Articolo per la Rivista “La linfa”
Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, annota: “Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena né per dir così dalla terra intera, considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, la mole e il numero meraviglioso dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio. Immaginarsi il numero dei mondi infiniti e l’universo infinito e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande di siffatto universo, e sempre accusare le cose di insufficienza e nullità, e patire mancamento e vuoto e perciò noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di umiltà che si veda nella natura umana” (pensiero LXVIII).
In quale relazione è possibile mettere la profonda riflessione di Leopardi con la Pasqua, nella quale celebriamo la risurrezione del Signore? Forse ci può aiutare a trovare la giusta risposta un altro scrittore, a noi tutti noto, Cesare Pavese. Ne Il mestiere di vivere egli scrive: “Se nessuno ci ha promesso qualcosa, perché aspettiamo?” (p. 276).
Il poeta rileva la presenza, nel cuore umano, di un’attesa struggente e di un desiderio mai pago. Il romanziere si interroga e allude a Qualcuno che possa finalmente pacificare l’attesa e appagare il desiderio.
In effetti, potrà mai l’uomo, da solo, sperimentare la pace e trovare l’appagamento di quell’anelito all’oltre che lo accompagna per tutta la vita? È molto istruttivo, al riguardo l’antico mito di Icaro. Icaro era stato imprigionato, insieme al padre Dedalo, in un palazzo dentro cui ci si perdeva, il Labirinto, emblema della vita sentita come prigione, come labirinto incomprensibile. I due poveretti avvertivano in alto la presenza del sole e capivano di essere fatti per vivere al sole. Ed ecco che si fecero due ali con le piume di uccello che trovarono in giro, le attaccarono insieme con la cera e riuscirono a spiccare il volo verso il sole. Più Icaro si avvicinava a sole, però, e più quelle stesse ali, che lo portavano in alto, cedevano. Alla fine la cera si sciolse e il volo di Icaro, tragicamente, conobbe la fine. Egli, infatti, morì, piombando nel mare.
Se l’uomo porta dentro di sé una promessa, e se questa promessa non trova adeguata risposta nell’opera delle sue mani e del suo cuore, allora non resta che alzare in alto lo sguardo e invocare salvezza. Una salvezza che può venire, come dono, solo da Dio.
La Pasqua, in questo senso, è la grande e definitiva risposta data al cuore umano, alla sua attesa e al suo desiderio. La Pasqua è l’intervento, sperato ma inatteso e imprevedibile, da parte di Dio che, finalmente, illumina il significato di quella promessa che anima la nostra esistenza, dalla nascita alla morte.
“È risorto, non è qui” (Mc 16, 6). Non è qui, in una tomba, l’approdo di ogni nostro desiderio: la morte è stata sconfitta. Non è qui, in una tomba, il compimento di ogni promessa di bene: il peccato e il male non hanno più l’ultima parola nel cammino della storia. Non è qui, in una tomba, la speranza che la terra possa essere toccata dal Cielo: la comunione con Dio è possibile ed è possibile entrare in una relazione di amore con Lui, una relazione che si presenta come un “già” bellissimo, che riempie di senso la vita, e come un “non ancora”, tutto da scoprire e da gustare nell’eternità.
“È risorto, non è qui”. Non è qui il tutto della vita. Non è qui il senso ultimo dei nostri giorni terreni. Se tutto, in questo mondo, dice “più in là”, non lo dice per fare uno scherzo crudele, prima illusorio e poi tragicamente deludente. Lo dice perché “più in là” è la risposta ultima alla sete di verità e amore, bellezza e gioia, pace e giustizia, misericordia e perdono. Una risposta che dona significato nuovo a tutto ciò che è “di qua” e apre alla speranza di un “di là” che non avrà mai fine.
“È risorto, non è qui”. La risposta tanto attesa, la speranza che non delude è un Nome, un Volto, un Vivente che ormai è per sempre con noi: Gesù Cristo risorto da morte il mattino di Pasqua, per noi uomini e per la nostra salvezza.