazione: dovrai salare ogni tua offerta di oblazione … nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’Alleanza del tuo Dio … sopra ogni tua offerta porrai del sale: l’offerta va purificata perché possa essere presentata a Dio. Pensiamo a Ezechiele, quando parla dei bambini appena nati che vengono frizionati col sale per essere protetti dalle infezioni. Ecco la forza risanatrice, purificatrice, guaritrice del sale. Il profeta Eliseo, nel secondo Libro dei Re, rende sane le acque mortifere ponendovi dentro del sale.
Gesù, dopo aver presentato le Beatitudini, dice ai suoi “voi siete il sale della terra”, cioè voi siete coloro che nella terra portate guarigione, portate sanità, portate purificazione; voi entrate dentro questa realtà terrena e questo mondo purificando dal male, dal peccato, da quello che è distanza da Dio. Questa è la prima opera che voi compite: purificate, sanate, guarite. In questo senso siete chiamati ad essere sale del mondo e sale della terra. Dove voi andate, dove voi passate si risanano le acque torbide, le acque inquinate. Dove voi andate, dove voi passate, c’è una guarigione delle malattie del cuore, dell’anima, della terra. Questo è il primo dei compiti che Gesù affida ai suoi discepoli.
C’é un passaggio al capitolo 10° degli Atti degli Apostoli dove si descrive l’opera e l’agire di Gesù: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui”. Questo passo ci aiuta a capire perché noi possiamo sanare, perché noi possiamo purificare, perché noi possiamo guarire, perché in verità quel sale che dobbiamo essere è il Signore in noi. Noi siamo sale della terra non in virtù di qualche nostra particolare capacità, ma semplicemente in virtù del fatto che il sale della terra, il sale che purifica, che caccia il maligno, che sconfigge il male è il Signore Gesù che abita la nostra vita. Ecco perché l’espressione che usa Gesù non è “voi dovete essere il sale” ma “voi siete il sale, perché io abito ormai la vostra vita, io vi ho reso sale con la mia presenza, vi ho reso capaci di purificare e di espellere il male là dove state, perché sono con voi e in voi”. D’altra parte il sale ha anche la seconda grande proprietà, che è quella di dare sapore agli alimenti, cioè di portare gusto e bellezza là dove viene introdotto, di dare vitalità al cibo che altrimenti rimarrebbe inerte e informe, di dare piacere a chi lo porta alla bocca. Anche qui, perché è possibile a noi essere sale che dà gusto alla vita, che mette dentro alla vita un germe di bellezza, di colore, di vitalità? perché Lui è il sale che è con noi, perché Lui è il sale che è in noi, Lui è il sale della terra, che attraverso di noi porta bellezza, porta sapore, porta gusto. Gesù dice “voi siete il sale della terra” e noi potremmo interpretare questa parola come un compito, rispetto al quale ci sentiamo impari: “Signore, come posso io essere elemento di guarigione in mezzo a questo mondo malato? come posso io essere quel sale che risana le ferite dell’umanità? come posso io essere quel sale che porta purificazione là dove è malattia e peccato? come posso io essere quel sale che dona gusto alla vita degli uomini, che fa intravvedere una bellezza che non è di questo mondo? come posso io portare la bella notizia?” Gesù non viene ad addossarci un dovere in più rispetto a quelli che abbiamo, viene a donarci una possibilità che non è la nostra, ma che è Lui a donarci; viene a spalancare di fronte alla nostra vita l’orizzonte che noi non siamo capaci di spalancare, ma è Lui che lo spalanca in noi e attraverso di noi. Allora non c’è da dire “come io posso essere il sale della terra?”, ma c’è da dire “grazie, perché mi hai reso sale della terra! sono meravigliato perché sono diventato capace grazie a Te di sanare le malattie degli uomini! sono sorpreso perché sono diventato capace di dare gusto alla vita dell’umanità, in virtù di ciò che Tu hai operato e operi sempre nella mia vita e in virtù del fatto che Tu sei con me!”. Ecco la differenza che c’è tra sentirci dire “voi dovete essere” e “voi siete … io ho trasformato la vostra vita … siete il sale perché io, che sono il sale, sono presente in voi, vi ho reso salati!”.
Capiamo perché allora Matteo, attraverso queste parole, ci parla della fedeltà di Dio alla Sua promessa, ci parla della compagnia bella con la quale il Signore prende per mano la nostra vita, perché non ci dà un compito abbandonandoci lungo la strada, ma nel momento in cui ci dà un compito, che è stupendo, lo realizza per noi, con noi, in noi. È sempre Lui ad operare, non noi, ma Lui attraverso di noi. Ecco il Dio fedele che è con noi fino alla fine del mondo, ecco la bella notizia: io posso vivere così, posso essere il sale in mezzo agli uomini, in questo mondo!
I versetti successivi sono quelli in cui Gesù completa questo mandato e finisce di tracciare la nostra identità: “Voi siete la luce del mondo”, la luce che non può restare nascosta, ma che è chiamata a brillare per illuminare ogni cosa e ogni realtà. L’immagine della luce è molto bella, perché se il sale purifica e dà sapore, la luce porta colore, vivacità, vita, porta la sconfitta di ciò che è tenebroso, scuro, annebbiato. In fondo la luce è proprio ciò che porta vita in positivo: se il sale ha una connotazione positiva ma anche e soprattutto negativa, di purificazione, la luce è tutto positivo perché è sovrabbondanza di vita. Ci è detto: “voi siete luce perché io sono luce in voi, luce per voi, luce con voi”. Allora di nuovo noi ci domandiamo: “Signore, com’è possibile per me essere luce? come posso io portare questa sovrabbondanza di vita in un mondo toccato dalla morte? come faccio?”. Egli ci dice: “Tu puoi perché io sono la luce della vita in te e io luce ho trasformato la tua vita in luce!”.
Questi versetti in qualche modo danno completezza a quanto il Signore ha detto nelle Beatitudini. È importante che li consideriamo proprio in relazione alla Beatitudini, perché le Beatitudini non sono il grande discorso con il quale Gesù, da un punto di vista semplicemente moralistico, viene ad imporci un peso sulla vita. Che cosa sarebbe cambiato rispetto a Mosè, che cosa sarebbe cambiato rispetto alla legge del Sinai? Non sarebbe cambiato nulla, anzi, la nostra situazione sarebbe peggiorata, perché la profondità di ciò che Gesù dice sul monte delle Beatitudini supera la profondità della legge del Sinai e quindi ciò che viene domandato sul monte delle Beatitudini sarebbe qualcosa che ulteriormente verrebbe a gravare sulle nostre spalle, facendoci toccare con mano la nostra impossibilità a viverlo, come in fondo Israele toccava con mano che non era possibile vivere i dieci Comandamenti, ma doveva fare questa esperienza perché dal cuore di Israele sgorgasse la supplica: “Signore, vieni, scendi, salvaci!”. Era la pedagogia di Dio, perché Israele potesse attendere il Salvatore, il Messia, ma Gesù non viene per farci attendere ancora qualcuno, anzi, è qualcuno ancora più capace di togliere dalla nostra vita questa incapacità e questa impotenza. Le Beatitudini non sono una ripresa nella linea della legge del Sinai, ma sono l’espressione di ciò che noi siamo, di ciò che noi possiamo, di quello che ci è donato! Tutto il discorso della montagna va in questa direzione, per cui quando noi ascoltiamo queste parole – e quando soprattutto noi ascoltiamo Gesù che dice “vi è stato detto, ma io vi dico” – non commettiamo l’errore di interpretare “vi è stata detta una cosa grande, difficile, bella, ma io vi dico un’altra ancora più bella e ancora più difficile … coraggio, fatela!”. No, Gesù dice “vi è stato detto, ma io vi dico” per dire “io vi dono e vi metto nel cuore non soltanto quello che era stato detto, ma qualcosa di più, la mia Parola che opera! Io sono Parola vivente, operante, quindi quello che vi dico, faccio e quello che adesso vi metto davanti agli occhi è quello che faccio nel cuore, quindi ormai voi siete questa capacità stupenda di vivere una vita nuova, che è la vita stessa di Dio, la vita della santità di Dio!”.
Questa è la vita cristiana! Molte volte – personalmente e anche nel modo di testimoniare – non è proprio questo che noi viviamo quando pensiamo che il cammino della santità sia uno sforzo titanico con il quale cerchiamo disperatamente di raggiungere le mete … e non ci arriviamo mai … Non c’è sforzo titanico che tenga, ma allora com’è possibile vivere le Beatitudini? Nessuno ci riesce, umanamente parlando? Tante volte viviamo la nostra testimonianza come l’offerta di un giogo che schiaccia e distrugge la vita, perché ci troviamo di fronte a qualcosa di bello ma opprimente … Invece Gesù ci chiama a vivere in prima persona la vita della fede come una vita di liberazione, liberante, perché finalmente sono liberato da quello che mi opprimeva, da questa incapacità che mi imprigionava … e quando parlo e testimonio il Vangelo, devo parlare e testimoniare di una verità, di un incontro che finalmente mi libera dalla mia schiavitù, mi toglie da quell’ambiente angusto nel quale sono spalancando un orizzonte di bellezza e di vita! Questa è la buona novella: non ascoltare parole che mi propongono mete irraggiungibili dalle quali mi sento schiacciato nella mia povertà e che io propongo al mondo rendendolo ancora più schiavo, perché gli dico che deve fare qualcosa che tanto non riuscirà mai a fare e sotto il peso del quale morirà …che bella notizia è questa?!?! No, la bella notizia è la libertà che è stata donata, una vittoria che già è mia, una potenzialità nuova che mi mette nella condizione di vivere una vita bellissima, perché è quella di Dio, che non devo io cercare disperatamente, ma che ormai ho dentro, porto nel cuore, piantata nelle radici della vita: questa è la bellezza della nostra vita personale e della testimonianza che viviamo! San Matteo viene a dirci questo, ecco perché il suo Vangelo, anche in questo passaggio del 5° capitolo, è una bella notizia, è un annuncio di gioia, perché esattamente viene a dirci questo!
L’inno alla carità (1 Corinzi, 13)
Questa pagina del Vangelo di Matteo noi la vogliamo oggi considerare in relazione con un’altra pagina che ci porta nel cuore dell’epistolario paolino, l’inno alla carità. Noi siamo sale della terra e luce del mondo perché la carità brilla nella nostra vita, perché è la carità che rende nuova la nostra vita, perché è la carità che rende affascinante la nostra vita, perché è la carità che conquista al Signore la nostra vita. Ma che cos’è la carità? Forse le opere buone che facciamo noi, quelle poche cose che nella nostra povera umanità riusciamo ad organizzare di bene, quel povero amore che il nostro povero cuore riesce a esprimere? Sarebbe questa la carità capace di affascinare il mondo e conquistare il Signore? No … la carità, dice San Paolo, è l’amore di Dio riversato nei nostri cuori, è la vita di Dio nel nostro cuore, è l’amore infinito di Dio dentro di noi, è la carità del cuore di Cristo che abita questo nostro povero cuore malato. Allora l’inno alla carità di San Paolo – che ha capito benissimo Matteo, perché era ebreo come Matteo – non è l’inno a qualcosa che dobbiamo fare, perché dobbiamo essere benigni, perché dobbiamo non vantarci, perché dobbiamo … No, è l’inno ad una realtà che Paolo trova dentro di sé, cioè l’inno a un dono che egli ha ricevuto, l’inno all’amore Dio che palpita nel suo cuore, l’inno carico di stupore e di meraviglia per una vita che lui avverte e che tutto ha cambiato di quello che lui era prima. San Paolo in prima persona aveva sperimentato questo passaggio, lui che come Matteo-Levi, il pubblicano, apparteneva al popolo di Israele, Levi come peccatore, Paolo come giudeo osservante e particolarmente deciso nel testimoniare e propagare la legge. Che cosa gli accade a Damasco? Quale è il cuore della sua vicenda di conversione, quella caduta, per la quale in lui il mondo cambia? qual è il cambiamento che Paolo vive? Esattamente questo: il passaggio dal mondo della legge al mondo della Grazia, dal mondo di chi – con le proprie forze, senza riuscirci – vuole conquistarsi un posto davanti a Dio al mondo di chi invece si accorge che quel posto gli è già stato conquistato dall’amore di Dio, dalla Grazia di Dio! Questo passaggio, questa caduta, noi tante volte dobbiamo ancora viverla, perché siamo nel mondo precedente, in un mondo antico, in un mondo vecchio, il mondo che era di Levi, il pubblicano. Matteo sul monte ha capito che c’era un mondo nuovo, Paolo quando è caduto da cavallo si è accorto che si apriva un mondo nuovo … non per nulla diventa cieco sul mondo di prima e apre gli occhi sul mondo nuovo. Lo spartiacque decisivo per Matteo è sul monte delle beatitudini, per Paolo è sulla via del Damasco. Il mondo vecchio non c’è più, la schiavitù è abbattuta: c’è un mondo nuovo, il mondo della libertà, della Grazia, di questa potenzialità nuova, della carità di Cristo che ormai ha preso possesso della nostra vita e del nostro cuore. Perciò l’inno alla carità è un canto di sorpresa, di lode, di gratitudine e meraviglia di fronte a qualcosa che noi abbiamo in dono: la carità del cuore di Cristo! Paolo si guarda dentro e scopre che si può amare così, che la sua vita può essere una tale carità, può essere luminosa a tal punto! Per questo Paolo inizia l’inno alla carità introducendolo per tre volte, riprendendo cose così importanti, così belle, ma per le quali senza la carità non c’è nessun valore … In questi tre passaggi Paolo ricorda l’uomo vecchio, quello che in fondo lui voleva avere, poteva avere, ma senza la carità è nulla, non giova a nulla. La carità non avrà mai fine, perché è l’amore di Dio, e che cosa rimarrà nell’eternità, se non Dio amore e null’altro? e dunque rimarremo noi, quando avremo l’amore di Dio, la carità di Dio! Allora anche noi oggi, con l’aiuto di Matteo e di Paolo, vogliamo innalzare il nostro inno alla carità del Signore nostro Dio, alla salvezza che il Signore ci ha donato, alla vita nuova che è dentro di noi, a questa libertà nella quale ormai viviamo e siamo chiamati a vivere!
Vogliamo ancora per un momento sostare su quanto l’apostolo ci dice nell’inno alla carità, come abbiamo sostato su quelle due immagini del sale e della luce … sostiamo un momento su questa carità, che siamo chiamati a vivere perché l’abbiamo, perché ormai è la nostra, perché ci è stata donata … per gustare e quindi per non ricadere nell’errore, per gustare quello che noi siamo ormai, quello che la nostra vita è … semplicemente dobbiamo lasciar fare, dobbiamo lasciare che prenda corpo dentro di noi, lasciare che viva dentro di noi … questa carità è tutta racchiusa nel cuore, dobbiamo lasciare che si sprigioni e che prenda forma nella nostra vita! Allora noi passiamo in rassegna queste espressioni della carità che Paolo elenca proprio per dire “guarda che bellezza che mi porto dentro! guarda chi sono! guarda chi ogni giorno della vita posso essere! guarda come io posso vivere! lascia che la carità di Gesù prenda il sopravvento nel mio cuore!”.
- La carità è paziente: il termine paziente ha in sé la radice etimologica del “portare” (dal verbo latino patior, porto), perché la carità è paziente in quanto porta su di sé l’altro … Come è bella quella sorella che è capace di portare su di sé l’altro e i suoi dolori perché li fa suoi, di portare le pesantezze dell’altro perché le fa sue, di portare le fatiche di chi vive accanto a lei perché le fa sue … e com’è bella anche la sorella che è capace di portare le gioie dell’altra perché le fa sue, perché quelle gioie sono anche sue personali! La carità è paziente perché porta. Il Signore ci ha dato questa capacità di amore, di saper portare l’altro sulle nostre spalle e sul nostro cuore con le sue gioie e con i suoi dolori, perché ci sta a cuore!
- La carità è benigna: come è bello quando abbiamo una sorella che è buona, non solo perché – come si dice a volte nel nostro modo di parlare – è una donna buona, ma perché mi accorgo che i suoi occhi esprimono bontà, il suo volto dice bontà, la sua parola è bontà, la sua presenza è dono, bontà e rende buone le relazioni, l’ambiente, la vita … Io spesso racconto quanto tante volte ha raccontato a me il Cardinale Canestri che, diventato parroco, era andato ad incontrare il suo Vescovo di allora, a Roma, di cui lui era molto amico e gli aveva chiesto in quell’occasione un consiglio per poter iniziare il suo nuovo ministero come parroco. Il Vescovo gli aveva risposto così : “Sì, volentieri te ne do uno: sii buono e non sbaglierai mai!”. Diversi anni dopo, diventando Vescovo, era andato di nuovo dal suo amico ponendogli la stessa domanda: “Iniziando questo nuovo importante ministero, mi dia un consiglio” e ne aveva ricevuto la stessa risposta: “Te l’ho già detto una volta: sii buono e non sbaglierai mai!”. La bontà è un’espressione bella della carità del cuore del Signore presente dentro di noi, possiamo essere così belli, perché pazienti, possiamo essere così belli, perché buoni!
- La carità non è invidiosa: vorrei mettere adesso qui in evidenza ciò che noi viviamo nelle relazioni quotidiane, soprattutto all’interno di una comunità là dove si incontrano, si incrociano età diverse, strade diverse, vite diverse. Tante volte viviamo questa sorta di concorrenza, di invidia e di gelosia che prende una forma particolare … ma vediamo in positivo: colui che è più avanti in età ha un’esperienza da dare, storia da donare, delle radici da custodire e trasmettere. D’altra parte chi invece è ancora giovane in età ha uno slancio da portare, una novità da introdurre, una speranza da donare. Il vivere insieme non è nell’invidia, non è nella gelosia: da questo punto di vista è la capacità di sapersi reciprocamente dare quei doni che caratterizzano l’età e la storia di ciascuno. Io ti donerò la mia esperienza, ti darò la mia storia, guarderò con simpatia la tua novità, il tuo slancio, la tua speranza. Io non posso essere invidioso di te che sei giovane, cominciando a dire “questo non va, quest’altro non va, questo non si è mai fatto, questo quando ero giovane non si faceva” … E’ una sorta di invidia che mortifica la vita e che tra l’altro va contro di me, perché tu sei il mio domani, tu sei la possibilità che quello che ho vissuto, la mia storia, le mie radici, la mia esperienza possa proseguire. D’altronde tu che sei giovane devi guardare con interesse chi è avanti negli anni, che ti consegna un patrimonio che tu dovrai portare avanti anche con delle novità, quel patrimonio che è la tua storia, le tue radici … E allora non dirai “questa non capisce più niente”, ma la guarderai con amore e con ammirazione per quello che è, la sua storia, la sua vita. Ecco che cosa significa non essere invidiosi dentro una realtà comunitaria, che ha una sua storia, e così siamo belli nella carità … come è bello lo sguardo di una sorella anziana che mi vuole comunicare quanto ella ha vissuto, ma nello stesso tempo mi osserva con simpatia, perché vede crescere dei germogli, li aiuta a crescere e non li abbatte … e com’è bella quella suora giovane che è piena di slancio, che porta la propria novità, che porta la freschezza della sua vita giovane, ma anche guarda con tanto rispetto, con ammirazione, con il desiderio di apprendere un’esperienza di vita inestimabile, che è stata vissuta, che è un patrimonio. Ecco la carità che non è invidiosa: noi possiamo vivere da non invidiosi questa bellezza della carità, del cuore Signore.
- La carità non si vanta: c’è un modo di vantarsi che tante volte ci caratterizza ed è quel vanto che noi esprimiamo attraverso il giudizio, il giudizio velenoso, cattivo, che fa morire, che propaga veleno di morte. Perché quello è un vanto? Perché, quando noi giudichiamo, giudichiamo in modo cattivo, ci mettiamo al di sopra dell’altro, siamo sulla cattedra di chi può dare i suoi giudizi incondizionatamente. Mi sento più alto, mi metto più in alto dell’altro, che è là in basso e deve prendere su di sé questo veleno cattivo del mio giudizio. La carità, invece, non si vanta, perché mi rende capace di mettermi sotto la cattedra e di guardare non dall’alto in basso, ma dal basso verso l’alto, sapendo riconoscere la bellezza dell’altro, la bontà dell’altro, sapendo mettere in evidenza le cose positive dell’altro, facendo risaltare la luce dell’altro e non sempre le ombre e l’oscurità.
C’era un monaco che in monastero era conosciuto per essere costantemente in ritardo. Era un monaco benedettino, pertanto la puntualità era un elemento importante dell’osservanza monastica. Eppure in coro arrivava sempre tardi e quindi, ogni volta, come sapete, doveva mettersi in ginocchio e sottostare alla penitenza monastica che l’abate gli dava. E questo andò avanti fino all’ultimo dei suoi giorni. Morì e, come accade nei monasteri benedettini, l’abate fece un profilo di questo suo monaco e, tra le altre cose, disse questo particolare, che era noto a tutti e per il quale spesso questo monaco era sulla bocca di tutti, perché lo giudicavano e lo consideravano imperfetto nella sua vita monastica. L’abate cominciò a tracciare il profilo, poi arrivò a questo dato della vita del suo monaco e quindi si fermò e disse ai monaci che erano riuniti nel coro: “Vedete, questo nostro fratello per tutta la vita è arrivato in ritardo alla preghiera e al coro, e voi l’avete giudicato, ma dovete sapere che questo nostro fratello era un uomo di grandissima orazione e tutte le notti per lunghe ore vegliava in preghiera senza che nessuno di voi lo sapesse; lo sapevo io, e per mantenerlo umile gli avevo dato questa penitenza: di arrivare sempre in ritardo al coro”. - La carità non manca di rispetto:significa dire all’altro “tu sei importante, tu vali, io ti rispetto, sei degno della mia attenzione”. Purtroppo c’è una realtà triste nelle nostre esistenze comunitarie: noi a volte non soltanto non viviamo una carità bella e fatta di slancio, ma a volte manchiamo di rispetto, addirittura manchiamo di una sana educazione, che è la prima forma della carità. Pensate a quelle parole dette senza educazione, mancando di rispetto, pensate a quei modi di comportarci che mancano di rispetto e che non sono educati, pensate a quei musi prolungati che sono mancanza di rispetto e che non sono educazione. Per una mancanza di rispetto e di educazione nelle comunità a volte ci prendiamo in negativo delle libertà che fuori non sarebbero possibili, perché in un contesto diverso mi farebbero pelo e contro pelo … Nelle nostre comunità questo si sopporta, ma questa è la carità del cuore di Gesù? Allora, in positivo, com’è bella quella sorella, quella consacrata che non manca mai di rispetto, perché si vede che nel suo cuore vive la carità del cuore del Signore, che le fa percepire la bellezza e la dignità, l’importanza, il valore di chi ha davanti, che tratta con delicatezza, con attenzione! Ognuna ha un tesoro che è rispettato, guardato con attenzione, con amore, trattato con altrettanta attenzione, con altrettanto amore!
- La carità non cerca il suo interesse: a Roma c’era un grande confessore, padre Felice Cappello, di cui è in corso la causa di beatificazione, uno dei grandi confessori di Roma del secolo scorso. Padre Cappello, che era un grande moralista e un uomo anche di grande cultura, era un gesuita. Veniva spesso consultato dal Cardinale Vicario di Roma, proprio perché di lui si fidava molto. Un giorno lo convocò insieme ad altri collaboratori: c’era una questione importante, per la quale doveva arrivare ad una decisione, e quindi convocò i suoi collaboratori e insieme chiamò anche il padre Cappello. Li incontrò nella sala dell’episcopio e, dopo aver posto la questione, ad uno ad uno chiese il parere. Ciascuno, in verità, aveva già ricevuto prima dal Cardinale le informazioni circa la problematica, quindi aveva avuto la possibilità di pensare, e ognuno tirò fuori un po’ quello che aveva preparato e disse il proprio punto di vista. Terminato il giro della consultazione, mentre la riunione stava per finire, uno dei presenti si accorse che, per svista o per dimenticanza, il Cardinale consultando i singoli aveva saltato padre Cappello, e allora disse: “Eminenza, guardi che forse abbiamo dimenticato di sentire padre Felice”. E il Cardinale disse: “Padre, abbia pazienza, mi sono accorto forse adesso che non abbiamo il suo parere”. Il padre, che era stato lì buono, buono, non si era scomposto di fronte a questa dimenticanza un po’ grave. Si chinò sulla sua borsa, tirò fuori dalla borsa i fogli che aveva preparato, probabilmente con ore e ore di studio, di lavoro e, con grande umiltà, lesse il suo parere in merito alla questione che gli era stata sottoposta. Terminata la lettura, tutti gli altri, che avevano ascoltato in profondo silenzio, cambiarono il loro parere e la decisione che venne presa fu proprio quella che in primo tempo era stata scartata. Quest’uomo, che aveva lavorato duramente per arrivare preparato, se non ci fosse stata quella persona che si era accorta che non era stato consultato sarebbe rimasto zitto, avrebbe ripreso la sua borsa e sarebbe tornato a casa sua senza dire niente. Ecco la carità che non si vanta: aveva vissuto la carità perché aveva dato ore del suo tempo prezioso per prepararsi, ma sarebbe stato pronto a non dire il suo parere, perché la carità non si vanta, è silenziosa, discreta, nascosta.
- La carità non si adira: un giorno un monaco giovane si recò da monaco più anziano perché si era accorto di avere un grande difetto, cioè di reagire in modo sproporzionato di fronte a quello che lo feriva, lo infastidiva o riteneva una cosa ingiusta, non buona, non bella; reagiva in modo che capiva non andava bene, metteva disagio nella comunità, insomma era come se fosse colto un po’ da momenti di ira. Allora andò da questo padre anziano e disse: “Padre, io ho questo problema, che cosa posso fare? che cosa mi consigli?”. Allora le parole del padre anziano: “Se hai litigato con tuo fratello e ti proponi di ucciderlo, prima siediti e fuma una pipa; finita la prima pipa, ti accorgerai che la morte, tutto sommato, è una punizione forse troppo grande per la colpa commessa e ti proporrai di dargli soltanto una buona bastonata. Allora carica la seconda pipa e fumala fino in fondo: alla fine ti persuaderai che alcune parole energiche, tutto sommato, possono sostituire anche le botte. Allora carica la terza pipa, e quando avrai finito di fumarla, sai che cosa ti capiterà? Andrai dal tuo fratello e lo abbraccerai!”. La carità è questa capacità di non essere totalmente in balia delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, delle proprie passioni, questa capacità di saper arginare, di saper contenere, in vista di un qualcosa di più grande, di più bello, e di un volere bene autentico.
- La carità non tiene conto del male ricevuto: qui ciascuno potrebbe riflettere su quanto siamo capaci di perdonare autenticamente. Dico solo questo: a volte nelle relazioni fraterne, soprattutto nelle comunità, ci sono dei rancori che vengono custoditi nel cuore per anni, se non per tutta la vita, e dopo tanto tempo – dopo che sono passati anni e a volte dopo che è passata una vita – ancora c’è chi dice “questo mi ha fatto … quello mi ha detto …”. Questo a volte è una realtà della nostra miseria, ma quale capacità di perdono è la carità del cuore di Gesù, che muore in croce perdonando!
- La carità non gode dell’ingiustizia: c’è un’ingiustizia che noi reciprocamente ci facciamo, a volte interiormente – perché non la esprimiamo – altre volte con la parola … è quella che si realizza quando noi svalutiamo gli altri e mettiamo in evidenza ciò che è negativo. Quante volte questo accade: godiamo, proviamo piacere nel sottolineare che l’altro ha sbagliato, che l’altro non ha quella dote, che ha quella imperfezione … La svalutazione dell’altro è un’ingiustizia: la carità del cuore di Gesù non ci fa godere dentro l’ingiustizia, ma ci fa godere solo della giustizia e cioè ci rende capaci di mettere in evidenza la bellezza altrui, la bontà altrui, il bene.
- La carità si compiace della verità: la verità è anche la concretezza del bene e della carità …
C’era una donna molto semplice, che nella sua vita aveva fatto, la mamma di famiglia stando a casa e quindi dedicandosi alle cose della casa, dei suoi figli, del marito, aveva vissuto anni e anni così. Quando morì, andò verso le porte del paradiso e lì in lontananza vide Gesù che accoglieva coloro che gli si presentavano innanzi. Mentre si avvicinava, cominciò a sentire Gesù che diceva “entra nella mia casa, tu che hai versato il sangue per testimoniare il Vangelo”, e poi “entra nella mia casa, perché tu hai parlato bene di me, hai insegnato, hai annunziato il Vangelo”, e poi ancora “entra nella mia casa, perché hai realizzato questa grande opera per me”. Questa umile donna, man mano che si avvicinava, cominciava a preoccuparsi e a dire a stessa “io veramente di queste cose non ne ho fatto nella mia vita. Cosa mi dirà il Signore?”. Quando fu sulla soglia del paradiso, Gesù l’accolse con un grande sorriso e lei Gli disse “Signore, non so che cosa ho da presentarti …”, ma Gesù le fece un sorriso ancora più grande e le disse “entra, perché tu mi hai stirato tante camicie”. La verità della carità è la carità che si rende concreta in quei dettagli della vita, in quella concretezza della vita che non fa capriole di fantasia, ma che sa realizzarsi lì, nella realtà e nella concretezza in cui si trova.
Questo è l’inno alla carità, che dobbiamo considerare per mettere a fuoco le nostre incongruenze, ma soprattutto per fare risaltare ciò che la nostra vita può essere nella misura in cui lasciamo spazio a quell’amore che è stato riversato nei nostri cuori. Allora oggi, in questa giornata, innalziamo anche noi un inno di ringraziamento al Signore perché, come ci ricorda Matteo, è il Dio fedele che non ci lascia, che ci dona la libertà della vita nuova e ci salva.
Savona, 22 luglio 2019
PRIMA MEDITAZIONE
Mentre invocavamo lo Spirito Santo su di noi pensavo come sia importante che questa invocazione accompagni questi giorni degli Esercizi, ma anche in generale il cammino della nostra vita, perché davvero abbiamo bisogno di questo Spirito che venga in noi e a volte ci aiuti a piangere con sincerità sulle nostre colpe, altre volte a provare la gioia per la fede che ci è stata donata, altre volte a ritrovare lo slancio del cuore affaticato dalle vicende delle nostre giornate. Davvero questo Spirito è vita, vita di Dio in noi che dobbiamo con tanta fiducia continuare a invocare su di noi anche durante gli Esercizi. Certo, c’è il momento dell’invocazione comunitaria, ma mi pare importante che ci sia anche quasi continuamente il momento di una invocazione personale perché questo Spirito scenda e muova davvero il cuore, perché possa orientarci in modo completo, integrale, definitivo verso Dio. Lo Spirito è l’amico della nostra vita spirituale, lo Spirito è il grande alleato nella nostra quotidiana ricerca del volto di Gesù e dunque della santità. Ecco perché dobbiamo davvero continuamente invocarlo con tanta fiducia, anche perché in verità qual è la grande domanda che racchiude tutte le altre domande e che il Signore stesso ci invita a fare? E’ proprio la domanda che invoca lo Spirito Santo, perché nello Spirito Santo c’è tutto e noi non sempre prendiamo con la dovuta serietà questa indicazione che Gesù ci offre. E’ la richiesta più bella, più importante della vita, è quella che racchiude tutte le altre richieste che possiamo portare nel cuore e formulare nella nostra preghiera.
Abituiamoci a questa invocazione ripetuta perché lo Spirito scenda su di noi: l’invocazione che abbiamo cantato oggi conosce delle note alte e a volte è un po’ faticoso arrivarci … comunque la fatica del salire ci dice che invocare lo Spirito Santo significa esattamente questo: andare in alto, supplichevoli, per portare giù presso di noi lo Spirito. E’ bello arrampicarsi con la voce nelle note più alte e chiedere allo Spirito “vieni, vieni, …”.
Il cammino degli Esercizi Spirituali
Il cammino degli Esercizi Spirituali prevede abitualmente tre tappe per il lavoro personale che ciascuno è chiamato a fare durante gli Esercizi stessi:
- la via purificativa:punta alla riforma del cuore e della vita, è quel momento nel quale noi guardiamo da dove veniamo, come stiamo e facciamo il punto della situazione. E’ il momento nel quale ci decidiamo con forza a riformare quanto capiamo che ci separa da Dio al momento presente, è quella via che tradizionalmente viene sintetizzata così: deformata reformare, le cose che sono deformate, cioè che non sono in sintonia con la forma della nostra vita, le dobbiamo riformare, cioè riportare alla forma vera, la forma bella. La forma della nostra vita chi è? E’ Gesù! Noi deformiamo questa forma e allora dobbiamo riformare ciò che abbiamo deformato attraverso il peccato e attraverso la nostra ribellione al Signore. Deformata reformare: questo è il grande esercizio che nel tempo degli Esercizi Spirituali siamo chiamati a fare. Di fronte a Gesù Lo guardiamo, ritroviamo in Lui ciò che dobbiamo essere, capiamo ciò che si è deformato in noi e lo riformiamo, per cercare di riprendere quella forma originaria che ci è stata donata dal Signore, il Salvatore.
- la via illuminativa:è il momento nel quale noi con gioia e con rinnovato slancio del cuore cerchiamo di conformare la nostra vita al Signore ed è quello che con il linguaggio della tradizione spirituale sintetizziamo dicendo riformata conformare, cioè quello che noi abbiamo rinnovato vogliamo conformarlo pienamente all’immagine, a Gesù, a cui dobbiamo sempre più somigliare, di cui dobbiamo riproporre i tratti del volto, del cuore, degli occhi, della vita, della nostra personale esistenza. Anche questo fa parte degli Esercizi, riformata conformare. Quale strada devo percorrere per vivere conformemente al Signore della mia vita?
- la via unitiva:tende a farci diventare sempre più partecipi della vita stessa di Gesù, perché questa vita sia dentro la nostra vita: è quello che con il linguaggio della tradizione sintetizziamo dicendo conformata confirmare.
Ecco quello che gli Esercizi devono portarci a realizzare: non ci sarebbero realmente Esercizi senza il passaggio attraverso queste tre tappe. Questo è l’esercizio spirituale che con la Grazia di Dio siamo chiamati a fare ogni volta per ritrovare la via, rimetterci saldamente su di essa e radicarci con una decisione definitiva, vera, totale. Questo triplice passaggio è quello che l’Evangelista Marco intende farci fare attraverso il suo Vangelo: chiediamogli l’aiuto per cogliere nelle sue pagine e nelle sue parole un’altra espressione della buona notizia del Vangelo per la nostra vita.
Gesù è la bella notizia
Si è detto che Matteo è un po’ il Vangelo del catechista, cioè il Vangelo di chi presenta Gesù come il grande catechista che porge la novità della Parola, la novità della salvezza. Si dice che il Vangelo di Marco è il Vangelo del catecumeno, colui che inizia e poi conferma la propria sequela del Signore, punta gli occhi su Gesù, che è la forma della sua vita, guarda la propria vita deformata, la riforma, la conforma su quel Gesù a cui si è appassionato e poi si conferma in questa appartenenza al Signore con decisioni precise e concrete che riguardano la sua esistenza.
Ecco, noi ci mettiamo alla scuola di Marco per puntare oggi gli occhi su Gesù, anche perché la bella notizia, così come Marco la esprime, è sempre quella di cui parla Matteo, di cui parla Luca, di cui parla Giovanni, ma ciascuno la esprime secondo categorie proprie, non soltanto legate alla personale esperienza della fede, ma anche in relazione alla comunità cristiana a cui si riferisce. Per Marco la bella notizia è un nome, Gesù: Gesù è la gioia, Gesù è la bella notizia che è entrata nel mondo, Gesù condensa in sé tutto quello che può realmente portare l’uomo al proprio compimento definitivo e salvarlo. Questa in Marco è la bella notizia. Quando noi percorriamo il Vangelo di Marco dobbiamo vederlo come condensato in quell’esperienza che fece Francesco quando a Natale – ci racconta il biografo – nominando il nome di Gesù, il bambino di Betlemme, si leccava le labbra per gustare la dolcezza di questo nome che risuonava nella sua bocca e nelle sue labbra. Ecco, Marco vive questa esperienza di gustare la bellezza e la dolcezza del nome di Gesù in cui è tutto, perché è condensato tutto il progetto di Dio sulla storia e sull’uomo, e di questa dolcezza che lui gusta con le proprie labbra ci vuole rendere partecipi, vuole che anche noi ascoltiamo questa bella notizia e troviamo in Gesù la dolcezza della vita, la gioia della vita, tutto ciò di cui abbiamo realmente bisogno, in modo sovrabbondante e imprevedibile. Questo è il Vangelo di Marco ed è proprio su questo che cercheremo di porre attenzione considerando alcuni testi.
Quello di Marco è il più breve dei 4 Vangeli e anche il più antico. Chi lo legge, – si tratta più o meno di 670-687 versetti – lo legge tutto di un fiato (tanto che è stato definito il Vangelo di una notte) e quando lo si legge con attenzione (sarebbe interessante leggerlo di seguito, in una volta sola) si coglie questa passione che Marco ha per Gesù, la sua persona, la sua vita, il suo nome, ciò che Egli fa, ciò che Egli dice. Chi lo legge così rimane colpito da una tensione che percorre il racconto dall’inizio alla fine: c’è una tensione che procede dal passato e va verso il presente, perché Marco, intende parlare ai destinatari di oggi, dal passato al presente. Fa memoria della vita di Gesù e dell’opera di Gesù perché tu, che oggi ti avvicini all’annuncio della fede, ti possa accorgere della bellezza di questo nome e di questo volto.
E’ il Vangelo per i catecumeni, quindi c’è l’interesse per il presente, e Marco desidera che chi accosta oggi l’annuncio del Vangelo ne colga tutta la bellezza, i tratti del volto e del cuore del Signore. Però c’è un’altra tensione che si intreccia con questa, una tensione che procede dal presente al passato, perché chi oggi incontra Gesù si pone delle domande: voglio capire di più chi era, come ha vissuto, cosa ha detto, qual è il segreto della sua vita, dove sta la sua profonda identità … Ecco, Marco porta il catecumeno ad incontrare oggi la bellezza del Signore e poi porta il catecumeno a ciò che è stato, ad entrare dentro la vita del Signore e appassionarsi sempre di più a Lui. Il Vangelo di Marco è un Vangelo che vuole appassionare a Gesù, che vuole rendere innamorati di Gesù, che vuole legare a Gesù con un legame di amore. Questo è quello che Marco vuole trasmettere ai catecumeni, a chi si avvicina per la prima volta alla fede. Ecco il punto di arrivo del catecumeno, che condotto per mano da Marco ha guardato la vita del Signore, ha ascoltato la sua Parola, ne ha considerato il contenuto, ha contemplato i gesti e arriva a dire come il centurione “questo davvero è il Figlio di Dio, Colui dal quale sono salvato, in cui trovo la vita, in Lui il cuore trova la pace e trova l’appagamento che sempre ha cercato!”. E’ questo il cammino che Marco fa fare al catecumeno e anche a noi, perché anche noi, in verità, abbiamo bisogno di ritornare a questa centralità di Gesù. Qualcuno ha detto che oggi la vita dei cristiani è riempita da tante cose, ma svuotata della presenza di Cristo e dell’adesione a Cristo. E’ un po’ dura l’espressione, ma a volte è vera! Anche perché noi cristiani ci lasciamo prendere da tante cose, pensiamo a cose pur buone e belle – la pace, i valori, la questione ecologica – ma … dov’è Gesù? Non rischiamo di svuotare il cuore di Gesù, altrimenti che cosa siamo? Dei volontari di un’associazione, come ce ne sono tante … ma noi siamo ben altra cosa! Ecco allora perché è importante che noi entriamo nel Vangelo di Marco lasciandoci portare per mano a recuperare la centralità della presenza del Signore, ripartendo poi sempre con Lui mano nella mano, cuore nel cuore, occhi negli occhi, dando la vita a 360° a partire da lì, con la forza rinnovatrice di questa Presenza che fa cambiare tutto, anche i modi con cui gestiamo ogni realtà. In altre parole attraverso Marco noi arriviamo al termine dell’itinerario che ci fa percorrere, dicendo insieme a S. Paolo davvero per me vivere è Cristo!
Vediamo ancora alcuni brani di questo breve ma splendido Vangelo. Quello che Marco fa fare è un cammino progressivo: egli parla al catecumeno, lo prende per mano perché vuole che progressivamente compia il cammino dell’ingresso nella realtà della fede e nella crescita dell’appartenenza della fede. Questo itinerario progressivo aiuta il catecumeno a capire che la vita di fede è una vita in progresso, cioè una vita in crescita, un cammino in una conoscenza sempre più profonda del Signore, in un’appartenenza d’amore sempre più radicale. Quindi è un itinerario che aiuta fin dall’inizio il catecumeno a capire che tutta la sua vita sarà in realtà un itinerario progressivo, un’ascesa, un andare verso la misura alta della vita cristiana senza fermarsi mai. E Marco lo ricorda anche a noi, che oggi diventiamo catecumeni con i catecumeni! Tante volte procediamo stancamente e diciamo “quello che dovevo fare l’ho fatto” oppure “tanto di più non ce la faccio, non è per me”, invece Marco ci dice “no! il tuo essere concentrato su Gesù ti porta ad andare sempre fuori da te e a pensare che il cammino è sempre in progresso, che hai sempre da raggiungere qualcosa di nuovo e di più, che la santità è il senso della tua vita, dunque il camminare verso, non lo stare fermo, ma andare verso …”. Questa conquista del volto di Gesù mette in movimento. Certo, se siamo davvero conquistati della bellezza del Signore, del suo amore per Lui il cuore si muove. Se il cuore non si muove, è perché si è annebbiata la bellezza del Signore e la conoscenza di Lui.
Un altro aspetto dell’itinerario che Marco propone al catecumeno è che si presenta come un itinerario impegnativo. Marco nel Vangelo non fa sconti, quindi presenta in tutta la sua radicalità ciò che comporta mettersi alla sequela di Gesù, decidersi a seguirLo. Da questo punto di vista chi diventa il punto di riferimento per il catecumeno? Quell’apostolo al quale ogni catecumeno è chiamato a identificarsi: Pietro, che vive tutta la fatica di stare dietro a Gesù, ne è affascinato, ne è conquistato, vuole addirittura dare la vita – dice “dovunque tu andrai, io andrò” – però poi vive tutta la fatica di una sequela che chiede una vera conversione della vita. Diciamo che la fede è il compimento delle attese del cuore, che nel Signore trova veramente pace il cuore inquieto, che in Lui le attese dell’anima trovano la risposta … è vero, ma questo accade soltanto per un cuore che si è convertito, per un cuore che è cambiato, perché non c’è una naturale pienezza del cuore in Gesù, perché Gesù è quello che va sulla croce. Pietro ha sperimentato questo, ma ad un certo punto non ha capito più nulla, ha dovuto convertirsi, ha dovuto cambiare e lasciarsi trasformare per trovare in Gesù l’appagamento definitivo, vero, reale della sua umanità, di una umanità che si è convertita. C’è il peccato nella nostra vita e dunque Gesù appaga il cuore nel momento in cui questo cuore ha saputo lasciarsi cambiare, trasformare, convertire. Marco lo ricorda: Gesù affascina, è vero; ma viene anche il momento nel quale questo Gesù chiede un cambiamento radicale, un lasciarsi portare dove tu non vuoi e dove tu non pensavi. Pietro era affascinato da Gesù e Lo amava con tutta la ricchezza della sua umanità e tutta la piccolezza della sua umanità: Lo amava, ma è giunto il momento nel quale si è dovuto lasciare trasformare e cambiare, e solo allora Lo ha realmente ritrovato in tutta la Sua bellezza e capacità di riempirgli la vita, di appagare le attese del cuore … solo allora Lo ha trovato nella realtà e nella verità! Questo non dobbiamo dimenticarlo e Marco ce lo ricorda: non c’è itinerario della sequela di Gesù senza conversione, senza rinnegamento, senza una morte, perché il cuore lì muore.
Quello di Marco è un itinerario che definiremmo pasquale, perché è molto probabile che il Vangelo di Marco fosse il Vangelo che veniva letto interamente la notte di Pasqua, nella veglia tra il sabato e la domenica. I catecumeni in quella circostanza ricevevano il Battesimo, il Sacramento dell’iniziazione: dovevano ascoltare integralmente il Vangelo di Marco quasi a ripercorrere l’itinerario catecumenale accedendo al banchetto eucaristico e in quella circostanza operare la loro decisione fondamentale, dire il loro sì avendo ascoltato il Vangelo di Marco. Perciò il Vangelo di Marco è il Vangelo della decisione, cioè del sì definitivo detto a Cristo Signore. Il catecumeno che ascoltava il Vangelo a seguito di questa Parola che faceva sua si decideva definitivamente: anche noi ascoltiamo il Vangelo di Marco desiderando prendere in mano la nostra vita per decidere con maggior definitività per il Signore. Vogliamo dire il nostro sì in modo rinnovato, vogliamo dire il nostro sì davvero, vogliamo dire il nostro sì dal profondo del cuore, vogliamo dire il nostro sì adesso, non domani, ora, perché oggi veniamo interpellati da questa Parola e da questo Signore che incrocia la nostra vita! Il Vangelo di Marco vive questa duplice tensione: far tornare indietro il catecumeno perché si incontri con tutto ciò che Gesù ha vissuto. Questo è ciò che vogliamo fare anche noi.
Il Battesimo nel Giordano (Marco 1, 9-11)
È un episodio della vita del Signore che Marco tratteggia molto brevemente, dicendo in poche parole quello che il Signore ha vissuto. Noi come i catecumeni vogliamo vivere la gioia di considerare i passi che nella sua vita terrena il Signore ha fatto, vogliamo tornare a rallegrarci della vita del Signore, perché quale vita deve maggiormente interessarci, quale vita deve maggiormente appassionarci se non quella di Gesù? Sono state scritte numerosissime vite di Gesù nei secoli: non dico che dovremmo leggerle tutte, ma la vita di Gesù dovrebbe essere la nostra lettura preferita, innanzitutto attraverso la Sua Parola, ma anche tramite queste letture. Che cosa ci può interessare più di questo? Dobbiamo avere il Vangelo quotidianamente sotto gli occhi – come quei Santi che portavano il Vangelo sul cuore – perché è la cosa più importante: che cosa abbiamo di più prezioso della vita di Gesù?!? Ecco perché c’è una compenetrazione nella nostra spiritualità tra Parola ed Eucarestia, perché la Parola è la memoria viva dell’oggi di quello che Gesù ha vissuto nella sua vita, ma l’Eucarestia è la Presenza adesso di tutta la Sua vita terrena, perché quando ci mettiamo davanti a Gesù Eucarestia ci incontriamo con il Risorto che porta in sé tutto il bagaglio della sua vita terrena, quindi noi dobbiamo contemplare i misteri della sua vita terrena, perché lì c’è tutto il Risorto, perché lì c’è tutto, quella Parola che contemplo è presente in tutta la sua realtà! Ecco perché Parola ed Eucarestia sono il tutto della nostra vita, il centro, il cuore, perché lì c’è Gesù, il tutto della nostra esistenza, a cui possiamo appassionarci ogni volta!!
Come Marco presenta il Battesimo di Gesù? Sono pochi versetti, nei quali ci è dato di guardare alla vita di Gesù in un momento particolare: Gesù viene da Nazareth di Galilea, da un mondo pagano, da un mondo disprezzato nell’ambito del giudaismo; il fatto che Gesù venga da lì, che cosa dice al catecumeno che ascolta per la prima volta questa Parola? Suggerisce queste domande: da dove vengo io? da dove viene la mia vita? Gesù viene da Nazareth, quindi per ogni uomo c’è possibilità di salvezza: Gesù ha voluto condividere la radicale povertà della nostra umanità perché qualunque sia la nostra provenienza è sempre una provenienza povera e non soltanto per quanto riguarda l’inizio, ma per quanto riguarda ogni inizio ad esempio di giornata, di preghiera … Avvertiamo in questa Parola che ci parla di Gesù un grande conforto, una grande consolazione perché in questa provenienza povera il Signore si è calato per essere con me qui, in questa appartenenza povera, queste radici povere, in questo procedere sempre povero che mi caratterizza e da cui vengo.
Marco sembra rincarare la dose, perché questo Gesù che viene da Nazareth di Galilea fu battezzato nelle acque del Giordano: Colui che non ha peccato entra dentro la realtà del peccato dell’uomo, entra nelle acque del Giordano per purificarle. Quelle acque che sono state toccate dall’impurità, dal peccato, dall’immondizia del cuore umano sono le acque che accolgono Gesù, quelle acque del Giordano dove Lui entra siamo noi, il Giordano siamo noi, siamo noi l’acqua impura dentro la quale Lui viene per purificare, per salvare, noi siamo questa acqua immonda di cui Gesù non ha timore, dove Gesù entra perché la vuole recuperare, la vuole salvare! Ecco che cosa ascolta il catecumeno: che Gesù entra dentro l’impurità della mia povera vita per riscattarla!
“Vide squarciarsi i cieli uscendo dall’acqua”: quel Gesù che entra nell’acqua ne esce, non viene fagocitato dall’acqua sporca, ne esce. Il catecumeno sente uscire dall’acqua il proprio peccato e la propria povertà. Inoltre Gesù vede i cieli squarciati e il catecumeno con Lui vede finalmente i cieli, si riapre il cielo di Dio che fino ad allora era chiuso per me, catecumeno, che il cielo non lo vedevo più … adesso finalmente mi si riapre l’orizzonte della volta celeste e mi è data la possibilità della storia con Dio, dell’amicizia con Dio! Ecco quello che ascolta il catecumeno, quello che sperimenta, quello che vive. E poi lo Spirito, che scende come una colomba, che prende possesso, dunque il catecumeno insieme a Gesù non soltanto vede i cieli, ma vede questi cieli che scendono sulla terra, su quella sua povera vita. Allora quella terra dimenticata di Nazareth, quella terra macchiata da tante lordure, quella terra non è stata soltanto abitata da Gesù, non soltanto è stata purificata da Gesù, ma adesso in Gesù Dio prende dimora pienamente e la rende bella della bellezza dei cieli, che si sono aperti finalmente sopra di Lui e davanti a Lui. E poi la voce … non soltanto il cielo si apre, ma c’è anche una voce che risuona e il catecumeno ascolta questa voce, la Parola di Dio di nuovo prende forma nella sua vita ed è una Parola particolare perché la dice l’Amato. Ecco, il catecumeno così scopre: di sentirsi davvero amato, perché la prima parola che ascolta da Marco e da Dio è la parola amore, non ce n’è un’altra. Allora capiamo perché fin dall’inizio il Vangelo di Marco è un annuncio bello, perché il catecumeno che comincia a sfogliare il Vangelo si sente dire queste parole e vive questa esperienza: guarda Gesù e dice “questa vita è meravigliosa!”, guarda Gesù e dice “questo annuncio ha in sé una gioia straordinaria!”, guarda Gesù e dice “io sono chiamato a questo, io posso vivere questo!”. Ecco la bellezza della vita di Gesù e il fascino della vita di Gesù, che Marco comunica attraverso questa pagina evangelica.
Gesù viene tentato nel deserto (Marco 1, 12 – 15)
Questo testo, a differenza degli altri Vangeli, si presenta molto breve: Marco in due versetti esaurisce ciò che Gesù vive nel deserto, perché a Marco non sta a cuore il dettaglio della tentazione (come sta a cuore invece a Matteo e a Luca), ma sta a cuore entrare dentro la realtà che accomuna ogni tentazione e con la quale Gesù si confronta vincendola, perché per lui è importante capire la radice di ogni tentazione e anche capire immediatamente, senza perdersi in altri dettagli, che questa radice che il catecumeno sente come profondamente inscritta nella propria vita è vinta e dunque può essere vinta perché Gesù l’ha vinta. Anche qui allora diventa buona notizia, annuncio gioioso: tu, catecumeno, capisci che nel tuo cuore c’è una battaglia; però attraverso questa Parola ti rallegri perché sai che questa battaglia ormai è vinta dalla vittoria di Gesù se tu Lo abbracci e stai strettamente unito a Lui! Gesù combatte contro satana; la tentazione viene da lì, da questo nemico, e così il catecumeno è aiutato a capire che dietro ogni peccato, dietro ogni ribellione a Dio, ogni tentazione che lo porta lontano dal Signore sta questo avversario, questo divisore tra uomo e Dio, c’è una radice personale cattiva in quella divisione del cuore che vuole allontanare l’uomo da Dio. Il catecumeno scopre questa realtà, ma qual è questa tentazione radicale che il catecumeno deve imparare a conoscere e a scoprire dentro di sé? C’è un’alternativa (ci sembra di risentire S. Agostino): o l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio – questo è il peccato e la tentazione quando prende forma nel cuore – o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé. Questa è la vittoria sul peccato! Satana Lo avvicina e Lo accosta perché vuole che Gesù non viva la volontà di Dio fino a dimenticarsi, fino a dare la Sua vita per i fratelli; vuole che Gesù viva l’amore di sé fino a dimenticarsi del progetto di Dio e del disegno di salvezza che Dio ha pensato da sempre per l’uomo attraverso di Lui. Ecco il dramma della tentazione, ecco l’esperienza del deserto, ecco la divisione interiore che Gesù sperimenta: essere diviso tra una vita che desidera essere di Dio dimenticandosi di se stessa e una vita che lascia da parte Dio …
Anche qui attraverso questa pagina di Vangelo Gesù si presenta come colui che porta la bella notizia al catecumeno, che fino ad allora non aveva sentito parlare di una vittoria definitiva, ultima, su questo male, su questo peccato sperimentava nella propria vita.
Per noi oggi questi due brani sono sufficienti per iniziare questa giornata alla luce di questa Parola che ci porta a fissare lo sguardo di gratitudine, di amore, di stupore, di rinnovato entusiasmo sul volto di Gesù. Con Marco attraverso questi testi noi vogliamo ri-appassionarci a Gesù, con l’aiuto di Marco vogliamo dire oggi al Signore “Tu sei tutto per me!” e come il centurione “Tu sei il Figlio di Dio, e non c’è altro al mondo per cui io voglia vivere, per cui io voglia dare la vita!”. Lo diciamo con S. Ambrogio, che quando parlava con la sua gente diceva “Cristo, Tu sei tutto per la nostra vita!” e chiediamo di poter dire e ridire questo anche noi oggi e sempre!
Savona, 22 luglio 2019
SECONDA MEDITAZIONE
C’era un ragazzino che un giorno parlava col nonno e gli diceva di un’esperienza che stava avendo via via che cresceva, ovvero avvertiva dentro di sé come una doppia presenza di sentimenti buoni, di pensieri buoni, di propositi buoni e dall’altra parte invece la presenza di sentimenti cattivi, pensieri non belli, propositi non buoni, e si domandava che cosa fosse questa realtà che cominciava ad avvertire dentro di sé, dentro il proprio cuore. Allora il nonno, cercando di fargli capire, gli presentò quella realtà così e disse: “Vedi, dentro di te è come se ci fossero due lupi: un lupo rappresenta un po’ tutta questa realtà cattiva che avverti e che cerca in ogni modo di allontanarti dal Signore, invece l’altro lupo rappresenta tutta la realtà più buona, quella che ti tiene legato e in sintonia con il Signore; dentro di te questi due lupi lottano tra di loro …”. A questo punto però il bambino incuriosito domandò al nonno: “Ma alla fine in questa lotta chi vince tra i due lupi?”. Il nonno gli rispose così: “Vince quello a cui tu dai maggiormente da mangiare”. Questa saggezza dell’anziano trasmessa al bambino, al nipotino, è una saggezza che vogliamo raccogliere in questi giorni, perché è proprio così quella battaglia, di cui anche parlavamo questa mattina ricordando le tentazioni di Gesù nel deserto: la vinciamo nella misura in cui ci lasciamo costantemente nutrire dal Signore e cerchiamo in Lui il nostro nutrimento e la nostra forza. Nella vita, lo sappiamo, volenti o no, abbiamo anche tanti altri generi di nutrimento che entrano in noi, perché il mondo nel quale siamo inseriti comunque ci nutre, direttamente o indirettamente … abbiamo bisogno di essere nutriti molto e molto di più da Dio, ecco perché rimane sempre così decisiva la priorità che diamo al Signore e all’ascolto della sua Parola: il nutrimento di cui ci stiamo servendo oggi è un nutrimento importante, perché con l’aiuto dell’Evangelista Marco andiamo là dove troviamo nuovamente la bellezza del Signore! Abbiamo continuamente bisogno di nutrirci di questa bellezza, proprio perché non tramonti nella nostra vita non tanto la bellezza di Gesù – perché quella non tramonta mai – ma la nostra percezione di questa bellezza, il nostro incontro con la bellezza: abbiamo bisogno di questo nutrimento quotidiano perché rimanga vivo il nostro interesse per il Signore, rimanga vivo il nostro desiderio di Lui, rimanga viva questa passione dell’anima che nutriamo per Lui!
Chi dice la gente che io sia? (Marco 8, 27)
Questa mattina abbiamo considerato, nell’itinerario che Marco fa fare al catecumeno, quello relativo alla vita del Signore; in particolare ci siamo soffermati su due episodi, che segnano l’inizio del cammino terreno pubblico di Gesù: il Battesimo e le tentazioni. Quest’oggi facciamo un passo avanti, ovvero andiamo a prendere in considerazione, potremmo dire, la seconda parte di questo itinerario che Marco fa fare al catecumeno: ha condotto per mano il catecumeno a conoscere la vita del Signore, a vederla, ad amarla, ad ammirarla, ad apprezzarla, e ora c’è un punto di svolta. Siamo al capitolo 8 e Marco introduce qualcosa che segna uno spartiacque nella vita di Gesù, perché ci troviamo davanti al primo annuncio della passione, che segue immediatamente il dialogo tra Gesù e gli Apostoli – e in particolare tra Gesù e Pietro – in merito alla sua identità: è come se l’Evangelista portasse il catecumeno dentro quel dialogo e gli dicesse “ora che hai guardato Gesù, che ne hai considerato la vita, che ne hai visto i gesti, ne hai ascoltato la parola, hai subito il fascino di Colui che è Figlio di Dio, adesso entra dentro questo dialogo con Lui, perché a questo punto Gesù ti interroga e ti pone la domanda!”. Ecco che cosa deve vivere il catecumeno in questo momento del suo cammino: si trova davanti a Gesù che gli pone la domanda e poi si pone davanti a Gesù identificandosi e dovendosi identificare con l’apostolo Pietro. Gesù pone la domanda relativa a quello che la gente sta dicendo di Lui, quindi ci immaginiamo il catecumeno che è chiamato ad interrogarsi: “Fuori che cosa dice la gente di me? Voi mi avete conosciuto, avete cominciato a conoscermi … e la gente cosa dice?”. E il catecumeno riporta quello che la gente ha da dire su di Lui … A questo punto possiamo dire che Gesù compie un passaggio decisivo, perché ora vuol sapere dal catecumeno che cosa egli intenda riguardo alla sua identità. Il catecumeno probabilmente pensa di saperlo, perché ha già fatto un tratto di cammino piuttosto lungo, ha visto, ha sentito e quindi l’identità di Gesù gli pare abbastanza definita, chiara, però arriva questa domanda: “Ma tu cosa dici, chi dici che io sia?”.
Ciò che anzitutto da questa domanda vogliamo trarre è che la storia di Gesù non può essere semplicemente la storia e la vicenda di chi osserva dall’esterno, di chi guarda qualcuno, di chi semplicemente si fa spettatore di una vita: Gesù con questa domanda provoca ad entrare dentro, provoca a compromettersi, provoca a coinvolgersi; a questo punto
Valloria
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INTRODUZIONE AGLI ESERCIZI SPIRITUALI
In una delle liturgie orientali quando il diacono, come è abitudine in quella liturgia, introduce la proclamazione del Vangelo in un modo un po’ differente da quello che capita nelle nostre liturgie (in quella latina), egli si rivolge all’assemblea e dice: “Fate silenzio, parla Dio.”
Mi pare che all’inizio degli Esercizi dobbiamo ricordarci ancora una volta il significato bello che ha il silenzio che cercheremo di vivere in questi giorni. Ci ritorniamo perché il clima del silenzio non è qualcosa che viene a pesare sulle nostre spalle, ma è un dono straordinariamente bello che vogliamo accogliere dal Signore perché é nella misura in cui viviamo con profondità il silenzio che la Parola di Dio può risuonare dentro di noi, é soltanto se mancano le parole umane che la Parola di Dio entra nella nostra vita, nel nostro cuore. Senza dimenticare che noi ci mettiamo in ascolto di Dio che parla, perché attraverso questa Parola noi vogliamo entrare nel cuore di Dio. Allora il silenzio è la via al cuore di Dio, ecco perché è bello fare silenzio! Ed ecco perché dobbiamo amare il silenzio di questi giorni, perché è come se noi avessimo un cartello indicatore che ci dice: “Silenzio, la via al cuore di Dio”. Da adesso iniziamo a vivere il silenzio di questi giorni consapevoli di questo grande dono e desiderosi di non sprecarlo, perché noi abbiamo 360 giorni nei quali parlare, poi ce ne sono 5 all’anno in cui possiamo finalmente non parlare, dico “finalmente” perché rimane uno spazio aperto interamente alla Parola ed alla Voce del Signore per noi.
Mi piace sempre iniziare i giorni di Esercizi ricordando anche come siano giorni di una rinnovata esperienza di amore. Noi dovremmo considerarli come una nuova luna di miele che noi possiamo vivere con Colui che è il tutto e lo Sposo della nostra vita. Sono anzitutto questo gli Esercizi, perché sono davvero uno spazio aperto di un amore che si rinnova, di Dio e di me che ci ritroviamo ancora una volta a tu per tu per ritrovare, forse, la bellezza di un amore che certo non è perduto, ma che ha bisogno di essere riscaldato, riapprofondito, rigustato.
La Madre Mectilde de Bar, che anche a voi è cara perché vi è un legame tra di voi e le monache benedettine dell’Adorazione di Ghiffa, in un suo scritto si rivolge così alle sue figlie: “Ho gran desiderio di parlarvi di Gesù, di farvi conoscere Gesù e di vedervi tutte ripiene di amore e di stima per Gesù. Siamo tutte sue, non viviamo che per Lui, non respiriamo che Lui, non pensiamo che a Lui, non desideriamo che Lui. Vi confesso che provo un piacere singolare a parlarvi di Gesù, il sacro nome di Gesù è così soave e dolce che è una delizia pronunciarlo. ‘O Gesù, Gesù Cristo, siate in noi e riempiteci tutte di voi stesso’.”
Qui mi pare possiamo trovare la sintesi e il cuore di questi giorni: noi vogliamo parlare di Gesù! Mi pare di poter dire che in queste parole della Madre Mectilde è espresso il mio desiderio, che è quello di parlarvi di Gesù, e certamente vi è anche il vostro desiderio, che è quello di sentirvi parlare di Gesù. In queste parole della Madre Mectilde riascoltiamo come eco di quello che ci racconta Tommaso da Celano a proposito di San Francesco, quando racconta che Francesco, pronunciando il nome di Gesù, si leccava poi le labbra per assaporare la dolcezza di questo nome che gli riempiva il cuore. Ecco, sono giorni nei quali noi dobbiamo ritrovare il gusto nel nome di Gesù, ma soprattutto ritrovare il gusto di Lui nella nostra vita, ritrovando la gioia del tutto che è Lui e che deve essere Lui nella nostra vita.
Ci introduciamo con alcune parole. Sono 7 PAROLE e non a caso prendo 7 parole, perché, come sapete, il 7 è il numero che ci riporta ai giorni della Creazione, quei 7 giorni nei quali Dio ha creato dal nulla, ha fatto un’opera bella, “vide che era buono, anzi, che era molto buono”. Ecco, queste 7 parole diventano per noi il simbolo di una creazione nuova che può e deve realizzarsi nella nostra vita, qualcosa di nuovo, qualcosa che il Signore vuole operare, un’opera bella che Dio intende realizzare con noi e per noi. Passiamo in rassegna queste 7 parole e pensiamo che possano essere 7 parole simbolo dei 7 giorni attraverso i quali il Signore opera una nuova creazione in noi. Sono parole che suggerisco facciano un po’ da sfondo e sottofondo a queste giornate:
- SPOSO: noi sappiamo che Gesù usa tante volte nel Vangelo questa parola per identificare se stesso, per dire a noi chi è e chi vuole essere per noi e con noi. Vuole essere lo Sposo che ama di un amore che non ammette altri amori ed altri pretendenti, Gesù è lo Sposo che da noi vuole tutto perché vuole darci tutto, che chiede a noi la vita, che chiede a noi il cuore,che chiede a noi quello che siamo, che chiede a noi quello che abbiamo, non perché vuole toglierci qualcosa, ma perché vuole darci tutto ed il tutto che è Lui. Questa totalità, che la dimensione sponsale ci richiama, ci porta a considerare da subito un elemento importante della nostra vita: noi siamo come un grande continente fatto di tante terre, molte di queste terre sono state raggiunte da Gesù, ma alcune di queste terre o sono state raggiunte parzialmente, o sono ancora rimaste chiuse alla sua presenza, al suo amore, alla sua opera. Possiamo dire che noi abbiamo come delle regioni autonome che pretendono di fare a meno del Signore, perché non vogliono aprirsi,perché hanno paura ad aprirsi, perché temono che aprendosi possano perdere qualche cosa di questa loro autonomia. Siamo un continente che ancora deve essere evangelizzato del tutto ed in profondità. Ricordiamo, Gesù è lo Sposo, Colui che è il tutto della mia vita, a cui sono chiamato a dare tutto per ricevere il tutto che è Lui. Che cosa ancora mi manca? Che cosa ancora non gli ho dato? Quali spazi della vita ancora non gli ho aperto e spalancato?
- PRINCIPIO E FINE: queste parole vengono a noi dal libro dell’Apocalisse. E’ ancora una parola che viene detta in relazione al Signore, Lui è il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega, ci parla cioè del tempo, perché Gesù è il senso del nostro tempo. Una domanda sorge allora immediata: Il nostro tempo come lo stiamo usando, come lo abbiamo usato?Se Lui è il senso del tempo, ogni istante di tempo che noi non usiamo con Lui e per Lui, è un istante senza senso. E’ proprio sull’istante che vogliamo per un momento fermarci, perché questi Esercizi sono l’istante che dobbiamo vivere fino in fondo, che non dobbiamo sprecare, che non dobbiamo sciupare. Qualcuno ha detto che il cammino di Dio è un cammino sul mare, perché è un cammino che si perde per quanto riguarda ciò che è stato – non ci sono le orme – e non si sa quello che sarà il domani – anche lì non ci sono le orme… C’è il cammino presente sul mare, e noi dobbiamo vivere fino in fondo il momento presente e l’istante presente, ora sono questi Esercizi nei quali dobbiamo mettere tutto: mente, cuore, volontà, affetti,desideri … tutto! Potremmo avere la tentazione o di rimanere sul cammino percorso o di andare avanti sul percorso che non abbiamo ancora fatto o di lasciarci distrarre dal presente nella nostra vita, ma che non è questo che ora stiamo vivendo. Qui dobbiamo vivere questo, perché il Signore ci dà l’appuntamento qui, è qui che siamo chiamati a stare, a stare con tutto noi stessi nel raccoglimento di tutto quello che siamo perché il Signore è qui, non è nel passato, non è nel futuro, non è al di fuori di qui, è qui!
- AMORE: una parola tanto cara a Giovanni, che nel Vangelo e nelle Lettere la ripete senza stancarsi. Dio non lo si capisce mai e non lo si capisce mai abbastanza perché Dio è amore e dunque è un infinito che sta davanti a noi. Per questo Agostino diceva a proposito del nostro rapporto con Dio che noi siamo chiamati a cercare per trovare e nel momento in cui abbiamo trovato si riapre tutto il cammino di una ricerca ulteriore, perché è come se sprofondassimo sempre di più, sempre di più in questo abisso che è l’amore di Dio. Questo cosa vuol dire? Che dobbiamo tenere acceso il desiderio, non possiamo fermarci mai. Nella misura in cui Dio è davanti a noi come un Dio di amore, il nostro desiderio non è mai spento. Come ci ritroviamo in questi giorni? Come è il nostro desiderio di Dio? Lo vogliamo conoscere ancora, Lo vogliamo amare di più? Siamo forse qui stanchi di Dio, quasi come se questo suo Volto non avesse più nulla da dirci, nulla da sorprenderci? Riattiviamo il desiderio stando davanti all’Amore infinito!
- VATTENE: troviamo questa parola nel Libro della Genesi, una parola forte che Dio dice ad Abramo: “Vattene!”. Abramo quando ascolta questa parola è un uomo anziano che avrebbe potuto pensare dentro di sé: “Ma che cosa vuoi da me, ormai al termine della vita? Ma perché pretendi tanto da me, che io lasci la mia terra, le mie sicurezze, le mie abitudini? Ma perché, dove vuoi che io vada?” Ma Dio non ammette repliche: “Vattene!” ed Abramo va. Noi siamo spesso imprigionati nella terra delle nostre abitudini, nella terra delle nostre piccole, grandi sicurezze, in quella terra nella quale stiamo tanto bene, ma che ci impedisce di prendere il largo per andare nella terra vera di Dio. Abbiamo bisogno in questi giorni di sentirci dire: “Vattene, vattene! Vattene dalle tue abitudini, vattene dalle tue solite cose, vattene da queste sicurezze che ormai ti sei fatto, vattene anche dall’immagine che forse ti sei costruito di me, vattene da questo modo di vivere il Vangelo che non è più fresco e non ha più la gioia della verità, vattene!”
- DESERTO: è una parola che riempie di sé tutta la storia della salvezza. Quando Giacobbe si inoltrò nel deserto per seguire la Parola che Dio gli indicava, sperimentò due realtà: la solitudine e la lotta. Il deserto è solitudine e lotta! Questi giorni sono giorni di solitudine e lotta. Dobbiamo rimanere soli, dobbiamo entrare dentro questo spazio che tanto ci spaventa, di ritrovarci da soli con le nostre paure, con i nostri fantasmi, con le nostre oscurità, con il nostro peccato, con la verità di quello che siamo: soli davanti a Dio, senza alibi e senza gli altri che in un modo o nell’altro ci proteggono con la loro presenza, soli …. In questi giorni dobbiamo lottare perché siamo qui anche per lottare contro noi stessi, lottare contro il male che è in noi, lottare con i compromessi che ormai sono una cosa sola con la nostra vita, lottare con le convivenze più o meno chiare nelle quali ci troviamo e che riguardano il peccato, la mediocrità, le mezze misure. Lottare per sradicare, lottare per vincere. Solitudine e lotta, non in sé … così … ma per amore. Noi vogliamo stare soli perché vogliamo rispecchiarci nella bellezza dell’Amore di Dio. Noi vogliamo lottare perché vogliamo che la bellezza dell’Amore di Dio prevalga e vinca nella nostra vita. E’ solo così che gli Esercizi lasciano un segno. Giacobbe che sperimentò la solitudine e visse la lotta ne rimase marchiato per tutta la vita diventando zoppo, fu quello per lui il segno della solitudine con Dio e della lotta con Dio. Noi non possiamo andare fuori dagli Esercizi senza essere stati marchiati da Dio attraverso la solitudine e la lotta, noi dobbiamo portare nella carne e nel cuore un segno che Dio l’abbiamo incontrato davvero, che Dio è passato, che Dio ci ha cambiato, altrimenti che cosa facciamo in questi giorni?
- MONDO: una parola frequente nel Vangelo, cara a Giovanni che spesso la usa in chiave negativa perché per Giovanni il mondo è l’insieme di quegli elementi che costituiscono la contraddizione a Dio e al Suo disegno di salvezza e di amore. Che cosa di questo mondo – che non è semplicemente una realtà fuori di noi, ma è una realtà che abita dentro di noi – è presente e vivo? Dove si annida questo mondo, che è la contraddizione a Dio, nella nostra vita? Dove è nascosto questo mondo, quel mondo che tante volte, giustamente, noi guardiamo e condanniamo in ciò che di male ha in sé, ma questo mondo che tante volte noi scopriamo e condanniamo fuori di noi ed anche dentro di noi? Dobbiamo scoprirlo!
- SENTINELLA:è una parola che usa Isaia. Riguardo alle sentinelle dice il profeta: “Non prendetevi mai riposo e neppure a Lui date riposo”. Come è bello! Non prendete mai riposo, perché la sentinella non vuole riposare mai, non può riposare mai perché il suo compito è guardare l’orizzonte e noi in questi giorni guardiamo l’orizzonte pronti ad ogni cenno che ci parla della venuta di Dio a noi, pronti a cogliere ogni passaggio di Dio nella nostra giornata, nella nostra preghiera, nel nostro essere soli, nel nostro meditare … Pronti come sentinelle, però anche come sentinelle che non danno riposo a Lui, perché con tutta la volontà di cui siamo capaci noi vogliamo incontrarlo, vogliamo ridargli la vita, vogliamo seguirlo, non vogliamo lasciarcelo scappare. Abbiamo ricordato altre volte la risposta che San Tommaso diede ad una delle sue sorelle che ad un certo punto del cammino gli chiese: Tommaso, per favore, tu che hai studiato tanto e che conosci il mistero di Dio, indicami, dammi un consiglio in ordine alla santità”. Tommaso non ebbe altra risposta se non quella della Parola evangelica e disse alla sorella: “… se vuoi”. Noi vogliamo … e come le sentinelle non possiamo dare riposo a Dio fino a tanto che non ci fa questa grazia, la grazia della santità, la grazia di essere totalmente suoi.
Sette parole che vogliamo portare con noi come nostro zaino di viaggio, perché rimangano nel cuore, perché siano un po’ il clima di queste nostre giornate, perché ci aiutino ad entrare dentro questo spazio di grazia che sono gli Esercizi. E’ passato un anno dagli ultimi Esercizi, per molte un anno preciso, per qualcuna forse no … che cosa è stato di noi dagli ultimi Esercizi dell’anno passato, che cosa è cambiato da allora? Quale è stato il cammino che abbiamo percorso? Come ci ritroviamo?
Un giorno un predicatore rivolse ai giovani che iniziavano degli Esercizi annuali una domanda: “Qual è per voi il significato di queste giornate?” Vi furono molte risposte, ma una colpì profondamente il predicatore, perché un giovane gli disse con un’ironia in verità triste: “per me gli Esercizi sono l’annuale e inutile tentativo di convertirmi”. Può darsi che dobbiamo dirlo anche noi e che soprattutto veniamo qui a vivere queste giornate già perdenti, dicendo così: “l’annuale inutile tentativo che ho già fatto tante volte nella vita”. No, questo non dobbiamo dirlo e non dobbiamo pensarlo! Noi entriamo in questo spazio di grazia che sono gli Esercizi volendo con tutta l’anima e con tutto il cuore, cambiare vita, fiduciosi che è possibile cambiare vita, perché “a Dio nulla è impossibile” nella misura in cui ci poniamo nelle sue mani e con lo slancio del cuore gli ridiciamo: “Io voglio essere tuo, voglio essere santo, voglio cambiare la mia vita nella logica del tuo amore.”
L’ANELLO: alcuni studi di antropologia hanno messo in luce una dimensione molto bella e significativa a proposito dell’uso dell’anello quale simbolo di una storia di amore e, in specie, del vincolo matrimoniale. Dice l’antropologia che nelle società antiche, soprattutto quelle di carattere agricolo, avveniva che quando l’uomo aveva individuato la donna che sceglieva come la donna della sua vita, faceva con il dito un cerchio per terra e poi invitava la donna ad entrare dentro il cerchio e da quel momento in poi diveniva sua, sua proprietà. Da allora il cerchio, cioè l’anello, è diventato il simbolo di questa appartenenza di amore e questo anello indica l’appartenenza: sono dentro questo anello perché sono tuo, sono tua, ti appartengo.
Domandiamoci: il Signore per me il giorno del Battesimo, il giorno della Consacrazione ha tracciato un cerchio e dentro questo cerchio mi ha collocato dicendomi “Per grazia, tu sei mia” e noi gli abbiamo risposto perché, in fondo, anche noi abbiamo fatto un cerchio per terra, l’abbiamo fatto entrare e gli abbiamo detto “Sì, e adesso Tu sei mio!”. Certamente Gesù è dentro l’anello, ma noi siamo ancora dentro l’anello? Ci siamo totalmente oppure parzialmente? Siamo qui a questi Esercizi per verificare se siamo ancora dentro questo anello sponsale, e se dovessimo verificare che non ci siamo dentro, che siamo parzialmente fuori, che forse siamo anche fuori del tutto o che ci siamo ma non ci siamo come dovremmo esserci, non diciamo “sarà un tentativo inutile …”, no … vogliamo ricollocarci dentro, vogliamo ritrovare la bellezza di questa appartenenza, vogliamo ritrovare la gioia di essere proprietà di Gesù, di questo nome che gustiamo con le labbra e che portiamo con felicità nel cuore. Partiamo così, guardando l’anello, chiedendoci dove sono rispetto all’anello? voglio proprio con tutto il cuore tornarci dentro, starci dentro, ritrovare lì dentro Gesù, l’amore della mia vita!.
LITURGIA DELLE ORE – LODI MATTUTINE
Lettura breve: Gc 2, 12-13
Questa parola che ascoltiamo iniziando la nostra giornata ci ricorda un principio fondamentale non soltanto della nostra vita personale, ma anche del nostro vivere insieme: è il principio della misericordia. Qualcuno ha detto che non si può vivere insieme se non si parte da qui, ovvero dal perdonarci reciprocamente la miseria che siamo e la miseria che abbiamo. O noi guardiamo l’altro con questo sguardo, che è uno sguardo misericordioso a motivo della miseria che egli porta con sé, oppure non è possibile vivere insieme, amarsi davvero, crescere nella vita comune. Siamo tutti poveri, siamo tutti miseri, lo dobbiamo riconoscere e dunque partire da qui, da questo sguardo capace di misericordia e di perdono.
Un giorno un monaco giovane si recò da un monaco anziano, un saggio, perché gli stava capitando qualcosa a livello spirituale che non riusciva a capire. Arrivò dall’anziano monaco che l’accolse e gli chiese, vedendolo scuro in volto: “Che cosa ti succede?” Il giovane monaco gli aprì il cuore e gli disse: “E’ un po’ di tempo che il mio sguardo è diverso, è come se non riuscissi a vedere più il volto di Dio, però è anche come se non riuscissi più a vedere il volto dei miei fratelli e anche come se non riuscissi più a vedere il volto di quello che mi circonda, la creazione … tutto mi sembra oscurato: il volto di Dio, il volto degli altri, il volto di ciò che mi circonda …”. L’anziano non rispose immediatamente, ma gli disse: “Ho da raccontarti una cosa: c’era una ragazzina di nome Melòdia che ad un certo punto della sua vita cominciò a perdere la vista e dovette procurarsi degli occhiali, che giorno dopo giorno diventavano sempre più spessi perché vedeva sempre meno. Questa bambina si domandava come mai le capitasse questo. Aveva con sé un orsacchiotto che le teneva compagnia giorno e notte e nella sua semplicità di bambina si rivolse all’orsacchiotto e gli chiese il motivo per cui stava vivendo questa esperienza così dolorosa. L’orsacchiotto le rispose che doveva essere lei a dare la risposta a questa domanda pensando e riflettendo. La bambina cominciò a pensare e a ripensare, ma non le veniva in mente nulla … ad un certo punto si ricordò di un episodio accaduto alcuni giorni prima. Era andata dagli zii, aveva giocato con il cuginetto ed ad un certo punto c’era stato un piccolo litigio: lei, sbagliando, lo aveva colpito e lui, un po’ per ripicca, le aveva rotto un giocattolo che le stava tanto a cuore e lei in un momento di ira gli aveva detto che non avrebbe voluto rivederlo mai più. Si ricordò che da quel momento in poi la vista aveva cominciato a venire meno. Si rivolse al suo orsacchiotto, gli disse quello che si era ricordata e l’orsacchiotto le suggerì che lei avrebbe potuto recuperare la vista nella misura in cui avrebbe perdonato al suo cuginetto. E così fu”. Il monaco anziano rivolgendosi al monaco giovane gli disse: “Forse anche tu devi cercare nella tua vita un episodio, un qualcosa, un rancore, un risentimento che hai nei confronti dei fratelli o di qualche fratello e se troverai questo e sarai capace di perdonare e di avere misericordia la tua vista ritornerà, quella su Dio, quella sugli altri, quella sul mondo che ti circonda … e ricordati che dove non c’è misericordia e perdono non c’è neanche la capacità di vedere, dove non c’è misericordia e perdono noi perdiamo la possibilità di uno sguardo limpido su Dio, sugli altri e sul mondo intero.”
PRIMA MEDITAZIONE
Il cammino degli Esercizi Spirituali
Prima di introdurci nel brano della Scrittura che aiuterà la riflessione e la preghiera di questa mattina, ecco qualche pensiero un po’ in ordine sparso riprendendo anche in qualche modo quanto dicevamo ieri sera.
Certamente in questi giorni noi avremo in dono una seminagione abbondante di parole: ieri nella Messa abbiamo ascoltato il Vangelo del seminatore ed una caratteristica di questa parabola è quella di mettere in evidenza come il seminatore, che è Dio, non si lascia vincere in generosità nello spargere il seme, anche sciupandolo, perché lo getta sul terreno sassoso, sul terreno pieno di rovi, sul terreno incapace di prendere il seme, poi finalmente una piccola parte va anche sul terreno buono. Credo che il tempo degli Esercizi sia proprio il tempo nel quale sperimentare questa abbondanza di seminagione che il Signore opera nella nostra vita. Certo, non tutte le parole cadranno sul terreno buono, ma c’è anche da dire che non tutte le parole saranno e dovranno essere per noi, potrebbe bastarne una a cambiare la vita. Noi sappiamo come nell’esperienza dei Santi tante volte ci sia stata proprio una parola che ha segnato per sempre la vita. Allora noi mentre siamo negli Esercizi dobbiamo chiedere al Signore questa grazia, la grazia di una parola che ci dia vita nuova, poi può darsi che ve ne siano anche di più, però mi sembra che non dobbiamo preoccuparci di incamerare tutte le parole che ci vengono donate, certo, dobbiamo ascoltarle, custodirle nel cuore, ma poi lasciarci portare là dove il Signore vuole portarci attraverso quella parola che adesso, in questo momento della vita è proprio per noi, è proprio per me. Chiediamo allora la grazia di questa parola.
Andando avanti nel cammino degli Esercizi vogliamo ascoltare quello che il Signore Gesù Risorto dice nel Libro dell’Apocalisse: “Ecco, Io faccio nuove tutte le cose”. Dicevamo ieri sera che quelle 7 parole che erano per noi anche il simbolo di una creazione nuova: il Signore vuole farci nuovi, vuole creare qualche cosa di nuovo, allora è con questa fiducia che viviamo i giorni degli Esercizi, perché io non so quale sia in ciascuno di noi la volontà vera ed autentica di cambiare, ma certo, e questo è ancora più importante, c’è la volontà di Dio che vuole cambiarci e allora dobbiamo aggrapparci a questa volontà di amore che accompagna le nostre giornate, che desidera rendere nuova la nostra vita. E non dimentichiamoci dell’anello, perché cammin facendo, giorno dopo giorno, noi vogliamo stare dentro a quell’anello con tutto noi stessi, con il cuore, con l’anima, con la volontà, con l’intelligenza, con gli affetti, con i progetti. Il nostro cammino degli Esercizi vuole essere un ritornare dentro l’anello con tutta la nostra vita.
Questa mattina percorriamo un cammino forse un po’ faticoso, perché ci soffermiamo sulla realtà del peccato e del male, così come in diversi modi si rende presente in noi, si è reso presente in noi in questo tempo che ci sta alle spalle. Potremmo dire che noi oggi attraversiamo una galleria degli orrori e cioè la galleria dei nostri peccati o in altri termini potremmo dire che noi oggi scendiamo nei nostri inferi ed attraversare una galleria degli orrori e scendere nei nostri inferi certo non è mai cosa piacevole, perché significa incontrarsi con la nostra povertà e la nostra miseria. Questo è faticoso ed è pure necessario, perché come ci ricorda la Chiesa – che è madre e maestra nella Liturgia – noi non possiamo incontrarci con il Signore, ascoltare la sua Parola, godere della sua presenza se prima non confessiamo la nostra colpa. Noi iniziamo il percorso liturgico nella Messa proprio da lì, entrando nella galleria degli orrori, scendendo nei nostri inferi e domandando perdono, pietà dal profondo del cuore, perché è soltanto compiendo questo gesto di verità che possiamo ascoltare Dio che ci parla, possiamo incontrare Dio che ci viene incontro. D’altronde è Gesù stesso che ce lo ricorda: “Soltanto i puri di cuore vedranno Dio”. E’ allora importante sempre, nella nostra preghiera personale, nella nostra preghiera comunitaria, ogni volta che siamo alla presenza di Dio è importante sempre cominciare da qui, da questo atto di umiltà, di pentimento, ed è altrettanto importante farlo mentre iniziamo le giornate degli Esercizi Spirituali, perché non possiamo vederlo (ed è quello che vogliamo) se prima non abbiamo purificato il cuore.
La Lettera alle Sette Chiese e l’esame di coscienza
Ci aiutiamo per questo percorso con un brano dell’Apocalisse (2,1-3,22). E’ un brano che conosciamo bene, che tante volte abbiamo ascoltato, meditato. E’ un testo un po’ lungo quindi, diversamente da come siamo abituati e da come cercheremo di fare in questi giorni, non lo leggiamo, tuttavia poi lo riprendiamo personalmente per poter stare su questo testo, almeno su alcune parti di questo testo o perlomeno ancora su alcune parole che saranno quelle che noi prenderemo come riferimento della nostra riflessione.
Si tratta della Lettera alle Sette Chiese che ritroviamo all’inizio del Libro dell’Apocalisse. Giovanni qui si rivolge alle Chiese dell’Asia Minore e questa lettera, quando la consideriamo con attenzione, ci appare come un grande ed approfondito esame di coscienza. Tra l’altro, è un esame di coscienza realmente se noi consideriamo che cosa è il Libro dell’Apocalisse, perché il Libro dell’Apocalisse è una grande Liturgia, potremmo dire che è una grande celebrazione Eucaristica che comincia proprio così, da un grande atto penitenziale, cioè da un grande esame di coscienza: è l’inizio della Messa.
Dato che parliamo di esame di coscienza ricordiamo alcuni elementi di ogni esame di coscienza, che sia un esame di coscienza vero, realmente utile e ben fatto, perché al di là di quello che mediteremo oggi, l’esame di coscienza è una realtà che accompagna la nostra vita anzi, vorrei sottolineare, deve accompagnare la nostra vita, perché se non c’è esame di coscienza ben fatto, non c’è vita spirituale buona, se non c’è verifica quotidiana ed approfondita sulla vita, non ci può essere un cammino spedito nelle vie di Dio, dobbiamo ricordarcelo … lo potremmo chiamare esame di coscienza, verifica della vita, fare il punto della situazione, ma certo il fermarsi per rivedere davanti a Dio il nostro cammino è un esercizio spirituale non solo importante, ma piuttosto necessario per la nostra vita. Ricordiamo in proposito i 4 elementi per un esame di coscienza che realmente ci possa aiutare:
- L’esame di coscienza noi siamo chiamati a compierlo non davanti a noi stessi, come se fossimo davanti ad uno specchio nel quale noi rivediamo ciò che siamo. No, non sarebbe questo un atto religioso. L’esame di coscienza siamo chiamati a compierlo davanti al Signore, al volto del nostro Dio e preferibilmente nell’ascolto di Lui che ci parla e nella visione di Lui crocifisso, perché noi dobbiamo guardare alla nostra vita nello specchio non della nostra immagine, ma nello specchio dell’amore di Dio. Un pentimento vero, cioè segnato dall’amore, è quello che nasce proprio dall’esperienza dell’essere amati, non da una ricerca astratta di perfezione nella quale non ci ritroviamo, sarebbe semplicemente un atto narcisistico che ci porterebbe alla crisi … deve essere invece un contemplare l’amore di Dio, certo, un amore ferito, ma un amore che continua ad amarci, ad essere buono, misericordioso, compassionevole con noi. Il senso del peccatonon è la tristezza di non essere stati all’altezza di un ideale, il senso del peccato è la tristezza di aver ferito il cuore di Dio, ma mentre la prima tristezza è glaciale e ci distrugge, l’altra è dolcissima e ci fa vivere. Forse potremmo usare questa immagine: noi viviamo bene l’esame di coscienza quando viviamo la spiritualità del ladrone graziato, cioè di colui che riconosce tutta la propria povertà dentro questa grazia dell’amore e della misericordia di Dio.
- La disponibilità alla conversione e al cambiamento di vita. Non basta guardare, non basta scoprire, anche davanti al Signore, quello che siamo nella nostra povertà, ma è necessario che scoprendo la nostra povertà siamo sospinti ad una trasformazione, ad una conversione. Ecco perché è importante stare dentro l’amore di Dio, perché soltanto il senso profondo di un amore ferito mi fa scoprire quanto sia importante riparare quell’amore, ritornare a vivere in pienezza quell’amore, rispondere a quell’amore che mi ha perdonato. Non c’è volontà di trasformazione se non c’è un’esperienza di un amore che abbiamo infranto, ma soprattutto di un amore che è così grande e che continua ad amarmi nonostante tutto.
- Noi dobbiamo esaminare noi stessi secondo quello che chiamiamo esame di coscienza, però dobbiamo anche compiere un qualche altro passo che possiamo definire non tanto esame dicoscienza, ma esame alla coscienza perché può darsi che il cammino della vita – fatto di cose certamente molto belle, ma purtroppo fatto anche di cose meno belle – renda la coscienza opaca, cioè incapace di un giudizio vero, secondo la Parola di Dio, secondo lo sguardo di Dio. La coscienza non è un dato astratto dalla vita, è un dato che cammina con la vita, che può essere formato o disinformato, può crescere o può decrescere, la nostra coscienza può essere piena di Dio – e dunque diventare capace di giudicare secondo il cuore di Dio – oppure può essere privata di Dio, parzialmente vuota di Dio e dunque incapace di giudicare e guardare secondo lo sguardo, il cuore di Dio. Dobbiamo allora compiere questo importante compito su di noi, guardare alla coscienza, esaminare la coscienza per valutare quanto ancora questa nostra coscienza sia dentro lo sguardo di Dio, ci parli con la parola di Dio, ci guardi con lo sguardo di Dio, senta con il cuore di Dio. Perché a volte, quando ci esaminiamo e facciamo l’esame di coscienza non vediamo il nostro peccato che pure c’è? non lo riconosciamo come tale, eppure c’è? non scopriamo la difformità dal Vangelo, eppure c’è? Perché la nostra coscienza non è pienamente illuminata dalla Parola di Dio e dallo sguardo di Dio.
- Nell’esame di coscienza dobbiamo fare attenzione a ritrovare sempre in tutto la nostra personale responsabilitàe a non cercare in altro o in altri il motivo della caduta, il motivo di quello che sto vivendo … Gli altri sono probabilmente compartecipi, l’ambiente in cui viviamo può avere un suo ruolo, ma c’è una responsabilità prima che è sempre la nostra. E’tanto bello da questo punto di vista tornare su quel passaggio della vita di Davide, quando Davide commette il peccato grave di impossessarsi della donna di un suo suddito, Urìa l’Ittita. Lo fa uccidere per questo, perché vuole entrare in possesso di colei che è la moglie di Urìa, e il profeta, dopo avergli raccontato quella storiella simbolica per aiutarlo a prendere coscienza e dopo che Davide replica che quell’uomo deve essere ucciso, gli dice “tu sei quell’uomo!”. Noi dobbiamo dircelo: “Tu sei quell’uomo, tu sei quella donna che ha commesso il peccato, non nasconderti, non mascherarti dietro gli altri, dietro il comportamento degli altri, dietro quello che gli altri fanno, non nasconderti dietro le situazioni della vita, le circostanze, i luoghi … no! Tu sei quell’uomo, tu sei quella donna che ha peccato, che ha commesso il male, che non ha vissuto fino in fondo il Vangelo, che é scesa al compromesso, che vive in una situazione di mediocrità … tu sei quell’uomo, tu sei quella donna!
Questi 4 elementi ci aiutino a vivere questo grande esame di coscienza che l’Apocalisse oggi ci invita a fare sulla nostra vita, e non dimentichiamo che noi possiamo dire di essere capaci di fare un esame di coscienza vero quando l’esame di coscienza diventa qualcosa di abituale nella nostra giornata, cioè come un’attività costante che ci accompagna passo passo, perché l’esame di coscienza non può essere semplicemente un tempo al quale releghiamo la verifica della vita. E’ certo anche questo, ma deve essere anche e soprattutto un’attività costante del cuore che si misura davanti a Dio per quello che fa, per quello che pensa, per quello che giudica, per quello che progetta, per quello che decide, è un costante stare davanti al Signore domandandosi continuamente: Sto vivendo per Te, sto vivendo nella tua Parola, sto vivendo nella tua volontà qui, ora, adesso? Soltanto se questa diventa un’attitudine costante possiamo dire che facciamo bene quell’esame di coscienza specifico e che l’esame di coscienza è una realtà viva del nostro cammino spirituale.
LETTERA ALLE SETTE CHIESE (Ap. 2,1-3,22)
Ritorna il numero 7 ed anche qui per Giovanni il numero 7 ha una valenza simbolica, perché lui scrive alle Chiese dell’Asia Minore, alle 7 Chiese, ma scrivendo a loro vuole scrivere a tutta la Chiesa, perché ogni Chiesa e tutta la Chiesa faccia questo esame di coscienza riguardo la propria vita. Noi possiamo dire che queste 7 Chiese, che poi mettono in luce sette particolari del cammino della vita di fede, possono in qualche modo simboleggiare il complesso della nostra umanità, cioè tutto quello che siamo. In queste 7 Chiese qui rappresentate ritroviamo tutta la nostra umanità che si pone davanti a Dio e si lascia illuminare dalla Parola di Dio, perché vuole vedersi davanti a Dio.
- CHIESA DI EFESO,la parola che vogliamo custodire nel cuore e dalla quale partiamo per esaminarci : “Ho però da rimproverarti per aver abbandonato il tuo primo amore, l’amore di un tempo”. Che cosa è questo primo amore, l’amore di un tempo? E’ probabilmente anche cronologicamente l’amore di un tempo, perché capita a tutti noi che quando andiamo indietro e rivediamo il percorso della vita, ci accorgiamo che c’è stato un tempo particolarmente bello nel quale abbiamo sentito l’amore di Dio, abbiamo corrisposto a questo amore e soprattutto abbiamo desiderato dare tutto al Signore. È vero che l’amore di un tempo è caratterizzato anche da immaturità, poi da un sentimento … non possiamo paragonare quello che è stato una volta a quello che siamo ora, perché c’è stato un cammino che certamente ci ha fatto crescere e maturare anche nel modo di vivere l’amore, però è importante che torniamo a quel primo amore, perché lì c’era una volontà, la volontà di dargli tutto, e non è detto che questa volontà di dargli tutto sia ancora presente oggi nella nostra vita, perché forse quella radicalità, quell’integralità, quella volontà così gioiosa di perderci nell’amore del Signore è venuta meno con il cammino della vita. E’ venuta meno perché abbiamo cominciato a riappropriarci di qualcosa di cui ci eravamo liberati, perché abbiamo sentito l’attrazione per quello che avevamo abbandonato, perché abbiamo quasi vissuto la nostalgia di quello che una volta avevamo considerato un peso di cui liberarci. La nostra vita è diventata da questo punto di vista un po’ mediocre e con verità dobbiamo dirlo: quei desideri radicali di una volta, forse, non sono così limpidi adesso, la mediocrità ci ha come conquistato …
C’è una mediocrità sulla quale mi sembra importante soffermarsi e sulla quale verificarsi: la mediocrità di chi si adegua al secolo presente. E’ un qualcosa su cui dobbiamo continuamente vigilare, perché noi viviamo anche in un contesto e in una cultura che per certi versi giustamente sottolinea l’esigenza, la necessità di calarsi dentro il tempo per viverlo e anche per conquistarlo a Dio, non c’è dubbio, ma dobbiamo fare attenzione che questa intenzione, in partenza buona, non si trasformi in qualcosa di negativo, perché noi entriamo dentro il secolo presente per attirarlo a Dio, non per rimanerci dentro. Noi viviamo dentro, partecipi delle vicende del nostro mondo non per diventare mondo, ma per salvare il mondo. Un grande Arcivescovo di Parigi, il Cardinale Mercier, disse una volta ai suoi sacerdoti: “Abbiamo fatto una cosa buona, perché il desiderio di andare incontro al mondo di oggi ci ha fatto anche andare dentro le osterie, peccato però che poi ci siamo rimasti …”. Questo dobbiamo tenerlo presente e su questo dobbiamo vigilare: che il desiderio di andare nel mondo non ci faccia perdere di vista che ci andiamo per portarlo a Dio e che il nostro stare dentro il mondo un po’ alla volta non ci fagociti facendoci prendere le sue abitudini, i suoi stili, la sua povertà e la sua miseria.
In questo ambito mi pare anche importante sottolineare la dimensione del rimpianto, perché purtroppo la nostra povertà è così grande che noi siamo capaci anche di rimpiangere ciò che abbiamo lasciato e che un giorno, invece, avevamo abbandonato con tanto slancio … quasi a dire che Dio è stato incapace di soddisfare la nostra vita e dunque rimpiango quello che non ho potuto vivere, che non ho potuto fare, che non posso fare e vivo allora la vita presente con il cuore altrove, vivo ciò che sto vivendo, ma in verità i desideri, i pensieri, gli affetti, i sentimenti sono da un’altra parte. Ecco perché il Signore viene e con la sua Parola dice: “Io ho da rimproverarti perché non hai più l’amore di un tempo”, non hai più quell’amore degli inizi che diceva radicalità, volontà di dare tutto, non hai più quell’amore degli inizi che non sopportava la mediocrità ed il compromesso con lo spirito del mondo, non hai più quell’amore degli inizi perché adesso provi rimpianto, quasi che Io non sia così importante, anzi, non sia il tutto per te, perché rimpiangi ciò che non sono Io”. Riflettiamo allora su questo “amore di prima, amore di un tempo”.
Agli inizi del suo cammino di conversione, capitò questo a S. Francesco: nel sonno all’improvviso una voce gli si fece presente e gli domandò dove avesse intenzione di andare: Francesco, che in quel momento era malato e non stava bene, rispose che avrebbe voluto andare nelle Puglie per diventare cavaliere. Questo interlocutore invisibile riprese, e gli disse: “Francesco, dimmi, chi ti può giovare di più, il padrone o il servitore?” Francesco, un po’ sbalordito rispose: “Ma, il padrone!” La voce proseguì: “Perché dunque lasci tu il padrone per il suo servitore ed il principe per il suo vassallo?” Ecco, quando noi lasciamo la nostra appartenenza totale all’amore, all’amore di prima, all’amore di un tempo, all’amore che è il Signore lasciamo il padrone per il suo servitore. Diciamocelo oggi … quante volte abbiamo vissuto questo … ci siamo accontentati del servitore lasciando il padrone, abbiamo preferito il vassallo al principe … diciamocelo: “poveretto che sono stato, stolto che sono stato!”
- CHIESA DI SMIRNE: spesse volte Giovanni in queste lettere esprime attraverso un dato positivo il richiamo che vuole formulare anche in chiave negativa. Qui abbiamo due affermazioni positive attraverso le quali si sviluppa l’esame di coscienza, perché dice l’angelo alla Chiesa di Smirne: “Tu sei ricco, sii fedele”, però prima vi è un’affermazione: “hai tanti problemi”. Mettendo insieme queste 3 parole noi veniamo al nostro esame di coscienza: hai tanti problemi tu, Chiesa di Smirne, perché sei affaticata, soffri la persecuzione, vivi nel pericolo di coloro che non ti vogliono bene, però sei ricca e ti esorto ad essere fedele. Cosa ne può derivare per noi? Questa Chiesa è ricca perché non ha problemi? Non ha difficoltà? Non vive ogni giorno persecuzioni e contraddizioni? No, è ricca perché ha problemi, perché deve lottare, perché ogni giorno deve affrontare la fatica del cammino. E’ un modo nuovo di vedere la realtà, ma è il modo evangelico e non pagano, perché noi siamo ancora tanto pagani e non guardiamo la vita con gli occhi di Gesù, non guardiamo la vita attraverso la lente del Vangelo, no, la guardiamo come dei pagani che ragionano come tutti ed allora il problema ci ammazza, la fatica non la vogliamo, la sofferenza la lasciamo distante da noi, il che può essere naturale, ma la cosa più grave è che non sappiamo riconoscere la grazia che vi è dentro il problema, dentro la fatica, dentro la lotta, dentro anche il pericolo … e questo a livello personale, ma anche a livello comunitario. E’ così drammatico che a livello personale viviamo la lotta ogni giorno? No, è una grazia, perché dalla croce si arriva alla resurrezione. E’ drammatico ed è un problema insormontabile che la nostra vita sia fatta di alti, bassi, di necessità nell’affrontare se stessi, la propria interiorità, le proprie contraddizioni, di ritornare ogni volta a rialzarsi dopo il proprio peccato? No, è una grazia, perché la vita è questo, perché lì c’è la grazia del passaggio dalla morte alla vita, non altrove. Noi idealizziamo una vita senza problemi: non esiste, non esiste per nessuno, ma il pagano cerca di evitarli e non sa perché ci sono, il cristiano li affronta e li vive come una grazia che gli consente di raggiungere Dio in pienezza. E a livello comunitario è così un dramma che ci siano dei problemi? E’ così un dramma che ci siano delle fatiche? E’ così drammatico che non ci si capisca? È proprio così tragico che andiamo avanti con fatica? Ma no! E’ il cammino della vita ed è una grazia, perché lì c’è una croce su cui può fiorire la resurrezione. Guardiamo con gli occhi del Vangelo, non con gli occhi dei pagani.Noi viviamo ancora, direbbe Gesù a Pietro, “secondo la carne ed il sangue”, non viviamo con lo sguardo che scende dall’alto. Come dice Gesù: “E’ tanto tempo che sono con voi e ancora non avete capito”, cioè è tanto tempo che sono con voi e ancora ragionate così … lasciamocelo dire: “è tanto tempo che sono con te e ragioni ancora come un pagano! Coraggio, guardami e guarda attraverso di me la tua vita personale, comunitaria.”
Certo che questa ricchezza noi possiamo considerarla anche da un punto di vista negativo, e c’è una ricchezza che dobbiamo andare a scovare, piano piano ad estirpare … piano piano perché estirparla del tutto è impossibile … è l’amor proprio, questa gramigna terribile che nasce ovunque e che rinasce continuamente anche quando noi la strappiamo, rinasce e magari lì ci sembra di averla vinta e la troviamo da un’altra parte. San Francesco di Sales diceva (se lo dice lui, a maggior ragione lo possiamo dire noi) che il suo amor proprio, la sua superbia sarebbe svanita solo un quarto d’ora dopo la sua morte. E’ ancora più vero per ciascuno di noi e quindi nell’esame di coscienza cerchiamo l’amor proprio anche perché ci renderemo conto che l’amor proprio, l’orgoglio, la superbia è la radice vera di ogni nostro male, non ce n’è mai un’altra. Ha tante espressioni, ma fino a quando non riusciamo a trovare in queste espressioni quale è la radice, la sorgente, non arriviamo alla motivazione vera di comportamenti, pensieri, reazioni, ciò che sentiamo … è sempre lì questo amor proprio che vive e rivive, che si esprime in tante forme diverse, spesso occulte, ma lì è la radice. Finché non si muore a se stessi non si vive, non c’è nulla da fare.
In questo amor proprio, in questo attaccamento a noi stessi vorrei anche sottolineare l’esigenza di passare dal modo di vivere – anche la santità, la ricerca della santità – a modo mio, al vivere questo al modo di Dio. Anche questo è un passaggio che dobbiamo fare ogni giorno, perché noi continuamente progettiamo secondo il nostro punto di vista, che magari non è il punto di vista di Dio. Noi progettiamo tutto, le nostre giornate, quello che dobbiamo fare, quello che vogliamo fare, anche positivamente, in bene … e poi non sopportiamo che i nostri progetti vengano sconvolti, eppure è di lì che Dio passa, in questi imprevisti che ci sembrano così sciagurati e invece sono il passaggio di Dio per noi. Spogliarsi di sé significa spogliarsi del modo proprio di voler anche vivere la propria vita spirituale, percorrere il proprio cammino di santità, il nostro modo di incontrare Dio e accettare che ce ne sia un altro, quello che il Signore ha per noi … questa capacità di abbandono vero, totale a Dio e alla sua volontà!
San Francesco di Sales ha una pagina bellissima nella quale entra in dialogo con la Madonna che ritrova costretta alla fuga in Egitto e proprio mentre la Madonna si trova in Egitto, Francesco le si rivolge e le dice: “Ma senti, Maria, tu sei triste di dover andare in Egitto?” La Madonna gli risponde serena: “no, per nulla, Francesco!” Allora il santo continua: “ma quando sarai lì in quella terra straniera di esilio, non sentirai il desiderio ardente di tornare nella tua terra?” La Madonna gli risponde di nuovo con tanta semplicità: “no, perché?” Il santo riprende: “ma sarai contenta di più quando lascerai l’Egitto e potrai tornare nella tua casa di Nazareth?”La Madonna semplicemente gli dice: “no, no!” San Francesco le risponde: “come è possibile questo?” Lei: “ perché la patria della mia vita e quella nella quale io vivo nella serenità e nella gioia è solo la volontà di Dio”. Dobbiamo ritrovare questa patria, che non è un luogo, non è una situazione, non è il domani, non è il passato, non l’oggetto dei nostri desideri, non è un ideale che non esiste, è la volontà di Dio qui e ora, questa è la patria beata nella quale vivere nella serenità e nella pace, non ce n’è un’altra. Fino a quando non ci accorgiamo di questo saremo sempre in esilio, sempre scontenti, sempre tristi, sempre alla ricerca di qualcosa che non troviamo perché non saremo mai in patria … la nostra patria è questa, è la volontà di Dio qui, ora, qui è la nostra felicità, qui è la nostra pace.
Poi l’esortazione ad essere fedeli : “hai tanti problemi, sei ricco!” e poi l’esortazione: “sii fedele”. Noi sappiamo bene come uno dei nostri problemi della vita sia proprio quello della fedeltà, cioè la capacità sì di fare grandi propositi, proporci delle mete … e poi dopo un po’ ci accorgiamo di quanto sia precaria la nostra fedeltà, eppure la fedeltà è la parola che traduce amore altrimenti parliamo di emozione, di sentimento, ma non parliamo ancora di amore: la fedeltà traduce un amore autentico. Una volta si domandava la grazia della perseveranza finale … molto saggiamente, perché consapevoli della propria debolezza nella fedeltà si chiedeva al Signore di poter essere fedeli fino alla fine dei propri giorni: è una grazia che dobbiamo domandare, non soltanto in relazione al permanere dentro la fede nel corso della vita, è una grazia che dobbiamo domandare sulle nostre piccole fedeltà di ogni giorno, la perseveranza, rimanere dentro, stare lì, non abbandonare il campo, questo è amore!
- CHIESA DI PERGAMO:si fa riferimento a dei seguaci della dottrina di Balaam, si fa riferimento alla dottrina dei Nicolaiti e si dice che questa Chiesa ha presso di sé e gli uni e gli altri, ma non soltanto li ha presso di sé, li tollera e anche è entrata a compromesso con questi Nicolaiti e con i seguaci di Balaam. C’è un compromesso, c’è un vivere quasi due appartenenze parallele, perché la Chiesa di Pergamo è la Chiesa di Dio, ma nello stesso tempo è la Chiesa che accetta Balaam e i Nicolaiti: i piedi in due scarpe, due vite parallele. Consideriamo le nostre vite parallele, perché forse noi abbiamo delle vite parallele cioè abbiamo un’appartenenza esteriore, di facciata, di cui il nostro abito parla e le nostre parole fanno professione, però abbiamo un’altra appartenenza che è quella del cuore e del segreto della vita che percorre altri sentieri (non sempre grazie a Dio, ma a volte e magari spesso). Dobbiamo fare attenzione alle vite parallele e dobbiamo riconoscerle per quello che sono, per come si chiamano, per dove ci portano, senza timori, con serenità. C’è un cuore parallelo che sente diversamente da Dio, c’è un’intelligenza parallela che guarda, ragiona in modo diverso dalla mente di Dio, c’è un’affettività parallela che ama in modo diverso da Dio, c’è un complesso di elementi nostri paralleli per i quali la Parola di Dio non ha più la capacità di incidere, non incide. In fondo noi possiamo arrivare ad affermare, con un po’ di radicalità, ma anche con verità, che fino a tanto che non viviamo come San Francesco il Vangelo sine glossa, c’è ancora qualche elemento di vita parallela, è così e tutti ci troviamo in questa situazione, perché fino a quando il Vangelo non è il tutto della vita, vuol dire che c’è ancora qualcosa di noi che a Dio non appartiene e che dunque procede per strade parallele. Senza paura, però riconosciamolo con sincerità.
- CHIESA DI TIATIRA:“Ho da rimproverarti che lasci fare a Gezabele”, che è la donna cattiva che ritroviamo nel ciclo del profeta Elia ed è la donna che perseguita Elia, vuole fargli del male, addirittura lo vuole uccidere perché il profeta le impedisce di realizzare i suoi progetti di male con il marito nel popolo di Israele. Ci soffermiamo su questo “lasciar fare”, tu, Chiesa di Tiatira, lasci che il male ti contamini, lasci che ciò che non appartiene a Dio venga presso di te e rimanga presso di te: c’è una pigrizia spirituale a motivo della quale con poca decisione mi oppongo al male, al peccato, a ciò che non viene da Dio. Non c’è un impegno serio, quotidiano e questa sorta di pigrizia spirituale è quella che noi potremmo definire come accidia, secondo la dizione classica che noi conosciamo. Tutti noi viviamo a volte una sorta di accidia, cioè lasciamo fare, permettiamo a ciò che non è da Dio di venire a contaminarci, perché non lo respingiamo subito, perché procrastiniamo a domani, perché diciamo “lo faccio poi …”. C’è una mancanza di volontà ferma di respingere immediatamente il male, è come se gli permettessimo di venire a noi, lasciando che rimanga dentro di noi e questo ci fa un gran male. C’è una dissolutezza spirituale che è l’accidia, c’è una dissolutezza spirituale che è la pigrizia, c’è una dissolutezza spirituale che è il lasciar fare, cioè consentire al peccato, alla tentazione, a ciò che non è da Dio di stare tranquillamente presso di noi. Ricordate una parola che la Liturgia ci dona continuamente e che è una parola evangelica: “oggi”, è oggi il tempo della salvezza, è oggi il giorno in cui devi vivere fino in fondo la tua vita, è oggi il momento nel quale tu devi vincere la tua lotta, è oggi, non è domani, se è domani è già persa, è oggi, nel momento in cui rimando a domani sono già sconfitto, anche perché questo ci rivelerebbe che Cristo non è poi così importante per noi. Dio è la contraddizione radicale, totale al peccato e se noi sopportiamo anche per un solo istante che il male stia con noi, vuol dire che Dio ha perso il suo primato e che la sua presenza in noi si sta un pochino annebbiando.
- CHIESA DI SARDI:è una parola piuttosto dura: “Ti si crede vivo, ma sei morto, rinvigorisci ciò che sta per morire, non ho trovato le tue opere perfette” Tre parole in sequenza per noi:
“Ti si crede vivo, ma sei morto”: la Chiesa di Sardi probabilmente appariva una Chiesa viva esternamente, ma nella verità, nello sguardo di Dio era morta. Può capitare anche a noi e questo ci aiuta a ricordare che l’unico giudizio importante sulla vita è il giudizio di Dio. Tutti gli altri giudizi lasciano il tempo che trovano, perché non significano nulla se non nella misura in cui, certo, mi sono di aiuto, ma l’unico vero giudizio che pesa su di me è quello di Dio ed io devo vivere sotto la luce di questo giudizio e di questo sguardo. Non devo vivere sotto la luce del giudizio degli altri, condizionato dallo sguardo altrui, è una stoltezza, devo vivere sotto lo sguardo di Dio, perché l’ultima e l’unica parola vera è questa.
“Rinvigorisci ciò che sta per morire”, è un grande incoraggiamento, perché il Signore viene a rinvigorire ciò che sta per morire. Speriamo di no, ma forse anche in noi c’è un lumicino che è ancora acceso, ma si sta consumando … a motivo del quale avverto che magari c’è una dimensione della mia vita spirituale che è proprio povera, si sta impoverendo … coraggio, il Signore viene per riportare la fiamma, per rinvigorirti, per ridarti quella vita che ti sembra stia per morire, però dobbiamo rendercene conto.
“Non ho trovato le tue opere perfette” … l’importante è vedere per poter poi operare, vedere senza timore. Se c’è una cosa importante che oggi in questa meditazione, ma che poi in generale dobbiamo sempre fare è quella di non avere timore dei nostri scheletri, nessun timore, perché non li ritroviamo da soli, li ritroviamo con Dio, non devono spaventarci perché non li vedremo noi faccia a faccia in una solitudine terrificante, no, li vedremo faccia a faccia con il Signore accanto a noi che ci amerà comunque, anzi, ancora di più perché ci troverà così. E’ il male non riconosciuto il grande problema, perché continua ad operare nonostante noi e noi non ce ne accorgiamo, ma il male trovato, scovato, visto, riconosciuto è una grazia di Dio e dunque senza paura.
- CHIESA DI FILADELFIA: la sesta parola. Anche qui in positivo l’angelo si rivolge, perché dice: “Io ti faccio alcuni doni …” e poi elenca questi doni che significano il fatto che questa Chiesa ha potuto accogliere dentro di sé nuovi fratelli, nuovi figli, dunque c’è un’espansione nella fede, nell’annuncio del Vangelo, che bello! E’ quello che il Signore vuol fare a noi quando rende feconda la nostra vita, perché ci permette di vedere anche crescere i figli per i quali diamo la vita, propagarsi la Parola là dove sembrava difficile potesse attecchire, il Vangelo che si fa strada nel cuore degli uomini e delle donne che conosciamo. E’ la missionarietà, questa Chiesa di Filadelfia è arricchita del dono della missionarietà, cioè dell’annuncio e della testimonianza, ed è così che qui siamo invitati a verificarci su questo aspetto della nostra vita, la missionari età. Non so se qualcuno di voi conosce un grande tennista, Roger Federer, che in questi giorni ha vinto per l’ottava volta il torneo di Wimbledon ed è uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi; dopo la partita l’avversario ha rilasciato un’intervista nella quale ha detto: “Certamente il mio amico Federer è il più grande ambasciatore del tennis nel mondo con il suo modo di interpretare questa disciplina”. Pensavo che noi dobbiamo aspirare a questo, ad essere i più grandi ambasciatori di Gesù nel mondo, con il nostro modo di vivere la fede, con il nostro modo di essere suoi. Allora domandiamoci: noi siamo ambasciatori di Gesù nel mondo, siamo questi portatori belli del Signore negli ambienti in cui viviamo? Si può dire di noi “questa, questo parla bene di Gesù con la parola e con la vita ed è proprio un grande ambasciatore di Gesù tra gli uomini del nostro tempo”? Questo significa che la missione non è legata ad un’attività, ad un fare, la missione è semplicemente ciò che siamo: ciò che siamo deve parlare di Dio, ciò che siamo deve diventare un’ambasciata persuasiva di Dio, questa è la prima missione, una parola vivente, bella che noi pronunciamo con il nostro modo di essere e che fa dire “come è bello il Signore, se chi vive per Lui è così!”
- CHIESA DI LAODICEA: “Non sei né freddo né caldo”, dice l’Angelo, e ritorna così sull’aspetto della mediocrità, né freddo né caldo, cioè sei proprio un mediocre e così ancora peggio! Se tu fossi freddo riusciresti a renderti conto ad un certo punto del tuo essere freddo e da lì potrebbe intervenire un cambiamento, ma invece sei tiepido e quindi incapace di riconoscere la tua povertà. Né caldo, né freddo! Un giorno Alessandro Magno incontrò un soldato che portava il suo stesso nome, si chiamava Alessandro. Era un soldato un po’ timoroso ed allora Alessandro lo prese di petto e gli disse: “Soldato, senti, o tu cambi vita o tu cambi nome!” Facciamocelo dire da Gesù: “O tu cambi vita oppure cambia nome!” E’ chiaro che vogliamo cambiare vita, passare da una vita mediocre ad una vita realmente spesa tutta per Dio. C’è un libro molto bello, “Il potere e la gloria”, nel quale l’autore inglese Graham Greene presenta la vita di un sacerdote travagliata, complessa e alla fine della vita fa dire a questo sacerdote delle parole tristi, ma anche molto vere; “Si accorse che in fondo, ora che la vita lo stava per abbandonare, sarebbe bastato così poco per essere un santo: un po’ più di coraggio, un po’ più di generosità, un po’ più di radicalità”. Lasciamo che risuoni dentro di noi questo, basterebbe così poco in fondo … ma questo non diciamolo nell’ultimo giorno della vita con il rammarico di chi non ha vissuto quello che poteva vivere, diciamocelo ora, fino adesso sarebbe bastato così poco e adesso basta così poco! Bando alla mediocrità!
Questa lettera si chiude con una parola molto bella: “Ecco, io sto alla porta e busso”. E’ Gesù che parla così a queste sette Chiese come a dire “non abbiate timore, certo, stando davanti a me avete visto la realtà della vostra vita con le cose belle che avete, i doni che avete, le grazie che avete ricevuto e che avete saputo far fruttare e delle quali rendere lode a me, e avete visto anche le cose meno belle, brutte che caratterizzano in questo momento un po’ la vostra esperienza … va bene, non temete, io sto alla porta e busso …”. Questa immagine così bella ci ricorda la fedeltà di Dio, che è sempre lì a bussare e non si stanca mai: non dice ho bussato, non dice busserò, dice “Sto alla porta e busso” … con una pazienza infinita. Ecco, il nostro esame di coscienza è fatto davanti a questo Gesù che sta alla porta e bussa senza fine, ogni giorno della vita, sempre.
Guardiamoci dentro questo amore, dentro questo sguardo.
LITURGIA EUCARISTICA – OMELIA
Lunedì della XV settimana, anni dispari: Esodo 1,8-14,22; Matteo 10,34-11,1
Nelle vicende della Storia della Salvezza noi sappiamo come spesso l’Egitto sia diventato il simbolo della schiavitù del peccato vissuta dal popolo d’Israele e il Faraone d’Egitto spesso il simbolo del grande nemico dell’uomo, Satana, il demonio … e se noi leggiamo tenendo conto di questo la pagina di oggi ci accorgiamo come sia tanto significativa la parola che il Faraone ad un certo punto rivolge ai suoi sudditi in relazione al popolo d’Israele. Dice il Faraone: “Dobbiamo essere avveduti e impedire che questo popolo possa crescere”. Proviamo a rimanere dentro il simbolo del Faraone come il vero nemico dell’uomo, simbolo di Satana del demonio: questa è la parola che egli rivolge agli altri demoni in rapporto a noi: “Siamo avveduti e impediamo di crescere, di fare dei passi avanti nella via di Dio”. Proviamo a fermarci su di noi, sulla nostra vita, per accorgerci che ogni volta nella quale noi non viviamo la realtà della crescita spirituale, non avvertiamo nel cuore il desiderio di fare dei passi avanti e viviamo il rapporto con gli altri, con le situazioni, con le cose non come occasione di crescita ma come motivo di intralcio, di impedimento, occasione per restare fermi … lì c’è questa parola di Satana che diventa realtà: “Siamo avveduti e facciamo di tutto perché non cresca, non possa crescere”.
Un cuore che diventa incapace di gustare la bellezza di crescere in Dio è un cuore toccato dal nemico; un cuore che diventa incapace di approfittare dei fratelli delle sorelle anche quando sembrano intralcio per passare di lì e di lì crescere nella via di Dio è un cuore toccato dal nemico, da Satana; un cuore che non sa approfittare delle occasioni della vita, delle situazioni, degli ambienti, dei luoghi in cui vive per crescere nella via di Dio e fa diventare tutto questo un motivo per rimanere seduti, forse per andare indietro, per rimanere aggrovigliati è un cuore che si è lasciato toccare da questo nemico, da Satana. Riflettiamoci bene: ogni volta nella quale a livello interiore o a motivo degli altri noi siamo impediti a crescere in Dio lì c’è il nostro nemico che sta lavorando contro di noi- Non è un problema che possa capitarci questo, che possiamo vivere questa esperienza, perché fa parte del cammino della vita; il problema è non accorgerci che lì sta lavorando il nostro nemico e andare dietro a quello che il nostro cuore in quel momento ci suggerisce ingannandoci; non è un problema che sperimentiamo a volte la fatica della crescita e anche la tentazione di non crescere più, non è un problema, fa parte della vita … il problema è non accorgerci che quella è una tentazione del nemico, il problema è non accorgerci che quello che stiamo sentendo e vivendo ce lo suggerisce non il Signore ma il nemico del Signore, il nostro nemico.
Oggi questa parola che ascoltiamo nella Scrittura è una parola importante che getta luce su tanti aspetti della nostra vita e noi vogliamo lasciarci illuminare …
Ascoltiamo poi oggi la parola evangelica e la ascoltiamo facendo risuonare la preghiera della colletta nella quale abbiamo domandato di poter respingere con forza ciò che è contrario al nome cristiano e invece di saper seguire con altrettanta forza ciò che è conforme al nome cristiano. Perché ricordiamo questa preghiera bella della Chiesa mentre ascoltiamo la parola di Gesù? perché questa parola può essere anche esigente, quello che ci chiede ci prospetta mete alte, e dunque la vogliamo ascoltare pregando così: Signore, aiutami a respingere ciò che è contrario al tuo nome e a seguire ad accogliere ciò che è conforme al tuo nome, cioè aiutami a respingere quella tentazione di sentire questa parola come troppo impegnativa, distante da me e aiutami invece ad accoglierla perché la mia vita si conformi in tutto e per tutto a questa parola che oggi mi hai rivolto.
Agli inizi del suo cammino di conversione Francesco d’Assisi ebbe un’esperienza spirituale fondamentale che lo segnò per tutta la vita: tra le cose che più non gradiva, potremmo dire che più detestava, vi erano i lebbrosi, dai lebbrosi scappava ogni volta che li vedeva, li teneva più distante possibile, li avvertiva come ciò che di più sgradevole vi poteva essere nella sua vita. L’incontro col Signore gli fece compiere un gesto eroico, quello di avvicinarsi a un lebbroso, di abbracciarlo e di baciarlo, perché per lui la conversione fu questo: respingere ciò che prima amava, amare ciò che prima respingeva. Ecco come dobbiamo vivere noi ogni giorno l’ascolto di Dio che ci parla: amare sempre di più con la parola che a volte vogliamo respingere, respingere sempre di più quello che invece siamo portati forse ad amare.
Una preghiera molto bella della liturgia ambrosiana dice così: O Dio, aiutami con i vincoli del tuo amore tenace perché io possa trattenere con me Cristo per sempre. Questa è la preghiera che oggi vogliamo rivolgere al Signore mentre ascoltiamo la Parola evangelica: con i vincoli del tuo amore tenace aiutami a trattenere con me Cristo per sempre, ad amare ciò che Egli ama, a respingere ciò che Egli non vuole, ad accogliere ed abbracciare ogni sua parola, a tenere distante da me ogni parola che non è sua e che viene dal mondo.
Gesù sia davvero tutto per noi!
SECONDA MEDITAZIONE
“Non hai riflettuto ancora abbastanza su quanto grande sia il peccato”
Questa mattina abbiamo cominciato a percorrere quella che abbiamo definito la nostra galleria degli orrori, abbiamo iniziato a sprofondare nei nostri inferi e quest’oggi vogliamo in qualche modo continuare ancora il percorso e quindi prolunghiamo un poco questa situazione di sofferenza nella quale ci troviamo a motivo della contemplazione di quello che in noi è difforme rispetto alla volontà di Dio.
Mentre eravamo a pranzo e chiedevo a suor Roberta chi fosse l’autore di quelle musiche … una particolarmente verso la metà che a motivo della forma fatta di distonie mi dava proprio l’impressione che volesse mettere in evidenza la disarmonia … il peccato è questa disarmonia che si introduce nella nostra vita, una disarmonia nella quale quando ci si entra dentro è normale che non si stia bene, perché possiamo fare finta di niente, ma quando poi ci stiamo ne avvertiamo tutta la contraddittorietà rispetto ai desideri più veri che portiamo nel cuore, che portiamo dentro di noi … oggi continuiamo a stare dentro a questa disarmonia.
Sant’Anselmo a un suo figlio spirituale che gli chiedeva spiegazioni e dopo aver riflettuto lungamente sul peccato poneva al maestro questo interrogativo “Ma devo ancora stare a meditare sul peccato?!?”, rispondeva: “Guarda, non hai riflettuto ancora abbastanza su quanto grande sia il peccato”. Oggi ci lasciamo dire questo da Sant’Anselmo: abbiamo già riflettuto oggi sul peccato, però ancora non abbiamo riflettuto sufficientemente su quanto grande sia il peccato. Negli Esercizi Spirituali Sant’Ignazio dedica un tempo molto prolungato alla meditazione sul peccato, perché vuole che colui che fa gli Esercizi arrivi non soltanto a scoprire fino in fondo il male che è in lui, ma a provarne orrore, a detestarlo, a non poterne più … il percorso degli Esercizi passa ad una tappa successiva quando colui che sta meditando sul peccato ci è entrato talmente dentro che non ne può più, perché ha capito che il peccato è la realtà più detestabile che ci sia. Potremmo dire che finché non percepiamo questo non dovremmo passare oltre … noi forse questo non potremmo farlo altrimenti tutta la settimana passerebbe sul peccato, però domandiamo perlomeno la grazia che questa giornata – nella quale siamo concentrati sulla realtà del peccato stando alla presenza di Dio – ci aiuti non soltanto a scoprirlo in noi ma anche a coglierne tutta la detestabilità, a provarne un po’ di disgusto, perché il problema forse è che non abbiamo proprio questo grande disgusto del peccato in tutte le sue forme, grandi o piccole che siano. I Santi hanno avuto possiamo dire la grazia, anche se è una grazia dolorosissima, a volte di guardare con gli occhi dello spirito la realtà dell’inferno e di rimanerne impressionati in un modo straordinario. Non tutti hanno avuto questa grazia di questo passaggio, ma certo tutti hanno avuto la percezione della tragedia e infatti hanno potuto dire – chi in modo esplicito, chi con modalità diverse – “Piuttosto la morte, ma non il peccato!”, perché ne hanno colto il dramma, la tragicità per la propria vita.
Ecco, noi vogliamo chiedere come grazia di questa giornata di poter dire così, in verità: “Signore, ho capito … piuttosto la morte, ma non il peccato … ho toccato con mano e ora ho il vero disgusto …” come quando abbiamo il disgusto – cioè molto di più – di un cibo che ci infastidisce e che ci fa star male se lo buttiamo giù …
IL TRADIMENTO DI GIUDA (Gv 13,18-32)
Per continuare questo nostro percorso nella galleria oscura di noi stessi oggi partiamo da un brano di San Giovanni lì dove nel Vangelo Giovanni racconta il momento e le ore drammatiche del tradimento di Giuda. Lo riascoltiamo con una attenzione che raccomando a tutti noi, sia oggi che anche per i giorni a venire: non diciamo “è un testo che già conosco”, non poniamoci come un tessuto impermeabile su cui le gocce d’acqua scorrono e se ne vanno, non disponiamoci con la superficialità di chi dice “ma perché devo riascoltare di nuovo una pagina che so già?”, ma poniamoci come terra vergine che vuole accogliere la rugiada da cui sa di poter essere fecondata, terra vergine su cui questa parola possa scendere, possa entrare e che quindi anche possa trasformare. Con questo cuore ascoltiamo San Giovanni.
Questa pagina del Vangelo si può suddividere in tre parti, è Giovanni che la divide così: c’è una prima parte che potremmo definire discorsiva, nella quale Gesù annuncia il tradimento che si sta per consumare, e poi c’è una parte narrativa, in cui avviene il riconoscimento del traditore, e infine a conclusione un’appendice che non semplicemente conclude il racconto ma ci offre una luce particolare per comprendere meglio l’intero racconto.
Parte discorsiva
Gesù parla di una conoscenza, cioè Gesù sa chi ha scelto, conosce i 12, è andato sul monte a pregare una notte intera prima di chiamarli a sé, dunque sa bene chi sono, eppure qui nel momento del tradimento appare una impotenza di Gesù … perché, Gesù, tu che conoscevi il cuore dei tuoi hai accettato che tra questi vi potesse essere chi ad un certo momento del cammino ti ha tradito? … una domanda grande che noi poniamo a Gesù quando ascoltiamo questa pagina del Vangelo … e potremmo anche dirgli un’altra domanda: ma perché tu sottolinei il fatto che conoscevi i tuoi. Proprio nel momento in cui uno dei tuoi ti tradisce, perché lo sottolinei quasi a mettere maggiormente in rilievo, a rimarcare questo stridore tra la conoscenza che tu hai del cuore umano e questo tradimento che sembra invece contraddire la conoscenza che tu hai del cuore dell’uomo? e la risposta è questa: Gesù, Dio, prende sul serio la libertà dell’uomo, la prende così sul serio che diventa impressionante questa libertà, che può porsi davanti a Dio con un sì di adesione o con un no di rifiuto … è impressionante … parliamo di Dio e parliamo di questa creatura misera che è l’uomo, che pure stando davanti a Dio può dirgli sì ma può anche dirgli di no.
Noi abbiamo letto di Giuda il fatto che Gesù lo conoscesse e che dunque ha preso sul serio la sua libertà, ma veniamo a noi: quando siamo stati scelti Dio ci conosceva e sapeva che cosa eravamo, sapeva che cosa siamo, ha messo nelle nostre mani i suoi tesori, ci ha donato il suo amore, ha messo se stesso nelle nostre mani, ha preso sul serio la nostra libertà nella disponibilità anche a sentirsi dire il no da noi, nella disponibilità anche a ricevere la parola del nostro tradimento. Il no che noi diciamo a Dio – e dunque il peccato – è il segno della grandezza di Dio: quando allora ci fermiamo su questo dettaglio della pagina evangelica di Giovanni poniamoci davvero di fronte Gesù mentre dice “io conosco e conoscevo” e mettendoci davanti a Gesù che dice questo pensiamo a noi … lo sta dicendo a me Gesù: “io ti conosco, io ti conoscevo … e ti amo così tanto che ti ho scelto lo stesso, nonostante sapessi che poi tu mi avresti in qualche modo tradito, mi avresti detto dei no …. sapevo che mi avresti detto anche tanti sì, ma che mi avresti detto anche tanti no, ma io ti ho scelto perché ti amo, nonostante tutto …”.
- Gesù aggiunge: “Colui che mangia il pane con me … questi sarà il traditore”e con queste parole Gesù definisce l’identità di colui che tra poco lo tradirà. Qual è l’identità di colui che lo tradirà? è l’identità di chi ha ricevuto una fiducia grande, di chi è stato ammesso all’intimità, di chi ha sperimentato la familiarità del banchetto comune. Qui ci viene ricordato che il peccato è esattamente una ferita inferta all’amore, è una intimità tradita, è una familiarità da cui ci allontaniamo, un amore a cui diciamo di no. Gesù vuole sottolineare questo: “tu, Giuda, che tra poco mi tradirai, non infrangi una norma, non dici di no a una legge … tu ferisci un cuore”: questa è la realtà del peccato nella nostra vita, e il fatto di cogliere così il peccato dice una cosa bella, straordinariamente bella, che abbiamo già ricordato: proprio perché il peccato è una ferita che noi provochiamo a un cuore c’è sempre possibilità di riscatto, perché quel cuore ferito continua ad amare, anzi ad amare ancora di più …
- C’è un terzo dettaglio in questa parte discorsiva: “perchè quando sarà avvenuto, crediate che io sono …”. È strano questo: Gesù parla di un atto di fede – e cioè di un riconoscimento della sua persona, della sua identità, del suo mistero – proprio a motivo di quello che sta avvenendo, cioè “questo deve compiersi perché quando si sarà compiuto voi possiate credere chi sono io, cioè riconoscere il volto autentico di Dio … voi potrete conoscermi davvero soltanto quando, dopo aver peccato, capirete che io sono il vostro Salvatore: soltanto nell’esperienza del tradimento perdonato voi capirete chi sono io…” Allora qui noi scopriamo che il male, il peccato, il tradimento a motivo di Dio e della sua misericordia senza limiti vengono piegati ad essere strumento di bene: il peccato in sé è un dramma, il più grande dramma della vita umana, ma a motivo della fantasia di Dio e della sua misericordia senza limiti viene impiegato a diventare strumento di bene, rivelazione del cuore di Dio che commuove il cuore umano.
Ricordate che qualche giorno fa abbiamo ascoltato nel libro della Genesi la vicenda di Giuseppe e dei suoi fratelli: questa vicenda si conclude in un modo sorprendente, perché quando muore Giacobbe, il padre, i fratelli si pongono il problema: “cosa farà di noi adesso Giuseppe? fino ad ora ci ha trattato bene perché noi eravamo in fondo la possibilità per lui di ritrovare il padre Giacobbe, ma ora che nostro padre non c’è più che cosa farà di noi Giuseppe?” e Giuseppe esce in quella affermazione bellissima: “state tranquilli, perché il male che avete compiuto Dio lo ha preso e se ne è servito per un bene perché voi, la mia famiglia, potesse trovare salvezza in Egitto. È come un piccolo orizzonte che si apre sul cuore di Dio che verrà pienamente rivelato in Gesù, questa misericordia senza limiti che si serve di tutto per salvare questa creatura che tanto gli sta a cuore, di tutto … anche del peccato!
Qualcuno ha detto che nella rivelazione in Gesù Dio viene evangelizzato, cioè quel Dio – che le religioni hanno cercato, di cui hanno fatto un’immagine anche buona, positiva, frutto di una macerazione interiore, di una ricerca prolungata – con Gesù viene evangelizzato, ma di quest’evangelizzazione abbiamo bisogno anche noi, perché noi portiamo dentro molte volte un’immagine del volto di Dio che non corrisponde in pienezza al Dio di Gesù e abbiamo bisogno di rimanere come un girasole a questo sole del volto di Dio in Gesù perché troviamo il vero volto di Dio che è questo.
In questa parte discorsiva, nella quale Gesù prima parla della libertà dell’uomo che viene lasciata tale da Dio e poi parla del dramma del peccato che ferisce il cuore di Dio, ci viene anche rivelato in tutta la sua profondità il vero cuore di Dio.
Parte narrativa
L’evangelista Giovanni la introduce fotografando un sentimento del cuore del Signore perché dice che Gesù fu turbato profondamente: qui il termine che viene usato è un termine che nei Vangeli lo si ritrova in situazioni nelle quali Gesù vive uno sconvolgimento profondo del cuore, e quando questo capita?
- quando Gesù è davanti al sepolcro di Lazzaro, l’amico di sempre che ora è morto; qui Gesù è turbato, si commuove profondamente, cioè è sconvolto nel più intimo
- quando sopraggiunge la passione e Gesù nell’orto degli ulivi suda sangue, è commosso, turbato profondamente, cioè il cuore è in tumulto ed è sconvolto
- quando prima dell’orto degli ulivi ci sono i momenti in cui Gesù parla della sua passione e anche qui si parla di una commozione profonda, di un turbamento, di uno sconvolgimento …
Potremmo dire allora che il turbamento del cuore di Gesù – che poi è il turbamento del cuore di Dio – si ha di fronte al male: è il male che sconvolge profondamente il cuore di Dio, il male che si manifesta dove? nella morte, perché è un prodotto del peccato; nella sofferenza, perché è un prodotto del peccato; cos’è che sconvolge il cuore di Gesù? è il peccato in sé e in tutte le sue conseguenze …
Qui Gesù allora è profondamente sconvolto davanti alla realtà del tradimento, cioè alla realtà del peccato che si sta consumando: allora personalizziamo e scopriamo che lo sconvolgimento del cuore di Gesù è quello che si realizza davanti al mio peccato, al mio tradimento, al mio no! Potessimo entrare dentro questo sconvolgimento del cuore di Gesù! potessimo almeno un poco percepire che cosa vuol dire un Dio che si sconvolge per il mio no, per il mio peccato, per il mio tradimento …che cosa vuol dire questo? Potessimo entrare dentro questo mistero, come hanno potuto fare i Santi, chiediamolo in grazia! In verità fino a tanto che non abbiamo toccato con mano e non siamo rimasti feriti dallo sconvolgimento del cuore di Dio per il peccato noi non abbiamo ancora capito che cos’è il peccato e forse non siamo ancora veramente pentiti … dobbiamo riconoscerlo …
- I discepoli si guardano l’un l’altro…: Giovanni nella sua profondità è sempre capace anche di sottile ironia, anche qui, in un momento così drammatico e tragico, Giovanni conserva questa capacità di ironizzare sui comportamenti umani. Qui dov’è la sottile ironia, che d’altronde è di grande insegnamento? lì dove Gesù sta parlando di uno che tradirà, lì dove Gesù si sta turbando profondamente, che cosa fanno questi poveretti? non dicono “può darsi che sia io …”, no, si guardano l’un l’altro cercando nell’altro colui che è il traditore, andando a vedere al di fuori di sé la realtà del male, non in se stessi, negli altri … Come è umana questa descrizione, come è vera questa descrizione: noi non siamo tanto preoccupati di quel turbamento del cuore di Dio, siamo preoccupati di toglierci il peso della colpa – spesso addossandola agli altri, che ne sono il motivo, o alle situazioni, come ricordavamo stamattina – cercando di liberarci da una responsabilità … anche nel modo in cui ci confessiamo … È il turbamento del cuore di Dio che ci fa piangere o è il peso che portiamo dentro da cui vogliamo toglierci? come siamo distanti da un amore vero … dovremmo prendere sul serio quello che con tanta saggezza la Chiesa ci fa fare quando rinnoviamo il nostro atto penitenziale: quella mano che ci battiamo sul petto non è una decorazione estetica, non lo facciamo tanto per fare, perché così si fa, lo facciamo perché in quel momento stiamo dicendo “sono proprio io, Gesù, sono proprio io che ti ho tradito e sono proprio io che ho provocato il turbamento del tuo cuore e mi dispiace per questo” e il fatto che questa mano scenda sul petto con forza e provochi un momento di turbamento anche nel nostro perché è un colpo al cuore dovrebbe essere come dire “Gesù, anch’io sono turbato nel cuore per avere turbato te, anch’io sono sconvolto per il mio peccato, che è causa del tuo sconvolgimento …”
Giovanni dirà nella sua lettera, quasi ricordando quel momento drammatico della sua vita con gli altri insieme a Gesù, “chi dice di essere senza peccato è un bugiardo” e sta pensando a sé, sta pensando gli apostoli per dire “noi eravamo bugiardi, perché pensavamo di non avere peccato e lo davamo gli uni agli altri”. D’altra parte questo guardarsi reciprocamente, oltre a mettere in evidenza questo elemento così umano vicino a noi e alla nostra esperienza di fede, dice qualche altra cosa: noi pensiamo agli occhi di questi uomini avvezzi a tutto che in quel momento si guardano reciprocamente anche con una sorta di sbigottimento, uno sbigottimento che traduce una domanda: “ma com’è possibile che tra di noi ci sia un traditore? com’è possibile proprio tra di noi, noi che siamo stati scelti, noi che siamo stati amati, noi che siamo stati messi a parte dei segreti del cuore di Gesù …proprio tra di noi un traditore ?!?” … uno sbigottimento che dovrebbe essere anche il nostro sbigottimento … “ma proprio io, io che sono stato scelto, io che sono stato amato, io che sono stato introdotto nell’intimità, io che sono stato posto nella possibilità di vedere e toccare con mano la bellezza del volto di Gesù, proprio io sono arrivato a tanto …” a volte c’è questo sbigottimento triste, “proprio io ho tradito così il mio Signore?!? eh sì, proprio io”. In fondo quando c’è questo sbigottimento è già un buon segno, perché abbiamo riconosciuto la realtà della nostra vita, ma questo sbigottimento ci parla anche di una cosa perché è uno sbigottimento che traduce un’altra consapevolezza, quando ce l’abbiamo: “ma come posso essere arrivato a tanto?”. Questo può capitarci soprattutto quando il peccato si fa più grave, Allora ci capita di dire “ma com’è possibile? com’è possibile che io sia arrivato a questo? com’è possibile? ero partito dicendo ‘Signore, oggi voglio dare la vita, voglio amarti con tutta l’anima!’ e com’è possibile che ora sia entrato dentro questa realtà così triste e dolorosa?”. - Questo ci permette di fare una riflessione che è importante, tanto saggia per tutti noi: il grande peccato non si realizza in un istante, sovente è il frutto di tante piccole mancanze, è il frutto di tante imperfezioni sopportate e accettate, il frutto di tanti piccoli no che alla fine quasi non ci dicono più nulla, la grande caduta è il risultato di piccole cadute alle quali non abbiamo più dato importanza, il grande no è il risultato triste di piccoli no ai quali non abbiamo più fatto attenzione. Ecco perché è importante che noi siamo vigilantisui nostri piccoli fuoristrada, sulle nostre imperfezioni ripetute, sui peccati che chiamiamo giustamente veniali ma che sommati l’uno all’altro diventano un macigno sul nostro cuore e ci rendono meno attenti ai dettagli dell’amore … dobbiamo fare attenzione … ed ecco perché dobbiamo essere seri nella confessione frequente. La Chiesa non ce la indica perché è fissata, la Chiesa ce la indica perché conosce il cuore dell’uomo e questo cuore se non si guarda con frequenza davanti a Dio e non riconosce spesso la propria povertà arriva al grande tradimento, ci arriva … prima o poi … e non c’è poi da stupirsi. Nella nostra vita la confessione frequente, l’esame di coscienza, la vigilanza su che cammini stiamo percorrendo, quell’esame fatto alla coscienza – di cui parlavamo stamattina – sono strumenti preziosi per mantenere il cuore in un clima alto di amore e di fede. Non crediamo che Giuda da un momento all’altro sia arrivato al tradimento, no, ci è arrivato dopo un percorso fatto di piccoli passi che l’hanno portato lì, proprio come capita a noi …
Al fianco di Gesù si trova il discepolo amato, Giovanni, anzi Giovanni si trova proprio sul petto di Gesù ad un certo punto e dunque sta vivendo un’esperienza di grande intimità con il suo Signore, un’intimità che sappiamo lascerà in Giovanni un segno profondo … ma qui ci viene un interrogativo di nuovo: nel momento in cui ci viene presentato Giuda – il traditore, colui che esce dall’intimità – perché ci viene presentato anche Giovanni in un momento di grande intimità? è un particolare bello, triste ma anche consolante, è come se fossero due figure di umanità a confronto: c’è l’umanità che tradisce e l’umanità che è fedele, però come colui che è sul cuore di Gesù può sempre diventare un Giuda, colui che esce dall’intimità con Gesù può sempre diventare Giovanni: questa è la realtà, drammatica per un verso, bellissima per l’altro. In noi c’è un Giuda e un Giovanni, in tutti noi c’è un Giuda traditore ma c’è Giovanni fedele e noi possiamo essere l’uno o l’altro – forse tante volte l’uno e l’altro – e comunque ritorniamo su quella verità così bella e nuova per noi, cioè che, dal momento in cui ogni Giuda può diventare Giovanni, non c’è peccato tanto grande nella nostra vita che non possa risolversi in occasione di grazia e strumento di misericordia per la bontà che Dio ha nei nostri confronti.
Giuda intinge il boccone è questo il gesto che viene indicato da Gesù come il gesto rivelatore del tradimento: è davvero particolare questo, il gesto eucaristico – siamo nel contesto dell’ultima cena, intingere il boccone è il gesto eucaristico, che è il gesto più nobile, più bello e più indicativo del rapporto di amore con Gesù – diventa il gesto del tradimento, del peccato. Paolo dirà, pensando anche a questo certamente, “non fate diventare il gesto della grazia il gesto della vostra condanna”, riferendosi proprio all’Eucaristia condivisa. Che cosa vuol dire questo, ancora un po’ tristemente per noi? che noi siamo capaci di rendere mortiferi cioè portatori di morte gesti che di per sé ci sono stati donati come portatori di vita. L’Eucaristia può darci la morte, diciamolo con franchezza, l’ha detto Paolo, lo dice qui Gesù: “colui che intinge il boccone tradisce”, dunque noi possiamo capovolgere il significato dei gesti che compiamo, possiamo esternamente compiere gesti bellissimi, portatori di vita secondo il piano di Dio, e stravolgerli facendoli divenire strumenti di morte per noi. Quante volte capita!
“Satana entrò in lui”: è importante che qui venga nominato Satana, perché il grande protagonista di ogni tradimento e peccato è sempre lui, in fondo l’uomo è un poveretto che cade ma chi tira i fili della malvagità nel cuore dell’uomo è sempre Satana e il cuore diventa un campo di battaglia. Quello di Giuda è stato un campo di battaglia, dove si sono confrontati Dio e Satana, il nostro cuore è un campo di battaglia in cui questo confronto permane e si protrae … non dobbiamo meravigliarcene, stoltezza sarebbe non pensarlo e far finta che non sia così! Anche il mondo è un campo di battaglia, non dobbiamo meravigliarcene e anche qui stoltezza sarebbe pensare altro: è un campo di battaglia, dove si confrontano continuamente bene e male, Dio e Satana, grazia e miseria, un campo di battaglia … e noi siamo protagonisti in questo campo di battaglia, è bene saperlo, averne consapevolezza per essere attrezzati, per essere vigilanti, per essere pronti al combattimento, alla lotta, anche per non pensare o non illuderci che la vita possa essere già un paradiso, senza lotta … No, non è così, noi siamo in lotta fino alla fine dei nostri giorni, una lotta che sappiamo vinta perché Gesù ha già vinto in anticipo, ma che deve essere combattuta comunque da noi. Dobbiamo essere dei combattenti, dei lottatori, e dobbiamo essere attrezzati con quegli strumenti della lotta che il Signore ci ha lasciato e che la Chiesa ci dona: proprio per questo motivo mai dobbiamo abbassare le armi e l’attenzione, questo sarebbe un segno di grande stoltezza perché anche se abbiamo dei momenti nei quali la quiete è più grande e la pace maggiore noi sappiamo che in lotta ci siamo sempre e il nostro nemico è sempre lì, pronto ad entrare, pronto ad a tenderci il tranello, pronto a tentarci. Ecco perché i Vangeli continuamente ci richiamano alla vigilanza: perché dobbiamo essere vigilanti? perché c’è un pericolo, perché c’è Satana il tentatore e perché la vita fino all’ultimo giorno non è conclusa, come non è conclusa questa lotta bella, una lotta di amore – come dicevamo ieri – ma dobbiamo vigilare, essere attenti, non essere superficiali nel modo in cui anche scegliamo, ci comportiamo, pensiamo … non diciamo “ma tanto questo a me non tocca” non diciamolo mai! non diciamo “ma io quel peccato non lo farò mai” … non diciamolo! non diciamo “in questo io sono abbastanza ormai protetto perché ho una vita alle spalle, non mi turba …” non è vero! fino all’ultimo giorno possiamo essere turbati e tentati da quella cosa che vediamo, da quella parola che ascoltiamo, da quell’incontro con ciò che contraddice Dio che facciamo, sempre lo possiamo … non siamo superficiali, non siamo presuntuosi! chi presume di sé, tradisce … prima o poi … chi presume, tradisce! Ricordiamocelo … l’umiltà di chi sa di essere sempre in battaglia.
Giuda esce: Giovanni quando scrive è come se scrivesse lasciando sempre intendere qualche cosa di più ed è così anche in questa situazione, perché Giuda esce da quel luogo nel quale si trovava insieme a Gesù e ai suoi ma esce da quello e da qualche cosa d’altro … esce dall’amicizia, esce dall’intimità, esce dal luogo nel quale viveva la familiarità col Signore. Per tornare a quell’immagine che abbiamo usato iniziando gli Esercizi, esce dall’anello dell’appartenenza, se ne va, lo butta via … ed esce però anche da quella compagnia di amici che fino a quel momento era stata la sua famiglia, la sua casa, gli altri apostoli, la Chiesa: il peccato è sempre l’ingresso in questa terribile solitudine, in cui non troviamo più Dio ma in cui non troviamo più neppure gli altri, rimaniamo terribilmente soli e l’abbiamo tante volte sperimentato, perché il peccato ci rende soli, il peccato è una rottura delle relazioni. Ricordate il primo peccato in Genesi: cosa fa l’uomo? non riconosce più Dio, non riconosce più la compagna, non riconosce più il creato, perché Dio lo spaventa, la compagna è una concorrente, il creato diventa terribile, doloroso, bisogna difendersi, è tutto disarmonico … e io divento solo …
Ma insieme a questo dice Giovanni che era notte: certamente era notte, perché era sera e le luci non c’erano più, però era notte dentro …. addirittura Agostino commentando questa pagina di Giovanni dice che non solo era notte, ma lui era diventato notte – riferendosi a Giuda – perché il peccato rende la vita più brutta, lo dobbiamo dire una volta per tutte a noi stessi: il peccato non è una cosa bella, il peccato è una cosa orribile, il peccato è l’esperienza più triste che possiamo fare nella vita, non è un’esperienza gioiosa. Noi viviamo in una cultura per la quale ci viene presentato abilmente il peccato come una cosa bella: non è vero per niente! il peccato è una cosa orripilante! d’altronde l’esperienza ce lo ricorda sempre: ricordate quella pubblicità che metteva insieme il peccato e il gelato, proprio per dire che il peccato è una cosa bella … lasciamo che il mondo la pensi così, ma noi no! il peccato è brutto, non lasciamoci confondere la mente e il cuore, anche perché Satana vuole proprio questo: la tentazione è farci vedere in quell’azione, in quel comportamento qualcosa di gradevole per la mente e per il cuore e poi … ci svegliamo, soli e nell’oscurità, avendo capito che quello che ci pareva così gradevole in verità è sgradevolissimo …
Diceva un grande convertito della nostra terra, Cristoforo Bonavino, un sacerdote che ad un certo punto della vita uscì malamente di strada, anzi lasciò il sacerdozio, e poi fu recuperato dal suo Arcivescovo che piano piano lo riportò nella Chiesa. Alla luce dell’esperienza fatta, del cammino compiuto scrisse: “Mi sono accorto che il mondo promette le rose e poi lascia sempre le spine, Dio invece promette le spine ma dona sempre le rose”. Ecco la realtà del peccato e della grazia messi a confronto.
Appendice
Terminata la parte narrativa Giovanni conclude con una appendice importante perché non è soltanto la conclusione, ma anche un criterio di lettura di tutto l’episodio, che in fondo ci riconduce all’inizio, perché Gesù accenna alla glorificazione di sé davanti a Dio. Gesù ha cominciato dicendo che proprio a motivo di quello che sta capitando gli apostoli crederanno, capiranno chi egli è, scopriranno il suo volto; adesso Gesù termina dicendo ancora qualcosa di simile, perché afferma “quando questo si sarà compiuto io sarò glorificato, innalzato, saprete chi sono”. Allora tutto il senso di questo brano è qui: in questo dramma terribile del peccato ecco la grazia nascosta, scopro chi è Dio attraverso l’esperienza del perdono e della misericordia. San Francesco di Sales ha diversi testi raccolti in un volume che porta questo titolo e fa proprio sintesi delle parole di Francesco di Sales e dei suoi insegnamenti, si intitola “L’arte di trarre profitto dai nostri peccati”: potremmo dire che questa pagina del Vangelo di Giovanni si intitola così, l’arte di trarre profitto dai nostri peccati, ce la lascia il Signore, ce la dona lui, ci dice “dal tuo tradimento puoi trarre profitto, ricavarne grazia …”.
Due ulteriori riflessioni
- la parola adulterio, con la quale la scrittura quasi sempre definisce il peccato: già con l’antico popolo e poi nel nuovo testamento questa è la realtà che viene identificata, cioè l’adulterio è il peccato, il peccato è adulterio, perché la realtà più profonda del peccato si realizza nell’amore tradito, ecco perché il simbolo dell’adulterio, perché il peccato è preferire altri amori all’amore di Dio, altri amori all’unico vero grande primo amore della nostra vita,ancora una volta per legare l’esperienza del peccato alla realtà dell’amore, che è importante.
- il peccato che ha origine in noi – che siamo poveretti, finiti, limitati – ha però una destinazione infinita, cioè Dio, e questo è il motivo per cui noi da soli non possiamo salvarci, perché è un atto infinito in qualche modo il peccato e noi siamo finiti. Questo è un rilievo importante, perché noi tante volte vogliamo salvarci da soli e pensiamo di poter con le nostre forze rimediare al nostro peccato, non cadere nella colpa … no, così è impossibile, dal peccato non ci salviamo da soli, perché dal peccato ci salva soltanto la grazia di Dio, non noi.Finché pretendiamo di salvarci da soli noi continuiamo a sbattere la testa contro il muro della nostra povertà e il peccato rimane realtà radicata nella vita, non ci salviamo da soli, e la grazia di Dio si serve della Chiesa per salvarci e dunque di quel volto umano di cui abbiamo bisogno. Perché c’è la confessione? perché è il segno che non possiamo salvarci da soli ma che dobbiamo affidare la vita a Dio attraverso un altro. A volte abbiamo fatto questo ragionamento: “ma no, questo aspetto me lo arrangio da solo, poi aspetto che vada meglio, poi magari ne parlo”. Questo è l’inganno di Satana, che sa che noi da soli non possiamo salvarci, non possiamo venir fuori dal peccato nel quale siamo rimasti imprigionati, abbiamo la necessità di darlo perché qualcun altro ci salvi. A livello sapienziali i padri del deserto dicevano spesso, attraverso anche dei racconti molto semplici, che finché il male non l’ho preso nella mano e consegnato ad un altro da questo male non mi sono liberato, è il segno di una salvezza che non possiamo darci ma che ci viene donata, ricordiamocelo …
Concludiamo rimanendo dentro questa oscurità, questa galleria oscura, questo abisso della nostra povertà, ma illuminati dalla luce: c’è un’oscurità, è il nostro peccato, ma c’è una luce, è la misericordia di Dio; c’è un abisso, è il nostro male, ma c’è un abisso ancora più grande, che è l’amore di Dio per noi.
LITURGIA DELLE ORE – VESPRI
Lettura breve: Gc 4,11-12
Questa mattina, aiutati dalla Parola di Dio, abbiamo ritrovato un principio importante non soltanto relativo alla nostra vita personale, ma anche soprattutto alla nostra vita comune, al nostro stare insieme nella carità: questo principio è il principio della misericordia, cioè quella capacità di perdonarsi in anticipo reciprocamente la povertà che ciascuno di noi porta con sé, la povertà che ciascuno di noi è. Solo partire da questo sguardo perdonante possiamo vivere nella carità, crescere nella comunione fraterna.
Quest’oggi la Parola del Signore ci aiuta a sottolineare un secondo elemento tanto importante del nostro stare insieme nella carità, ovvero l’uso della parola. San Giacomo – lo sappiamo – è molto esigente e forte su questo, perché arriva a dire che la parola uccide; è forte quello che ci viene detto, noi non siamo forse abituati a considerare questo aspetto dell’uso della parola, ma quando una parola mortifica, quando una parola fa male, quando una parola è cattiva in fondo questa parola diventa una parola un po’ omicida, perché un po’ uccide il cuore del fratello.
Conosciamo tutti probabilmente un aneddoto della vita di San Filippo: una donna andò a confessarsi da lui e gli disse che aveva mormorato, e dato che questo peccato si ripeteva – perché tutte le volte che questa donna andava a confessarsi ritornava la confessione, con pentimento anche sincero, però sempre di questa colpa – Filippo ne inventò una delle sue e disse: “Per penitenza questa volta farai così: vai per le vie del centro di Roma con un pollo in mano e comincia a spennarlo e poi torna da me”. La donna un po’ confusa disse: “Va bene, padre Filippo, farò quello che lei ha detto”. Andò e cominciò a passeggiare per le vie del centro di Roma spennando il pollo, poi quando ebbe finito tornò da Filippo e Filippo le disse: “Adesso, per favore, vai a raccogliere tutte le penne che hai sparso per il centro di Roma”, e la donna capì … capì che quelle parole in libertà che lei diceva che non si sapeva dove andavano a finire e non si potevano più riprendere e portare indietro, ma erano sparse, e il male che avevano fatto l’avevano fatto e forse continuano a farlo. Ecco, le nostre parole sono come penne al vento, che noi neppure sappiamo dove vanno a cadere … sono penne al vento che vanno a toccare i cuori facendo loro male.
Se c’è un secondo grande principio della vita fraterna in comune è proprio questo: l’uso della parola non per uccidere, ma per dare vita; non per mortificare, ma per edificare; non per far del male, ma per fare del bene. Noi dovremmo pensare che, se la Parola di Dio è in noi, il fatto che dalla nostra bocca possano uscire parole cattive è una contraddizione terribile, che tra l’altro ci rivela che la Parola di Dio non abita nel nostro cuore, perché se davvero la Parola di Dio abitasse nel nostro cuore ogni nostra parola ne sarebbe un’eco e quindi sarebbe parola di vita, parola buona, parola di amore, parola che sostiene, che consola, che aiuta, che edifica e che dà vita e forse a volte corregge, ma per amore e con amore. Pensiamo a questa relazione tra la Parola di Dio e la parola umana: se la Parola di Dio è in noi, la nostra parola umana non può che essere fonte di vita; ma se la Parola di Dio non è in noi, allora purtroppo la nostra parola umana diventa e può diventare sorgente di morte. Chiediamo la grazia di poter sempre portare sulle labbra parole di vita, eco della parola buona che è la Parola di Dio.
Può accadere comunque purtroppo che ci venga di ascoltare una parola che ci rattrista, che ci fa male, che ci umilia … quando siamo insieme e viviamo insieme è così. Un giorno un giovane monaco andò dal suo abate e gli disse: Padre abate, ho bisogno di un consiglio per vivere la vita con i miei fratelli, perché ho qualche difficoltà …” e l’abate gli rispose molto semplicemente così: “Abbi un buon cuore e insieme una pessima memoria”, perché non dobbiamo ricordare le cose cattive, non dobbiamo custodire nel cuore le parole che ci hanno fatto male, non dobbiamo coltivare il risentimento per la sorella e il fratello che ci ha colpito. Una pessima memoria è un segno di un cuore buono, capace di passare oltre, di perdonare, di far finta di niente, di cancellare soprattutto.
LITURGIA DELLE ORE – COMPIETA
Prima di affidare alla Madonna le ore della notte – ricordando che, come dice il salmo, “anche di notte il cuore ci istruisce” nella misura in cui custodiamo nel cuore la Parola che il Signore ci ha donato e ha seminato – vogliamo un momento fermarci su un aspetto della nostra vita quotidiana e lo faremo in queste serate che vivremo insieme. Si tratta di alcuni gesti, che ogni giorno compiamo, e che può capitare l’abitudine renda meno significativi e belli. Mi riferisco a quelli che Guardini, un grande teologo del secolo scorso, chiamava i santi segni, cioè quei segni che per noi che viviamo ogni giorno la liturgia sono particolarmente consueti e, proprio perché consueti, rischiano anche di diventare meno ricchi di significato per noi. Quando Guardini parla dei santi segni dice “santi” con avvedutezza, cioè i segni sono santi quando sono una finestra aperta sul mondo di Dio, cioè quando i segni mettono in comunicazione la terra con il cielo, se il segno non è comunicazione tra terra e cielo non è un segno santo e dunque non è un segno che val la pena di vivere. Noi siamo immersi ogni giorno in segni santi, che la Chiesa ci dona perché ci mettano in collegamento col cielo, perché operando questi segni noi anzitutto viviamo in rapporto col cielo e nello stesso tempo attraverso questi segni noi possiamo aiutare gli altri a porsi in collegamento col cielo.
Vediamone uno che durante la giornata tra l’altro compiamo tante e tante volte: il segno della croce. Ci è abituale sin dall’inizio di una giornata e ci accompagna fino al momento conclusivo. È chiaro che un segno per essere santo deve essere fatto bene, e chissà se questo segno che ogni giorno tante volte compiamo lo facciamo proprio così bene, anche esternamente, con la consapevolezza di farlo, con la gioia di farlo; ma soprattutto questo è un segno che ci richiama una realtà importante della vita: noi tracciamo la croce – che viene a toccare la mente, il cuore, le spalle – ricordandoci che la mente deve rimanere segnata dalla croce di Gesù, il cuore deve rimanere segnato dalla croce di Gesù, le nostre spalle devono rimanere segnate dalla croce di Gesù, come a dire che l’intelligenza deve pensare attraverso la croce di Gesù, il cuore deve amare attraverso la croce di Gesù, le spalle devono operare attraverso la croce di Gesù. San Pier Giuliano Eymard a proposito dell’Eucaristia ha detto che noi dobbiamo arrivare a pensare attraverso l’Eucaristia: questo possiamo applicarlo anche alla Parola – perché dobbiamo arrivare a pensare attraverso la parola di Dio – e anche al segno della croce: dobbiamo arrivare a pensare, amare e operare attraverso la croce di Gesù, cioè la croce di Gesù è la lente attraverso cui pensare, amare e operare, non c’è un altro criterio, un altro punto di vista, un altro punto di partenza, non c’è un altro criterio di vita.
Allora proviamo a ricordare, quando noi compiamo questo gesto, se davvero tracciandolo sulla nostra mente desideriamo che l’intelligenza pensi attraverso Gesù crocifisso, chiediamoci se davvero vogliamo che il nostro cuore ami attraverso Gesù crocifisso, chiediamoci se davvero vogliamo che il nostro operare sia attraverso Gesù crocifisso. Ecco il segno santo, che ci mette in comunicazione con il cielo e con il mondo di Dio. Questa sera andando a dormire facciamo in modo che sia l’ultimo gesto e compiendolo ricordiamo: ecco l’intelligenza segnata dalla croce, il cuore segnato dalla croce, le spalle segnate dalla croce, perché tutto in me e tutta la mia vita passi attraverso la croce, venga segnata dalla croce, porti il marchio della croce, che poi è salvezza, è dono di se stessi, dono senza riserve, amore, perché la croce è proprio questo.
Ci diamo la buona notte con un episodio: un giorno un artista dipinse un quadro molto bello, raffigurava Gesù che aveva in mano un libro, evidentemente simbolo del libro dei Vangeli. Su queste pagine aperte del libro vi era una scritta però incompleta: io sono la via, la verità e la via. Quando questo dipinto fu inaugurato ricevette molti complimenti da coloro che erano presenti, però un amico dell’artista dopo gli si avvicinò e gli chiese: “Scusa la domanda … perché hai lasciato incompleta quella frase … da ignorante … non potevi scrivere più piccolo o fare il libro più grande?”. E l’artista gli rispose: “Hai ragione, però io l’ho fatto con un perché, perché volevo che chi guarderà questo libro con questa frase incompleta si ricordi questo: che la vita piena la si trova soltanto quando si volta pagina”. Questo può essere vero in rapporto all’eternità che ci attende, ma è vero anche nel contesto del cammino che viviamo: la vita vera la troviamo soltanto se siamo capaci di voltare pagina, sempre, altrimenti la vita rimane a metà, l’esperienza della pienezza è un’esperienza che non si realizza. È soltanto quando abbiamo questo coraggio, cammin facendo, di voltare pagina e quindi compiere un passo ancora in avanti che la vita piena diventa esperienza per noi. Andiamo a dormire portandoci nella mente e nel cuore questa immagine, il libro con la scritta incompiuta, e diciamo a Gesù: “Senti, io voglio voltare pagina, perché la pienezza della tua vita la desidero proprio tanto!”.
LITURGIA DELLE ORE – LODI MATTUTINE
Lettura breve: 1 Gv 4, 14-15
In questi giorni alle Lodi e ai Vespri con l’aiuto della Parola che il Signore ci rivolge stiamo individuando e ricordando alcuni aspetti importanti del nostro vivere insieme, della nostra vita in comunità, delle nostre relazioni fraterne.
Dopo aver ricordato quel perdono reciproco che è a fondamento del nostro stare insieme in Gesù, dopo aver ricordato l’importanza della parola in questo stare insieme secondo la carità, oggi S. Giovanni ci ricorda un altro aspetto: l’importanza di confessare insieme che Gesù è il Salvatore, che Gesù è il centro del cuore della nostra vita, confessarlo insieme, cioè aiutarci a non perdere di vista che questo è il centro di tutto, questo è il motivo per cui noi viviamo insieme, questo è il cuore della nostra vita comune. In questo dobbiamo aiutarci ogni giorno a crescere: ciascuno di noi porta il proprio contributo, perché più ciascuno cresce in questa centralità con Gesù, più aiuta gli altri a crescere in questa stessa centralità con Gesù; nella misura in cui invece ciascuno di noi si rende più mediocre e raffredda questa sua centralità sul Signore, così rende più mediocre e raffredda tutti quanti gli altri.
I Padri del deserto hanno questo apoftegma: un monaco si reca da un altro monaco e gli domanda come mai nella vita monastica succede che alcuni ad un certo punto del cammino se ne vadano. L’altro monaco gli risponde così: “Tu devi paragonare la vita monastica a un cane che rincorre una lepre. Quando un cane vede la lepre comincia a correre e ad abbaiare e allora insieme a lui anche altri cani cominciano a correre e ad abbaiare verso la lepre e se ne aggiungono altri. Ad un certo punto però molti di loro non vedono più la lepre e lungo la corsa un po’ alla volta se ne vanno per un’altra strada, non sanno il motivo per cui corrono, non sanno il motivo per cui abbaiano, e allora se ne vanno, lasciano la corsa. Rimangono soltanto quelli che vedono la lepre, quindi sanno il motivo per cui corrono e il motivo per cui abbaiano”. E conclude questo monaco: “La vita monastica è così: molti la lasciano perché hanno perso di vista il centro e il cuore della loro vita, non sanno più in verità verso chi corrono e per quale motivo stanno vivendo”.
Una grande carità fraterna è ricordarci a vicenda per Chi stiamo vivendo, verso Chi stiamo correndo, perché è facile nella nostra vita perdere di vista il cuore e il centro. Dobbiamo ricordarcelo a vicenda, dobbiamo aiutarci a vicenda, dobbiamo sostenerci a vicenda in questo, riportandoci gli uni gli altri al cuore della nostra vita, al perché e ancora meglio al per Chi sto vivendo, per Chi sto soffrendo, per Chi sto gioendo … Ricordiamoci a vicenda questo, con la parola e con la vita. Cresceremo insieme nell’appartenenza al Signore e avremo una grande carità reciproca proprio nell’essere gli uni per gli altri memoria viva di Gesù, il “Chi” della nostra vita.
PRIMA MEDITAZIONE
La tentazione
Poco alla volta risa