Incontro con il Serra Club – Centro (184).
Conferenza.
Genova
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L’accostamento tra cultura, fede e morale che il titolo del nostro incontro ci invita a fare è molto interessante. E’ un accostamento che dice relazione e, aggiungo, relazione vitale. In questo senso non è facile comprendere i tre termini della questione se non considerandoli nel rapporto vicendevole cha hanno uno nei confronti dell’altro. Questo è esattamente quanto desideriamo cercare di fare. Mia intenzione, infatti, è considerare il significato proprio di cultura, fede e morale per vederne poi la relazione reciproca e vitale. Senza tralasciare qualche applicazione alla nostra vita. Mi sia consentito solo una piccola modifica al titolo. Parto, cioè, dalla considerazione della fede, per soffermarmi poi sulla cultura e andando a concludere con qualche breve annotazione intorno alla morale. E’ una modifica di poco conto: si tratta di cambiare l’ordine dei termini che ci interessano. Ma penso ci potrà essere di aiuto a vedere meglio quella relazione vitale cui si accennava poc’anzi.
La fede
Quando parliamo della fede la possiamo considerare sotto un duplice punto di vista. La fede infatti la si definisce come “fides quae” e come “fides qua”. Che cosa intendo dire? Per “fides quae” – per essere completi dovremmo dire “fides quae creditur” – si intende la fede nei suoi contenuti: è, per dirla in altre parole, la fede che noi crediamo, l’insieme delle verità a cui diamo l’assenso con la nostra intelligenza. Per “fides qua”, invece, – e anche qui per essere completi dovremmo dire “fides qua creditur” – si intende la fede come atteggiamento del cuore credente che vive con illimitata fiducia il rapporto con Dio.
Ma consideriamo ora più da vicino quella che abbiamo definito “fides quae”. Ne abbiamo parlato come di quella fede che si esprime nelle verità cristiane a cui fermamente diamo assenso con la nostra intelligenza. Si potrebbe dire che questa è anche la fede che trova formulazione appropriata nel Credo, da noi recitato durante la Messa domenicale. Lì, infatti, sono contenute esattamente le verità che siamo chiamati a credere.
Quale applicazione alla vita ci è possibile fare, mentre consideriamo la fede in questa prospettiva, soprattutto in un tempo liturgico particolare quale è quello dell’Avvento? Mi pare che l’applicazione trovi significativa formulazione in un interrogativo: qual è il nostro atteggiamento nei confronti delle verità della nostra fede, così come ci sono proposte dalla Parola di Dio e dal Magistero della Chiesa? La qualità della nostra fede, da questo punto di vista, la misuriamo a partire dalla forza del nostra assenso all’insegnamento del Signore e dalla fedeltà con la quale, questo stesso insegnamento, lo pratichiamo nella ordinarietà della vita. Non possiamo non riconoscere, al riguardo, che spesso ci troviamo nella situazione di coloro che non cercano di adeguare se stessi alla verità ascoltata, ma cercano di adeguare la verità ascoltata a se e stessi. Ed è proprio questo atteggiamento che contraddice la fede, quella che abbiamo definito “fides quae”.
Tutti noi, in un modo o nell’altro, siamo tentati oggi di dare alla fede una connotazione privatistica: quasi che essa fosse un prodotto di consumo possibile da usare a nostro piacimento e nella misura in cui corrisponde a quanto sentiamo essere conforme ai nostri desideri. Ma un tale atteggiamento nei confronti della fede è esattamente la morte della fede. Che non è disponibile ai nostri capricci, ma si propone a noi come verità che salva, e che salva nella misura in cui vi si aderisce con la disponibilità anche a cambiare punto di vista e comportamento conseguente. Quante volte affermiamo, anche in questioni che riguardano la fede: “secondo me”. Ma dobbiamo ricordare che questo “secondo me” non è autenticamente cristiano se non è capace di confrontarsi umilmente e sinceramente con la verità di Cristo e se non è capace anche di mutare se stesso in conseguenza del confronto con questa stessa verità. In una parola: noi siamo persone di fede se ci impegniamo giorno dopo giorno ad aderire con la nostra intelligenza alla verità che il Signore ci rivela e, quindi, a praticare nella vita questa stessa verità rivelata.
Mi pare che, a questo punto, si possa aggiungere anche un’altra considerazione. Siamo proprio sicuri di avere una conoscenza adeguata dei contenuti della nostra fede? Mi chiedo se non sia urgente e opportuno un approfondimento di ciò in cui crediamo. Anche perché mi chiedo se ciascuno di noi, in tutta tranquillità, può dire di essere pronto a rendere ragione della propria fede di fronte al mondo; a un mondo come quello in cui viviamo, che è sempre più esigente nel chiedere spiegazioni e approfondimenti circa il perché della fede. Da questo punto di vista mi domando se non sia urgente, da parte di noi cristiani, una maggiore familiarità con quei testi che presentano in modo ordinato e organico la dottrina cristiana: penso, ad esempio, al Catechismo della Chiesa Cattolica. Chi di noi l’ha letto con attenzione e ne ha fatto oggetto di riflessione accurata? Non è strano ritrovarsi poco interessati ad approfondire il contenuto di ciò in cui crediamo? Eppure, a volte, diamo proprio l’impressione di avere poco interesse e di professare il Credo senza sapere molto di quello che diciamo, e senza neppure preoccuparci granché di ciò che le nostre labbra dicono.
Mi pare, allora, che il tempo dell’Avvento, in quanto tempo forte dell’anno liturgico, ci presenti tre piste di impegno riguardo al tema della “fides quae”: l’impegno, anzitutto, a prendere sul serio la verità di Dio e a uniformarvi la nostra vita; l’impegno a non privatizzare la fede, ma a rapportarsi a essa come a qualcosa da considerare integralmente e cui saper piegare anche il proprio punto di vista; l’impegno, infine, ad approfondire quello in cui crediamo.
Ma è ora tempo di parlare della “fides qua”, di quella fede nella quale si esprime l’atteggiamento fiducioso con cui il credente si rapporta a Dio. Qui non viene interpellata tanto l’intelligenza quanto piuttosto la volontà. Anche in questo ambito della fede molteplici possono essere le applicazioni alla vita. Facciamone qualcuna.
La “fides qua” nasce sulla base di una grande fiducia che si ha in Dio e nel suo amorevole disegno di amore per noi. Il Vangelo ha espresso questo atteggiamento interiore di fiducia grazie all’immagine del bambino e del figlio. In effetti non vi è immagine più suggestiva per dire l’abbandono di una creatura nelle mani di un altro. Il bambino è proprio colui che abbraccia il genitore e lascia via ogni preoccupazione. Sa, infatti, che il genitore penserà a tutto e penserà a tutto per il suo bene. Questo stesso atteggiamento è richiesto a noi, ed è esattamente la “fides qua”.
Conseguenza tipica di tale situazione interiore è la capacità di adesione alla volontà di Dio. Perché aderire alla volontà di Dio? Proprio sulla base della fiducia che si ha in lui, nel suo amore, nella sua provvidenza a nostro favore. Che cosa vi può essere di più bello per l’uomo dell’adesione generosa al volere del Signore? Proprio perché il Signore altro non vuole per noi se non il bene più grande e vero.
Vogliamo un esempio di “fides qua”? Eccolo: è l’esempio della Madonna, che volentieri ricordiamo in questi giorni di novena che ci separano dalla solennità dell’Immacolata. Maria è l’esempio più significativo di abbandono fiducioso in Dio e di adesione puntuale e fedele alla sua volontà. Guardiamo a lei, in occasione dell’Avvento di quest’anno! Guardiamo a lei per imitarla, guardiamo a lei per apprendere l’arte della “fides qua”. Il Papa, nel mese di ottobre, ha donato alla Chiesa una lettera molto bella sul Rosario. Penso che il Rosario sia una vera e propria scuola di abbandono fiducioso alla volontà di Dio al seguito della Madonna. Così vediamo di recitarlo, di cominciare a recitarlo, di iniziare a recitarlo mettendoci alla scuola di Maria nel tempo dell’Avvento.
Ecco, allora, anche riguardo al quella che abbiamo chiamato “fides qua”, alcuni impegni molto semplici e concreti che possono caratterizzare il periodo che stiamo vivendo. Anzitutto l’impegno a vivere da figli amati il rapporto con il Signore. L’impegno, poi, ad aderire con sempre maggiore fedeltà alla volontà di Dio. L’impegno, infine, a metterci alla scuola di Maria, con l’aiuto del Rosario, per imparare sempre meglio l’arte dell’abbandono alla volontà di Dio.
Compiamo ancora un passo in avanti. Quanto abbiamo fin qui affermato necessita di un ulteriore approfondimento. Si tratta di puntualizzare il rapporto esistente tra fede e religione.
Spesso, infatti, cadiamo nell’errore di identificare queste due realtà che, invece, non devono essere identificate. Perché?
Quando parliamo di religione siamo soliti intendere lo sforzo fatto dall’uomo per entrare in relazione con il mondo del divino: un mondo sentito come necessario e senza del quale si avverte che è impossibile vivere. Ecco, allora, le moltissime manifestazioni del fenomeno religioso che si susseguono nel corso della storia. In questo senso sono religioni quelle che tutti conosciamo: pensiamo, ad esempio, all’Islam. E’ giusto dire che il cristianesimo è una religione? Non del tutto. Infatti, il cristianesimo non è tanto il frutto di una ricerca che l’uomo porta avanti riguardo a Dio, ma è piuttosto la conseguenza della ricerca che Dio fa dell’uomo. Il Natale che presto celebreremo ci aiuta a comprendere meglio quanto andiamo dicendo. Natale è il giorno nel quale i cristiani celebrano la venuta del Figlio di Dio nel mondo: ecco Dio alla ricerca dell’uomo. Così il cristianesimo è fede, cioè risposta alla chiamata che Dio porge all’uomo. Ascoltiamo, in proposito quanto il Santo Padre Giovanni Paolo II ha scritto nella Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, in preparazione al Giubileo dell’anno 2000: “Tocchiamo qui il punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni, nelle quali s’è espressa sin dall’inizio la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nel cristianesimo l’avvio è dato dall’Incarnazione del Verbo. Qui non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all’uomo e a mostragli la via sulla quale è possibile raggiungerlo…Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità: questo compimento è opera di Dio e va al di là di ogni attesa umana. E’ mistero di grazia…In tal modo, Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso, ne è l’unico definitivo approdo” (n. 6).
E’ una pagina molto bella del magistero di Giovanni Paolo II e ci suggerisce per lo meno due pensieri. Anzitutto la gioiosa consapevolezza che la nostra fede si distingue da ogni altra forma religiosa per il fatto di non essere costruzione umana, bensì dono di Dio. E qui sta la forza avvincente della sua verità. Di conseguenza, ed è questo il secondo pensiero, il desiderio che ciascuno di noi è chiamato a coltivare di annunziare sempre e a tutti la verità del Vangelo, considerato come una vera e propria grazia per la salvezza e la felicità autentica di ogni essere umano. Sembriamo, a volte, così apatici, spenti, quasi timorosi di presentarci con la nostra identità e di testimoniarla sempre e ovunque. Vivere con autenticità la fede significa riscoprirne tutta la bellezza, nella qualità di grazia di Dio che salva la vita dell’uomo.
Siamo consapevoli, gioiosamente, che Gesù Cristo è l’unico salvatore del mondo?
Concludo quanto ho affermato sulla fede facendo cenno a una problematica che è tipica del nostro tempo. Mi riferisco alla difficoltà, che sovente abbiamo tutti, a coniugare la fede con la vita, quasi che fossero due realtà separabili e separate. Si tratta di un vero e proprio dramma che mina al cuore la fede cristiana. Quante volte releghiamo l’esperienza della fede a un fatto che riguarda il momento specifico della partecipazione alla vita della chiesa, alla preghiera personale e comunitaria, all’incontro del gruppo cui apparteniamo. Ma poi, nella vita di tutti i giorni, quella stessa fede non ha più nulla da dire o da dare, tanto che neppure quasi si riconosce che siamo cristiani. E invece, la fede è autentica nella misura in cui è capace di essere alla base di un nuovo stile di vita che riguarda ogni aspetto dell’impegno quotidiano della persona. Così la fede ispira il modo di pensare, di giudicare i fatti della propria esistenza e della storia attorno a noi, di comportarsi nelle più diverse circostanze della giornata: dal lavoro, allo studio, dal divertimento allo svago, dalla vita in famiglia al rapporto con gli altri, dal modo di considerare la società all’impegno a costruire la città dell’uomo. Tutto, proprio tutto, insomma, discende dalla fede e determina un nuovo modo di vivere: quello cristiano.
Cultura
Quanto abbiamo ora accennato ci introduce nel secondo termine che siamo chiamati a considerare: cultura. Come per la fede, anche quando parliamo di cultura possiamo intendere una duplice dimensione della stessa. Infatti per cultura intendiamo, certamente, l’aspetto più propriamente intellettuale del vivere umano, quello che ordinariamente chiamiamo culturale in senso stretto, ossia l’insieme del sapere in ogni suoi aspetto e che caratterizza la crescita intellettuale della persona. Ma per cultura intendiamo anche quel complesso di valori a partire dai quali la persona organizza i propri comportamenti, i propri stili di vita, il proprio essere nel mondo.
Una parola la vogliamo dire a proposito di entrambe queste dimensioni del fenomeno culturale, soprattutto per il rapporto che queste assumono nei riguardi della fede. Se per cultura intendiamo lo sforzo dell’intelligenza umana per sapere e sapere sempre di più, la fede non teme la cultura. Anzi la sostiene, se ne serve, la stimola. Infatti non vi può mai essere contraddizione tra il sapere autentico della ragione umana e quel sapere che è proprio di Dio e che si chiama rivelazione. Così fede e cultura, nella prospettiva cristiana, non possono che essere fedeli alleate in vista di una sempre maggiore comprensione del mistero di Dio e del mondo. Ciò che è vero non può mai contraddire Dio, verità e sorgente di ogni verità.
Se per cultura, invece, intendiamo un patrimonio di valori in virtù del quale l’uomo organizza la propria vita dobbiamo affermare due cose. Anzitutto che la fede non può che farsi cultura, cioè diventare criterio ispiratore di un nuovo modo di vivere e, dunque, riferimento per un modo originale di organizzare la propria esistenza nel mondo. In questo senso “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non intermente pensata, non fedelmente vissuta” (Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 59). E così torniamo a quanto affermato poc’anzi. Non è pensabile una fede che non abbia a esercitare influsso decisivo sulla vita. Non è pensabile una fede che non sia capace di generare cultura, cioè un nuovo modo di rapportarsi agli altri, alle cose, al mondo circostante. Eppure questo è un grave rischio del nostro tempo, del nostro modo di essere cristiani oggi. Affermava Paolo VI che la rottura tra vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca. E’ il dramma nostro, che non sappiamo più far discendere dal Vangelo, dalla fede, un nuovo e originale modo di stare nel mondo. Ci ritroviamo omologati a tutti gli altri.
Ma allora dove sta la fede come principio di una vita nuova, di una nuova cultura?
E, d’altra parte, se è vero che le fede di suo genera cultura è anche vero che la fede entra dentro ad ogni cultura con la quale si incontra, ne assume ciò che è positivo e purifica ciò che vi trova di negativo. Questo fatto che è stato così evidente, ad esempio, agli inizi della storia cristiana, è ancora oggi chiaro? Pensiamo all’incontro che il cristianesimo ha avuto con la grande cultura greca e con la grande cultura romana. In queste culture il cristianesimo è entrato dentro, ha fatto proprio ciò che di positivo vi era e ha purificato quanto di negativo vi sussisteva. E ne è venuta fuori la grande cultura cristiana dei primi secoli della vita della Chiesa. Oggi questo fa fatica a trovare realizzazione. Nell’incontro con la modernità il cristianesimo non ha ancora operato quanto riuscì a operare agli inizi della sua storia.
Mi pare allora che si pongano due gradi questioni, ora di ordine personale e non più generale. Ciascuno di noi, infatti, è chiamato a ritrovare in se stesso l’alleanza tra fede e cultura. Questa alleanza siamo chiamati a ritrovarla soprattutto in una rinnovata capacità di far discendere dalla fede i criteri per vivere la nostra ordinarietà. Non è più possibile vivere su sue piani diversi, quasi sconosciuti, fede e vita. La fede deve ritornare a ispirare la vita in ogni suo aspetto e dimensione. In tal modo ritroveremo la feconda alleanza tra fede cultura, in tal modo la fede diventerà di nuovo sorgente di una cultura originale e propria, in tal modo la fede sarà capace di assumere il positivo che c’è nella modernità e, insieme, di criticare a fondo e purificare quanto di negativo vi è nella stesa modernità.
L’Avvento può essere un tempo di grazia anche per prodigarsi in questo impegno. Anche perché, pensiamoci bene, è proprio dalla contemplazione del mistero del Natale che discende la consapevolezza che tutto, ormai, non può che essere vissuto nella luce di Dio. Dio non è più un Dio distante che non ha a che fare con la vita. Dio è un Dio vicino, vicinissimo che è entrato nella vita dell’uomo. E vi è entrato per portarvi la verità della sua parola. Alla luce di questa parola, allora, ogni aspetto della vita umana, assume il suo vero significato. Così alla luce di questa parola siamo chiamati a vivere con pienezza di senso ogni aspetto della nostra vita.
Morale
A questo punto mi resta da dire qualcosa intorno all’ultimo termine che abbiamo preso in considerazione: la morale. Sarò breve, anche perché molto di quanto era da dire è stato già detto.
Spesso siamo portati a scambiare la fede con la morale. Quasi che la fede si risolvesse in un insieme di norme da osservare, di impegni da assolvere, in un ideale di vita molto nobile cui tendere con tutte le forze. Qualche cosa di vero c’è in tutto questo. Ma l’ottica da cui partire non può che essere diversa. Il cristianesimo, la fede, non è anzitutto questo. Se è questo – e lo è – lo è solo in un secondo momento e come conseguenza di una realtà che viene prima. E la realtà che viene prima è la relazione di amore che Dio vuole stabilire con l’uomo e che l’uomo è chiamato a vivere con Dio. Solo a partire da questa realtà possiamo allora parlare di un insieme di norme da osservare e di un ideale di vita da raggiungere. Insomma, prima c’è una relazione di amore forte che prende per intero la vita e poi, come conseguenza, un particolare modo di comportarsi che discende da quella relazione di amore. Pensiamo a un qualsiasi rapporto di amore umano. E’ a motivo di quest’amore che ci si comporterà in un determinato modo nei confronti della persona amata: è perché le voglio bene che sono pronto ad assumere una serie di comportamenti conformi al bene che dico di volerle. Così vale per la fede: prima vi è il rapporto di amore e poi una serie di comportamenti che altro non fanno se non mettere in pratica l’amore che si dice di avere per Dio stesso. E qui si apre il campo della morale.
Ma o consideriamo la morale in questa luce oppure ne perdiamo di vista la bellezza e la ricchezza. Qual è, in questo senso la bellezza dei comandamenti? E’ esattamente nel fatto che i comandamenti esprimono la volontà di Dio per me, per me che sono in relazione di amore con Dio e del quale, dunque, non posso non amare la volontà e i desideri. Quale nuova luce sul nostro comportamento morale e sulle esigenze che ne derivano! Si avverte che il no a certi comportamenti non è solo il dettato di una legge, pur importante, che mi obbliga; ma che è anche e prima la risposta di amore all’amore di Dio che mi traccia la strada della vita autentica.
In effetti, quando parliamo di morale intendiamo quel complesso di comportamenti che corrispondono alla pienezza della nostra umanità . Solo Dio conosce il vero bene di ciò che siamo. Solo Dio sa ciò che siamo chiamati a essere. Ciò che siamo e ciò che siamo chiamati a essere è scritto nella morale. Così adeguando i comportamenti alla morale cristiana ci adeguiamo alle esigenze più profonde della nostra umanità, mentre quando non ci adeguiamo alla morale cristiana, in verità, ci opponiamo alla nostra vera realizzazione. E’ per questo motivo che, in realtà, il no della morale cristiana a certi comportamenti altro non è che un sì alla pienezza della nostra umanità, un sì alla nostra autentica felicità.
Iniziando la nostra conversazione ho parlato di una relazione vitale tra fede, cultura e morale. Ora che mi avvio a concludere, mi pare che la realtà di questa relazione vitale sia più chiara. All’inizio è la fede, sia come contenuti cui prestare assenso con l’intelligenza, che come atteggiamento pieno di fiducia nei confronti di Dio Amore. Da questa fede discende un nuovo modo di rapportarsi alla vita e, dunque, una nuova e originale cultura. Ed è da questa stessa fede che discende un comportamento morale rispondente alla vocazione dell’uomo a essere sempre più pienamente uomo. All’inizio, dunque, vi è la fede. Ma la fede trova nella capacità a generare cultura e nel comportamento morale un criterio insostituibile di verifica. Senza la fede non si può parlare di cultura cristiana e di morale cristiana: perché solo dal rapporto di amore con Dio che salva discende la possibilità di un nuovo modo di impostare la propria vita nel mondo e l’esigenza di darsi delle norme di comportamento che siano in sintonia con il credo professato. Ma senza la cultura e la morale non si dà una fede autentica e viva. Così ciascuno di noi si senta profondamente interpellato in questo tempo di Avvento a recuperare la relazione vitale che fa di fede, cultura, morale, le espressioni di un’unica grande realtà, quella del cristianesimo. Fede, cultura, morale insieme stanno o insieme cadono. La caduta di una di esse significherebbe la caduta del nostro essere cristiani. Sempre, e soprattutto in questo periodo, vogliamo per noi esattamente il contrario: e cioè dare nuova vita al nostro cristianesimo. E allora impegniamoci, con la grazia di Dio, a essere uomini e donne di fede, di cultura e di morale.