XXVI Corso sul foro interno
Roma, Palazzo della Cancelleria
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Il teatro di una “lotta”
Ogniqualvolta ci si accosta al Rito della Penitenza, si ha come l’impressione di entrare all’interno di un “luogo spirituale” che è teatro di una lotta: una lotta che accompagna la vita del mondo in ogni tempo, una lotta che è la realtà soggiacente ad ogni altra vicenda storica, una lotta che attraversa ogni cuore umano. Pensiamo con quale efficacia e immediatezza si presenta questa realtà nella parabola del padre misericordioso: “Padre, – dice il figlio minore – dammi la parte del patrimonio che mi spetta” (Lc 15, 12). E poco più avanti: “Allora ritornò in sé” (Lc 15, 17). Ecco, il male e il bene in lotta e a confronto.
In realtà non si tratta di una semplice impressione. Il Rito della Penitenza, infatti, è davvero il “teatro liturgico” di una lotta: quella tra Dio e il suo antagonista, tra la grazia e il peccato, tra il bene e il male. E’ una lotta che è già vinta, lo sappiamo, dal momento che in Gesù, risorto da morte e salvatore, il peccato e la morte sono stati annientati una volta per tutte. D’altra parte, in quella vittoria ogni uomo è chiamato a entrare, da quella vittoria ogni uomo deve lasciarsi raggiungere. E questo è quanto avviene, in modo privilegiato, nel Rito della Penitenza che, direbbe santa Caterina da Siena, “è un bagno nel sangue di Cristo”.
Affermava un santo confessore che l’esperienza del confessionale rende evidente al ministro ordinato la presenza scaltra e maligna del nemico di Dio nella storia e nel cammino della vita umana. Allo stesso modo, però, e ancora di più, l’esperienza del confessionale – continuava quel confessore – fa toccare con mano la potenza vincente della grazia di Dio e della sua infinita misericordia.
Ogni confessore è spettatore e, insieme, anche protagonista nel teatro di questa lotta al fine di celebrare, nella gioia della riconciliazione ritrovata, la vittoria di Cristo. Il confessore è in parte spettatore dal momento che vede scorrere davanti a sé frammenti di vita segnati dal male e dalla colpa. Il confessore è anche protagonista perché, dalla parte del Signore Gesù, accompagna alla vittoria il fratello che si era perduto e ha ritrovato la vita. E lui stesso, il confessore, è partecipe in prima persona del mistero di morte e risurrezione di Cristo Salvatore.
Come ricordano opportunamente le “Premesse” al Rito della Penitenza: “Fedele al mandato del Signore, Pietro, a cui il Signore aveva detto: «Ti darò le chiavi del regno dei cieli… e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto nei cieli»… nel giorno della Pentecoste predicò il perdono dei peccati… Da allora mai la Chiesa tralasciò di chiamare gli uomini dal peccato alla conversione, e di manifestare, con la celebrazione della penitenza, la vittoria di Cristo sul peccato” (n. 1). Come è bello questo termine “sciogliere” che il vangelo ci ha lasciato in dono! Riesce a descrivere, in estrema sintesi, l’azione liberante e salvifica che si realizza nel sacramento del perdono: la schiavitù generata dal peccato viene vinta, il legame interiore con il male che inaridisce e mortifica il cuore umano è debellato dalla grazia di Dio. Il confessore in tutto questo, agendo “in persona Christi” e a nome della Chiesa, vive in sé e in comunione profonda con il fratello che ha davanti l’esperienza esaltante dell’aprirsi luminoso del regno dei cieli sulle oscurità del mondo e del cuore umano.
Non essendo possibile, per ovvi motivi di tempo, addentrarsi adeguatamente in tutti e singoli gli elementi che compongono e danno forma al Rito della Penitenza, considerandoli nella loro valenza liturgica, pastorale e spirituale, mi soffermo solo su uno di essi, dedicando poi spazio ad alcuni atteggiamenti virtuosi del confessore e ad alcuni semplici suggerimenti rituali.
La “confessione”
Affermano le “Premesse” al Rito della Penitenza: “Fa parte del sacramento della Penitenza la confessione delle colpe, che proviene dalla vera conoscenza di se stesso e dalla contrizione per i peccati commessi” (n. 6 b).
Tutti noi sappiamo, a motivo del ministero e anche per esperienza personale, quanto sia decisivo questo momento del Rito, al fine di una celebrazione sacramentale oggettivamente vera, efficace e soggettivamente coinvolgente. Al riguardo torna alla mente un bel racconto dei Padri del deserto.
«“Quando ci assalgono i pensieri del maligno, basta che ci atteniamo alla dottrina e alle istruzioni dei santi padri? E’ sufficiente che lottiamo contro la tentazione, o è meglio aprire l’anima a un padre?”: due giovani monaci, seduti sui bassi sgabelli di pietra, dopo aver interrogato l’anziano stavano ora pendendo dalle sue labbra, avidi di ricevere dalle sue parole una risposta alla loro domanda. […]
L’anziano… riprese con vivacità: “A questo proposito voglio raccontarvi cosa mi accadde agli inizi della mia vita nel deserto. Avevo nell’anima una passione violenta che mi dominava talmente da spingermi più volte sull’orlo della disperazione… A quel tempo viveva poco distante da qui il santo abate Zenone… Pensai di andare da lui per essere liberato dal mio male, ma ogni volta che decidevo di andare ad aprirgli il mio animo, il nemico di ogni bene mi insinuava: ‘Perché vuoi andare dall’abate Zenone? Non lo sai anche tu come devi comportarti per superare la tentazione? Non conosci forse la dottrina dei padri?’. E poiché ben sapevo che cosa insegnavano gli anziani, cedevo al suggerimento del maligno. La cosa durò per ben tre anni. La passione imperversava sempre più nel mio cuore e io rischiavo di perdermi… Qualche volta riuscii ad arrivare fino all’anziano, deciso ad aprirgli la mia anima, ma poi il timore e la vergogna mi fermavano le parole sulle labbra… Ma una volta, al termine di uno di questi incontri, mentre ormai mi stavo allontanando sconvolto e pieno di vergogna, l’anziano mi interpellò bruscamente: ‘Cosa hai, dunque? Anch’io sono un uomo!’. Confuso mi gettai ai suoi piedi: ‘Abbi pietà di me, tu lo sai cosa mi tormenta!’. Ed egli: ‘Lo so infatti, ma occorre che sia tu a dirmelo, se vuoi essere guarito’.
Allora finalmente, con il cuore in fiamme, gli manifestai la mia passione. ‘Perché hai aspettato tanto a parlarmene? Ecco sono ben tre anni che vieni da me senza aprirmi il tuo cuore! Credi forse che non sia un uomo come te, che non ti possa capire? Non lo sai che il maligno gode quando teniamo nascoste le nostre passioni? Egli sa bene che una volta confessate con umiltà esse perdono tutto il loro vigore’».
Conosciamo da vicino la fatica di molti – forse anche la nostra, nella veste di penitenti – a confessare la colpa. Fatica derivante a volte dalla vergogna e dalla temuta umiliazione legata alla manifestazione della propria miseria, piccola o grande che sia. Fatica altre volte derivante da una propensione a considerare il sacramento non il luogo della confessione del peccato, quanto l’occasione per dare sfogo, in chiave semplicemente psicologica, alle proprie inquietudini, spesso riversate sul prossimo, quanto a causa scatenante. Fatica derivante ancora dalla difficoltà a trovare, nella propria vita, quanto risulta difforme dalla volontà del Signore. E’ di tutti, in questo senso, l’esperienza dell’incontro con il penitente che apre il proprio cuore affermando: “Padre, mi pare di non aver fatto nulla di male”. Espressione alla quale, a volte, si aggiunge la timida e non sempre del tutto convinta richiesta: “Mi può forse aiutare Lei?”.
Eppure, ne siamo persuasi, “il primo cammino di conversione è la condanna delle nostre mancanze” (PG 49, 263-264), come afferma san Giovanni Crisostomo. Per riportare alla memoria la parabola evangelica citata, è ciò che accade al figlio minore, quando trova il coraggio di ammettere: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15, 18-19). E’ compito nostro, di pastori e confessori, educare il popolo che ci è affidato ad amare la confessione della colpa, a non avere timore di aprire il cuore al fratello cui il Signore ha donato il ministero della riconciliazione, a esaminare con attenzione e serietà la propria vita davanti a Dio e alla sua parola.
Diceva san Francesco di Sales, nel corso dell’ultimo colloquio avuto con le sue monache prima della sua morte, che vi sono due mancanze gravi che si commettono quando si celebra il Rito della Penitenza: scaricarsi e cercare sollievo, più che piacere a Dio unendosi a Lui; non manifestare lo stato reale della propria coscienza. Il santo Vescovo aggiungeva che compito del confessore è anche quello di aiutare i suoi penitenti a confessarsi bene, vincendo questi due grandi difetti (cf. App. F, 18-19).
Con quale premura apostolica conduciamo i nostri fedeli alla pratica assidua dell’esame di coscienza? Con quale sapienza siamo attenti a ricondurre la nostra gente a una pratica della confessione che sia davvero tale e non semplicemente un colloquio e uno sfogo dell’animo? Quanto la nostra amabilità evangelica, segno visibile dell’amore del Cuore di Gesù, sa destare quella fiducia per la quale svanisce ogni timore di aprire il proprio animo senza nascondimenti?
A tale proposito ascoltiamo quanto afferma san Gregorio Magno nella sua Regola pastorale: “Per i pastori è fondamentale possedere quella disponibilità di cuore e quella forza di attrazione, per cui i fedeli non trovano vergognoso aprire loro la coscienza” (Parte II, n. 5). Ci sia di aiuto anche fare memoria di un episodio della vita di san Giovanni della Croce. Una giovane suora temeva molto di aprire il proprio cuore al santo confessore. La fama di santità di Giovanni era per lei un ostacolo alla confidenza. Finalmente, però, un giorno si vinse e si recò dal carmelitano per la confessione. Ed egli, alla giovane che tremava ai suoi piedi, disse: “Io non lo sono; ma quanto più il confessore è santo, tanto più è soave e non si scandalizza dei peccati altrui, perché conosce meglio la misera condizione dell’uomo”.
Vale, forse, la pena anche ricordare quanto era solito affermare san Filippo Neri: “Nel confessarsi l’uomo si accusi prima dei peccati più gravi e dei quali ha maggiore vergogna: perché così si viene a confondere di più il demonio e cavar maggior frutto dalla confessione”. Anche a questo è importante educare.
Mi è tornato alla mente, in questi giorni, quanto Papa Francesco ebbe modo di dire nel luglio 2013 ai seminaristi, ai novizi e alle novizie convenuti a Roma: «Voglio consigliarvi questo: abbiate trasparenza col confessore. Sempre. Dite tutto, non abbiate paura. “Padre ho peccato!” […] Questa trasparenza farà bene, perché ci fa umili, tutti… Dire la verità, senza nascondere, senza mezze parole, perché stai parlando con Gesù nella persona del confessore. E Gesù sa la verità. Soltanto Lui ti perdona sempre! Ma il Signore vuole soltanto che tu gli dica quello che Lui già sa. Trasparenza! E’ triste quando uno trova un seminarista, una suora che oggi si confessa con questo per pulire la macchia; domani va con l’altro, con l’altro, con l’altro: una peregrinatio ai confessori per nascondersi la sua verità. Trasparenza! E’ Gesù che ti sta sentendo. Abbiate sempre questa trasparenza davanti a Gesù nel confessore! » (Incontro con i seminaristi, i novizi e le novizie, 6 luglio 2013).
Atteggiamenti virtuosi del confessore
Le esigenze impegnative anche del solo elemento “confessione” all’interno del Rito della Penitenza, dal punto di vista liturgico e pastorale, ci permettono di intuire quanto si richieda al confessore in termini di spiritualità, quale insieme di virtù capaci di sostenere il ministero del confessionale. Mi limito ad alcuni accenni.
– La preghiera
Nel Rito della Penitenza si entra pregando, lo si vive pregando, lo si conclude ancora pregando. La preghiera, potremmo dire, è la forma di questo rito, come lo è di ogni altro rito sacramentale: dal momento che ogni sacramento scaturisce dall’affidamento che Gesù fa di sé al Padre, in un atto di amore che è la più grande preghiera: “Per loro io consacro me stesso” (Gv 17, 19)
Al ministero del confessionale ci si prepara con la preghiera. Non si può iniziare a celebrare il Rito della Penitenza se non dopo essersi incontrati con il Signore. Sarà quella preghiera a disporre il cuore del confessore a vivere in sintonia con i sentimenti del Cuore di Cristo. E sarà quella preghiera il mezzo per avere cura, già anticipatamente, della vita di coloro che si avvicineranno al sacramento della misericordia. Il confessore, pastore innamorato del suo gregge, presenterà al grande Pastore coloro che presto incontrerà e che avrà il compito di ricondurre, con delicata determinazione, alla casa paterna.
La preghiera sarà il clima nel quale vivere la celebrazione del sacramento: se intendiamo la preghiera anche come quella consapevolezza di fede per la quale il confessore avverte di agire nella persona di Cristo e, dunque, di dover guardare i suoi occhi e il suo volto, perché la sua rappresentanza oltreché oggettiva possa divenire realtà soggettiva della sua vita ministeriale. Quante volte il confessore, durante l’ascolto del penitente, invoca la luce e la grazia del suo Signore per avere nella mente, nel cuore e sulle labbra parole e gesti appropriati a indicare vie di salvezza e di santificazione al proprio fratello!
La preghiera dovrà accompagnare anche la conclusione della celebrazione sacramentale. Il padre non abbandona i suoi figli nel cammino che li attende e che segue il Rito della Penitenza. Su quel cammino il confessore si rende ancora presente con la forza della sua preghiera, con la grazia del suo ricordo orante, che non viene mai meno e che sostiene i passi di chi si è appena rialzato dalla caduta vivendone, di quei passi, la bellezza e la fragilità.
– La penitenza
Nel Rito della Penitenza si entra facendo penitenza, lo si vive facendo penitenza, lo si conclude ancora facendo penitenza.
Tutti ricordiamo lo stile di vita di quel grande confessore che fu il santo Curato d’Ars. La sua fu una vita di straordinaria penitenza. Con la penitenza si preparava al ministero del confessionale, con la penitenza viveva la celebrazione del sacramento, con la penitenza accompagnava quanti aveva condotto all’incontro con la misericordia di Dio.
Vale la pena rinnovare la memoria di quei due episodi che ogni confessore dovrebbe conservare nel proprio cuore, come preciso orientamento per vivere il Rito della Penitenza.
Un confratello sacerdote un giorno chiese al santo Curato il motivo per cui desse penitenze tanto leggere ai suoi penitenti. “Amico mio – rispose il santo – ecco la mia ricetta: do loro una piccola penitenza e il resto lo faccio io”.
In altra occasione, un pentente inginocchiato al confessionale sentì che dalla parte del confessore proveniva il gemito tipico di chi sta piangendo. Allora l’uomo domandò: “Perché piangete, padre mio?” E il Curato rispose: “Amico mio, io piango perché voi non piangete abbastanza”.
Un confessore non può non essere uomo di penitenza. Anche perché il suo agire nella persona di Cristo gli chiede di accogliere nella sua vita quell’espiazione vicaria che è incisa nella sapienza del Crocifisso e che è parte integrante del suo vivere il sacerdozio di Cristo.
– La pazienza d’amore
La parabola del padre misericordioso ci presenta un’immagine molto suggestiva. Riguarda il padre che è stato abbandonato dal figlio minore. La pagina evangelica lo ritrae fermo e immobile sulla porta di casa, quasi a voler rimarcare che quell’uomo è rimasto lì, ad attendere con pazienza fedele il ritorno del figlio dal suo cammino di perdizione. Infatti, si afferma nel racconto: “Quando ancora era lontano, suo padre lo vide” (Lc 15, 20).
Il Rito della Penitenza chiede questa pazienza fedele, capace di non ritenere mai tempo perso il tempo trascorso ad attendere i penitenti. Quante ore, a volte, – è nell’esperienza di tutti – è possibile che si debba attendere in un confessionale l’arrivo di qualche fedele! Eppure, è proprio quella presenza il segno più bello ed eloquente della misericordia di Dio, che sempre si fa disponibile e che sempre spera. Non è tempo sottratto alla pastorale l’attesa del confessionale. E’ pienamente “tempo pastorale”.
Forse potrà essere utile pensare alla presenza fedele del Signore nella SS: Eucaristia. Quante ore Gesù attende la nostra visita! E quante ore Gesù passa nella solitudine di un’attesa che è fedeltà all’amore! Le nostre attese sono fedeltà all’amore sull’esempio di Gesù.
D’altra parte, come diceva un santo vescovo della mia terra di origine – sant’Antonio Maria Gianelli – “il confessionale è il giardino dei sacerdoti”. Quel giardino richiama il paradiso di Dio, la terra nella quale il Signore e i suoi figli ritessono le trame della loro relazione di intimità e di amore. Possiamo allontanarci con superficialità da questo giardino? Lo possiamo lasciare incustodito con leggerezza, così da renderlo inaccessibile a chi desideri entrarvi?
– La parola e il gesto della misericordia
Come ogni rito sacramentale, anche quello della Penitenza è fatto di parola e gesto. Non tutto può essere realizzato dalla parola, non tutto può essere lasciato al gesto. L’insieme di gesto e parola realizzano l’atto sacramentale e conducono a viverlo con frutto spirituale.
Il padre misericordioso della parabola, al ritorno del figlio che si era smarrito, unisce alle parole del perdono e della gioia una gestualità ricca e bellissima: “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15, 20).
Non vi è dubbio: nel Rito della Penitenza parola e gesto devono riuscire a comunicare almeno qualcosa della bellezza dell’amore misericordioso del Signore.
Quante volte una parola può aprire o chiudere la porta di un cuore! Può darsi che in qualche occasione la parola debba pur essere esigente; ma se la sua provenienza sarà quella di un animo di pastore che ama, il penitente la percepirà così, parola vera e, proprio perché vera, gravida della misericordia di Dio. Quante volte un gesto, un sorriso, uno sguardo possono indurre a confidenza o a sospetto e timore, portare all’esperienza bella e liberante della paternità spirituale o a un’equivoca dipendenza affettiva!
Il Rito della Penitenza richiede parole e gesti di accoglienza, parole e gesti tipicamente celebrativi, parole e gesti di congedo. Tutto dovrà consentire al Padre misericordioso di rendersi presente e visibile. Le parole e i gesti del confessore sono come uno specchio, sul quale il penitente deve poter scorgere i tratti della divina misericordia. Dovrà, egli, scoprirsi anche polvere – perché lo è come lo siamo tutti -, ma polvere infinitamente amata.
Come poter vivere questo? Dobbiamo forse ritornare alla preghiera, quale via per rendere anche soggettivamente assimilata e vissuta la verità dell’agire di Cristo in noi nel sacramento. E ricordare ciò che rispose una volta san Giovanni della Croce a chi gli chiedeva quale fosse il segreto della profonda affezione spirituale che gli portavano i suoi penitenti: “E’ Dio che fa tutto – disse il grande carmelitano – e per questo li costringe a volermi bene”.
– La preparazione
Ricordo spesso quanto mi disse un giorno un mio compagno di seminario, mentre si parlava tra noi del ministero che, da lì a qualche anno, avremmo dovuto esercitare nel Rito della Penitenza. Aveva un fratello laureato in Medicina e che svolgeva da alcuni anni la professione di medico. Proprio pensando al fratello mi confidò. “Sai, quando guardo mio fratello, vengo richiamato alla grande responsabilità del mio studio e della mia preparazione. Se mio fratello non solo non avesse studiato con diligenza ma ancora adesso non avesse a cuore il suo aggiornamento, con quale coscienza potrebbe fare il medico? E chi potrebbe rivolgersi a lui con la serena speranza di essere capito e curato nel suo male? Allora penso a me e mi chiedo con quale intensità mi preparo oggi al ministero che sarò chiamato a svolgere domani; e mi domando anche con quale passione dovrò continuare ad aggiornare la mia preparazione, per poter vivere in serena coscienza la mia vocazione di medico delle anime”.
La riflessione del mio amico mi fece riflettere e non l’ho mai dimenticata. E ora qui ve la offro, mettendola in relazione a quanto ebbe modo di affermare il Cardinale Joseph Ratzinger, nella conferenza stampa di presentazione del “Motu proprio su alcuni aspetti del sacramento della Penitenza Misericordia Dei” di Giovanni Paolo II, del 2002.
“I discepoli non sono semplicemente uno strumento neutrale del perdono divino, piuttosto è loro affidato un potere di discernere e così un dovere di discernere nei singoli casi. I Padri hanno visto il carattere giudiziale del sacramento. Al sacramento della penitenza appartengono pertanto essenzialmente due aspetti: da una parte quello sacramentale, cioè il mandato del Signore, che va al di là del potere proprio dei discepoli, ed anche della comunità dei discepoli della Chiesa; dall’altra l’incarico della decisione, che deve essere fondata oggettivamente, quindi deve essere giusta e in questo senso ha carattere giudiziale”.
La preparazione, lo studio, l’aggiornamento di cui si parlava attengono proprio a quello che qui l’allora Cardinale definiva “incarico della decisione”. Con quale coscienza posso decidere di ciò che non so? Con quale tranquillità potrei indicare una via, che deve essere via di salvezza e di guarigione, quando non dovessi conoscere tale via e i mezzi idonei per aiutare a percorrerla?
Non c’è dubbio che la grazia di Dio opera nella mente e nel cuore del confessore come luce che illumina e rischiara, spesso al di là delle doti umane. Ma una tale grazia non esonera certo dal dovere grave della propria preparazione, su ciò che attiene la conoscenza dell’animo umano e delle vie spirituali e morali alle quali quell’animo è chiamato a riferirsi. Così si esprimono le “Premesse” al Rito della Penitenza: “Per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, il confessore deve saper distinguere le malattie dell’anima per apportarvi rimedi adatti, ed esercitare con saggezza il suo compito di giudice; deve inoltre con uno studio assiduo, sotto la guida del Magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, procurarsi la scienza e la prudenza necessarie a questo scopo” (n. 10 a).
– La dimensione ecclesiale
Un aspetto del Rito della Penitenza che sovente non viene percepito nella celebrazione del sacramento e che, senza dubbio, rimane estraneo alla cultura fortemente individualista del nostro tempo, è quello della sua rilevanza ecclesiale.
Per tornare ancora una volta alla parabola evangelica che ci sta accompagnando, la conclusione della sua prima parte, ovvero la ri-accoglienza nella casa paterna del figlio minore dopo lo smarrimento peccaminoso, avviene in un contesto comunitario. Il padre si rivolge ad altri perché si prepari un banchetto gioioso; la partecipazione al ritorno atteso è propria di tutti coloro che abitano la casa: “E cominciarono a far festa” (Lc 15, 24) – dice il testo evangelico.
Proprio perché si è davanti a un elemento poco presente nella consapevolezza di fede della nostra gente e, pure, ben chiaro nelle formule e nell’intero svolgimento del Rito della Penitenza, è necessario che il confessore abbia l’arte di farlo emergere nel corso della celebrazione.
Il peccato non è mai semplicemente un fatto che riguarda solo l’individuo. E’ dramma eminentemente personale, certo; ma, allo stesso tempo, è un fatto che interessa l’intero corpo della Chiesa, che dal peccato è rimasto colpito, ferito. D’altra parte, il ritrovato stato di amicizia con Dio e il cammino di conversione compiuto nel sacramento della riconciliazione costituiscono una vera grazia per tutto il corpo ecclesiale.
Il nostro peccato non riguarda noi soli e non ci salva da soli. Nella misura in cui affiora con chiarezza una tale convinzione di fede, il Rito della Penitenza appare in tutta la sua benefica provvidenzialità e necessità. Anche per questo apparirà più evidente che non è sufficiente chiedere perdono al Signore e che, a questa richiesta di perdono, deve accompagnarsi l’invocazione del perdono rivolto alla Chiesa. Non potrà, al riguardo, essere anche la penitenza sacramentale – la soddisfazione, nel linguaggio più strettamente teologico – divenire una via tra le altre alla comprensione esistenziale della dimensione ecclesiale del sacramento? Se il penitente è invitato a compiere, in via di soddisfazione, opere che riguardano Dio e opere che riguardano il fratello e la Chiesa, potrà probabilmente essere facilitata la percezione della rilevanza ecclesiale della colpa personale.
Alcuni ultimi suggerimenti rituali
Avviandomi alla conclusione, desidero soffermarmi molto brevemente su alcuni altri elementi rituali, se non proprio sostanziali certamente neppure marginali in una prospettiva liturgica, pastorale e spirituale.
– Rito della Penitenza e Parola di Dio
Sappiamo tutti bene che l’attuale Rito della Penitenza raccomanda vivamente di mettere in evidenza la relazione tra la celebrazione del sacramento e la parola di Dio (cf. n. 17). Non sempre forse, per molteplici motivi, è facile che questo si realizzi efficacemente. Qualcosa di più, tuttavia, è necessario che noi confessori si faccia. E’ quella parola, infatti, che illumina la coscienza del penitente circa la sua situazione spirituale, che lo chiama alla trasformazione della vita, che gli dona la fiducia nella misericordia del Signore. Soprattutto quando è “parola della croce” che, al contempo, illumina il dramma del peccato umano e la onnipotente bellezza della misericordia divina.
Probabilmente a volte, per motivi molto pratici, non risulterà possibile introdurre la “confessione” dei peccati con la lettura di un testo della Scrittura; ma sempre sarà possibile fare riferimento ad essa da parte del confessore iniziando il Rito, nell’esortazione che segue la “confessione”, nella soddisfazione indicata al penitente, nel consiglio su come prepararsi e predisporsi alla celebrazione del Rito della Penitenza.
Soltanto quando ci si pone di fronte alla parola del Signore si supera il senso di colpa, si scopre che il proprio peccato è difformità dalla volontà di Dio e tradimento di un amore, si entra nell’esperienza beatificante e salvatrice della misericordia divina. La stessa parola di assoluzione è parola che è da Dio, pur risuonando nella voce del suo ministro. E per questo ha la forza di donare perdono e vittoria sul peccato.
– Rito della Penitenza e direzione spirituale
Dal momento che ogni cammino è unico, non è possibile dire in anticipo quale debba e possa essere la relazione tra Rito della Penitenza e direzione spirituale nella vita di un penitente. Sarà il bene spirituale della persona e l’opportunità a indicare la via migliore da percorrere.
Tuttavia rimane importante educare a capire e ad apprezzare la distinzione che caratterizza questi due momenti del cammino di fede. E questo al fine di evitare il rischio che si finisca per attribuire più importanza alla parola umana, pur saggia e santa, rispetto alla grazia del sacramento che nulla e nessuno è capace di sostituire.
In altre parole, al di là del fatto che sia possibile unire Rito della Penitenza e direzione spirituale o viverle distintamente, non dovrà mai mancare l’esperienza, forse a volte meno immediatamente gratificante, del “nudo Rito della Penitenza”, per apprezzare il dono inestimabile di un perdono che non deriva dalle qualità umane del confessore, ma unicamente dalla grazia di Dio.
Al riguardo desta forse un po’ di sorpresa il fatto che i grandi confessori siano sempre stati anche particolarmente sintetici e brevi nella celebrazione del sacramento. Si pensi ancora al santo Curato d’Ars, oppure a San Leopoldo Mandic, a san Pio da Pietrelcina o, qui a Roma, al servo di Dio padre Felice Cappello. Dobbiamo apprendere bene questa arte del celebrare che, senza nulla togliere all’ascolto attento e amante del penitente, non si perde in lungaggini inutili quanto a volte dannose. Capita spesso, quando si è giovani, di attribuire alle proprie parole capacità di suscitare chissà quali cammini di conversione. Ci si accorge più avanti nella vita che basta anche una sola parola, ma scaturita dal Cuore del Signore, per segnare seriamente il cammino di una persona.
Non si dimentichi, infine, il dono che è la frequentazione assidua del Rito della Penitenza: da consigliare e incoraggiare, anche a partire dalla testimonianza della propria vita. Non è un caso se un santo come don Bosco, tra i tanti, tantissimi esempi che si potrebbero qui ricordare nella storia della spiritualità e della pastorale, esortasse con insistenza i suoi ragazzi ad accostarsi al Rito della Penitenza una volta alla settimana.
D’altra parte tutti, probabilmente, ricordiamo ciò che rispose Papa Benedetto XVI al bambino che gli chiedeva il motivo per cui è necessario confessarsi con frequenza: “… anche se, come ho detto, non è necessario confessarsi prima di ogni Comunione, è molto utile confessarsi con una certa regolarità. È vero, di solito, i nostri peccati sono sempre gli stessi, ma facciamo pulizia delle nostre abitazioni, delle nostre camere, almeno ogni settimana, anche se la sporcizia è sempre la stessa. Per vivere nel pulito, per ricominciare; altrimenti, forse la sporcizia non si vede, ma si accumula. Una cosa simile vale anche per l’anima, per me stesso, se non mi confesso mai, l’anima rimane trascurata e, alla fine, sono sempre contento di me e non capisco più che devo anche lavorare per essere migliore, che devo andare avanti. E questa pulizia dell’anima, che Gesù ci dà nel Sacramento della Confessione, ci aiuta ad avere una coscienza più svelta, più aperta e così anche di maturare spiritualmente e come persona umana. Quindi due cose: confessarsi è necessario soltanto in caso di un peccato grave, ma è molto utile confessarsi regolarmente per coltivare la pulizia, la bellezza dell’anima e maturare man mano nella vita” (Incontro con i bambini della Prima Comunione, 15 ottobre 2005).
– Il Rito della Penitenza e l’arte del celebrare
Non vi è dubbio che vi sia un’arte del celebrare, arte che riguarda d’altronde ogni celebrazione sacramentale.
Allo stesso tempo, però, è anche bene ricordare che la prima arte del celebrare si realizza dove il sacramento è celebrato così come la Chiesa ha indicato e definito, nella sua esattezza e integralità. Siamo ministri della Chiesa! Quale disorientamento e scandalo, per chi si accosta al Rito della Penitenza, dover constatare che a volte manca quella o quell’altra formula, che vengono omessi quel gesto o modificate arbitrariamente quelle parole, che viene a mancare uno degli elementi sostanziali del Rito, quali ad esempio la “soddisfazione”.
L’arte celebrativa, che poi certamente riposa sul cuore di un pastore innamorato del Signore e di coloro che gli sono affidati, germoglia a partire dalla fedeltà a quanto ricevuto dalla Chiesa, se non altro come segno di un’umiltà, segno distintivo di un ministro ordinato nell’esercizio del suo servizio. Il Rito della Penitenza non è suo, è del Signore e della Chiesa e gli è stato dato perché ne sia amministratore fedele e saggio, non padrone e arbitro indiscusso. Ci si dovrebbe anche interrogare, al riguardo, sulla conoscenza che si ha dei libri liturgici che riguardano la celebrazione del Rito.
Conclusione
All’inizio, e poi nel corso della relazione, si è parlato di una lotta, tra Dio e il suo antagonista, tra il bene e il male. Noi sacerdoti e confessori, spettatori e anche attori all’interno di questa lotta spirituale, dobbiamo forse temere che il peccato ci tocchi, che il peccato lasci traccia nefasta di sé nel nostro cuore?
A nostra consolazione ascoltiamo quanto in proposito afferma san Gregorio Magno nella Regola pastorale: “Ma anche il cuore del pastore che si apre a ricevere la confessione delle altrui tentazioni, potrebbe soffrirne per averle ascoltate. L’acqua della vasca, nella quale vengono lavati i cuori immondi di tutto un popolo, necessariamente si intorbida. La purità e la limpidezza vanno sacrificate alla sporcizia di quei che purifica. Ma il pastore non deve temere, perché Dio vede tutto e a tutto è capace di provvedere. Anche a redimere da queste tentazioni il pastore che si è affaticato a liberare gli altri dalle colpe. Dovrà pur esserci una misericordia per la misericordia!” (Parte II, n. 5).
E’ con questa certezza che ci spendiamo con generosità e fiducia, senza stancarci, nel Rito della Penitenza a favore del nostro popolo.
Ricordo, infine, che un santo confessore una volta mi disse: “ Per essere un bravo confessore è necessario essere un bravo penitente”. Concludo, pertanto, così: condividendo con voi queste sagge parole che da allora ho conservato nel cuore. Ogni nostra attenzione liturgica, pastorale e spirituale, forse trova la sua sorgente proprio lì: nel saperci fare, giorno dopo giorno, penitenti esemplari che ricercano, con entusiasmo d’amore, di percorrere la via della santità, che sono per primi assidui ad accostarsi al sacramento del perdono. Allora diventeremo capaci di comunicare lo stesso entusiasmo d’amore a quanti, nel Rito della Penitenza, avranno modo di incontrarci nell’esercizio del ministero della misericordia.