Meditazione – Incontro con i sacerdoti e i diaconi

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Meditazione – Incontro con i sacerdoti e i diaconi

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Meditazione – Solennità di san Marziano
Incontro con i sacerdoti e i diaconi

Carissimi sacerdoti e diaconi, carissimi amici nel Signore!

vi abbraccio tutti e ciascuno con la carità e l’amore del cuore del Signore, nella gioia grande di ritrovarci oggi qui, nella solennità di San Marziano, inizio per noi di un anno speciale: 1900 anni dal giorno del suo martirio.

Ringrazio il Signore di essere qui, dopo 1900, anni con voi.

Il mio saluto, il mio affetto raggiunge certo tutti voi che siete qui presenti, ma raggiunge tutti, presbiteri e diaconi, che per diversi motivi non possono essere qui con noi. Penso soprattutto a chi è anziano, a chi è malato, a chi è in difficoltà. Tutti sono nostri, tutti sono qui con noi, tutti portiamo al Signore.

Siamo qui anche a nome della nostra terra, siamo qui per pregare per il nostro presbiterio, per la nostra gente, per la nostra Chiesa, perché lo sappiamo, noi ministri quando siamo dinanzi al Signore, non lo siamo mai da soli, ma sempre con un popolo che ci è stato affidato, con una Chiesa della quale siamo servitori. Dunque ora, qui, dinanzi al Signore, siamo noi, ma con noi c’è tutta la nostra bella e amata Chiesa, che con la passione del cuore portiamo davanti a Lui.

In questo giorno, ancora una volta, la Parola di Dio, che la Chiesa ci fa ascoltare, è provvidenziale. Perché è con questa Parola e attraverso questa Parola che siamo invitati a vivere Cristo, a respirare Cristo, a riaffermare che nulla è meglio di Lui nella nostra vita. E allora ci mettiamo in ascolto di questa Parola, con il desiderio, con la volontà che questa Parola scenda nel cuore, segni la vita, lasci traccia nel nostro cuore, nel nostro modo di pensare, nei nostri sentimenti, divenga carne della nostra carne, e così possiamo davvero vivere Cristo, respirare Cristo, riaffermare con gioia che nulla è meglio di Lui, che siamo felici, felici di essere suoi.

Rendiamo grazie al Signore per tante cose.

– Innanzitutto rendiamo grazie al Signore per san Marziano, questo grande vescovo, questo grande martire, che agli albori dell’avventura cristiana è arrivato qui, e qui ha fatto risuonare per la prima volta il nome di Gesù, dando il via a una catena ininterrotta di presenza, testimonianza, annuncio, che è arrivato intatto fino a noi, oggi. Come è bello pensare che il Signore ha avuto questa predilezione per la nostra terra! Non dappertutto, agli albori della vicenda cristiana, è risuonato il nome di Gesù. Noi abbiamo avuto questa grazia, questa grazia straordinaria, di avere un vescovo martire, che qui ha parlato di Gesù, addirittura, sembra, fin dal 75 d. C.

Non è bellissimo pensare che questa nostra terra ha sentito pronunciare il nome di Gesù, ne è rimasta impregnata, scolpita, affascinata, fino a oggi? Noi rendiamo grazie al Signore per San Marziano.

– Noi rendiamo grazie al Signore per questa nostra bella Chiesa di Tortona. Questa nostra Chiesa è bella perché il Signore la ama, è bella perché il Signore ha avuto questo sguardo di predilezione, è bella perché durante la sua lunga storia l’ha arricchita di grazie, di doni, di frutti di santità specialissima. È bella perché ancora oggi il Signore la ama, perché ancora oggi il Signore la riempie dei suoi doni e la tocca con la sua grazia. È bella perché ancora oggi tanti frutti di santità fioriscono tra di noi. È bella questa nostra Chiesa!

E oggi rendiamo grazie al Signore che ci ha resi suoi figli, sì, ci ha resi suoi figli, figli di questa Chiesa tortonese.

Se guardiamo a san Marziano rendendo grazie a Dio, e anche un po’ commuovendoci, perché Egli ce lo ha voluto donare, guardiamo alla nostra Chiesa ringraziando il Signore e anche un po’ commuovendoci, perché ha voluto che fossimo suoi figli. Certo, è una Chiesa fatta di uomini, di donne, e quindi è una Chiesa fatta di fatiche, di povertà tipica di noi uomini e donne, perché i primi ad essere poveri siamo noi. Ma è comunque bella, perché il Signore la ama e perché la riempie della Sua presenza. Amiamola, parliamone bene, diamo la vita per lei, non puntiamo mai il dito. È la Chiesa che il Signore ama. Dobbiamo amarla con il Suo cuore. Quando ha qualche ruga sul suo volto, è la nostra ruga, non la ruga degli altri; è la nostra ruga, che dobbiamo fare di tutto per cancellare dal nostro volto perché questa Chiesa che è bella, sia sempre più bella, secondo il cuore del Signore.

– Ringraziamo oggi il Signore per la nostra vita. Per la nostra vita di presbiteri e di diaconi. Perché un giorno su questa nostra povera, poverissima vita, si è posato uno sguardo speciale, lo sguardo di Gesù, che ci ha fatto avvertire l’amore che ha per noi, che ha fatto risuonare una parola, di chiamata e di vocazione, che è stato fedele pur nella nostra miseria, che è con noi sempre. E ci manda in mezzo ai suoi per essere presenza Sua, tra coloro che sono Suoi.

Dobbiamo ringraziare il Signore per questo, dobbiamo ringraziarlo per questo dono. Non ci capiti di essere lamentosi verso la nostra vita. Non ci capiti di essere ingrati verso ciò che abbiamo ricevuto. Non ci capiti di essere cupi e scontenti, per la grazia che ci è stata data. Saremmo veramente ingiusti e ingrati verso quel Signore che ha scelto noi, ha amato noi, ha mandato noi, senza alcun merito, perché avessimo la gioia di condividere la sua stessa missione, perché avessimo il dono di essere Lui in mezzo ai Suoi, perché avessimo l’esperienza straordinaria di essere la Sua parola, la Sua voce, il Suo volto, la Sua presenza, il Suo amore, il Suo servizio, in mezzo al Suo popolo.

Oggi noi rendiamo grazie, rendiamo grazie nella gioia, rendiamo grazie nello stupore, rendiamo grazie nella meraviglia, perché il Signore ci ha donato San Marziano, perché il Signore ci ha fatto figli di questa Chiesa, perché il Signore ci ha donato una straordinaria vocazione. Rendiamo grazie e stiamo nella gioia. Ma che questa gioia non sia solo di oggi. Il Signore ci aiuti perché ogni giorno della nostra vita possa essere vissuto nella gratitudine, nella gioia e nello stupore.

Come cambierebbe il volto delle nostre comunità, come cambierebbe il volto della nostra Chiesa, già tanto bello, se noi ogni giorno fossimo grati nella gioia e nello stupore, per un amore di Dio che non ci meritiamo, ma che è tutto grazia e tutto dono.

 

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Ci sono ora tre aspetti, sui quali desidero soffermarmi con voi, in questa solennità di San Marziano, che ci sono stati ricordati attraverso le letture dell’Ufficio, che ci aiutano a rendere grazie al Signore, nella gioia e nello stupore, a rivedere e a riconsiderare chi siamo, la nostra identità, a che cosa siamo chiamati.

 

  1. Anzitutto abbiamo ascoltato, a proposito di Simone – è il testo del Siracide – che è sommo sacerdote, si dedica al tempio per ripararlo, si dedica al santuario per fortificarlo, fa di tutto perché il suo popolo non cada e appare stupendo mentre cammina in mezzo al suo popolo. Simone, il sommo sacerdote, è il grande liturgo (cf. 50, 1). È il grande liturgo che vive per la sua gente, che mette al centro il santuario e il tempio, cioè Dio, e che appare stupendo mentre cammina tra i suoi.

Ecco, allora, il primo aspetto su ci fermiamo un istante. Noi siamo uomini della Liturgia, nel senso più grande, nel senso più bello. Siamo quegli uomini che il Signore ha scelto perché, vivendo la Liturgia, rendessero presente oggi, adesso, il mistero della salvezza, e perché oggi, adesso, potesse essere per tutti una realtà viva Gesù morto e risorto per noi.

Noi siamo gli uomini della liturgia. Guai se non la amassimo. Guai se non la vivessimo. Guai se fosse per noi soltanto una questione di esteriorità. Guai se fosse soltanto estetica. Guai se la prendessimo con superficialità.

È la presenza di Cristo oggi. È la possibilità prima che abbiamo di innestarci nella sua vita. È la via privilegiata mediante la quale incontriamo Cristo vivo, in mezzo a noi. Non c’è Chiesa senza Liturgia. Non c’è comunità cristiana senza Liturgia. Perché non c’è Chiesa, non c’è comunità cristiana, ma non ci siamo neppure noi, senza la presenza di Cristo operante nei segni sacramentali.

Uomini della Liturgia. Diceva un grande abate, legato alla nostra terra, l’abate Magrassi: “La Liturgia non consiste in cose da fare, ma in una Persona viva da incontrare”. Possiamo forse farne a meno? Possiamo forse essere superficiali? Possiamo non celebrarla con fedeltà? Possiamo, forse, considerare che sia l’ultima cosa a cui pensare e che prima ne vengano altre? No, è la prima ed è il cuore, perché è Cristo vivo in mezzo a noi. Perché è Lui Vivente, per noi.

Ma la Liturgia ci aiuta anche a rinnovare la fede, perché ci ricorda che senza di Lui, il Signore, non siamo proprio nulla. Se operiamo con le nostre forze, se operiamo con la nostra semplice fantasia, se proviamo a costruire noi la città, tutto va in rovina, anche se siamo di fronte ad un’apparenza di edificazione. La Liturgia ce lo ricorda, perché la Liturgia è dono di Dio e ci ricorda che la fede è ciò che costruisce. Ci ricorda che dare il primato all’agire di Dio costruisce, che lasciare operare Lui è edificazione vera e che rimane. Ci ricorda che, nella misura in cui siamo spazio accogliente di Lui, edifichiamo con fondamento. Per l’oggi e per il domani. Nella Liturgia, insomma, rinnoviamo la fede.

Grazie alla Liturgia ritroviamo anche il primato della preghiera. Perché è così: quando siamo fedeli alla Liturgia, quando la celebriamo veramente e in verità, quando è il cuore della nostra esistenza, allora capiamo che il primato è della preghiera e che senza preghiera non andiamo da nessuna parte, che senza preghiera il nostro cuore è destinato a morire, che senza preghiera il nostro ministero non può essere fecondo, che la preghiera è l’inizio, è il cuore, il centro e il fine di ogni nostra azione.

Quante volte, nei nostri incontri, sembra che la preghiera sia qualcosa che quasi dobbiamo fare, per dedicarci poi a quello che conta davvero. Se fosse così saremmo dei poveretti, e se è così non possiamo immaginare o pretendere fecondità dalla nostra vita, dal nostro ministero e dalle nostre fatiche. Siamo stolti, se la preghiera non è il punto di partenza, se la preghiera non è il punto di arrivo, se la preghiera non è il centro, il cuore di tutto. Siamo stolti, e fatichiamo invano. Forse anche gloriandoci di ciò che facciamo. Ma stoltamente, perché ci ritroveremo con opere che si sgretolano. La Liturgia ci ricorda il primato della preghiera, che è il primato di Dio.

Dicevano gli antichi Padri: la Liturgia è l’affacciarsi del cielo sulla terra. Non è soltanto una bella immagine, è la verità, perché la Liturgia che noi celebriamo non è qualcosa di nostro, o soltanto di nostro, è la Liturgia del cielo alla quale noi prendiamo parte, qui sulla terra. Quindi vivere la Liturgia davvero significa introdurre noi nel cielo di Dio e lasciare che questo cielo di Dio tocchi la terra degli uomini.

E quanto c’è bisogno di questo, perché la nostra terra finché non è toccata dal cielo rimane una terra arida, una terra inabitabile, una terra meno umana, una terra oscura, una terra non buona, non fertile, non fiorita. È solo quando il cielo tocca la terra, che la terra rinasce e rifiorisce in bellezza. La Liturgia ci fa vivere questo, e ci ricorda questo. Il nostro compito è fare questo, fare in modo che il cielo tocchi la terra e che la terra possa essere toccata dal cielo.

La Liturgia ci aiuta a vivere il mistero della Chiesa, a viverla, ad amarla, e a diventare sempre più Chiesa, perché lo sappiamo bene, nella Liturgia non c’è spazio per l’io, lo spazio è sempre per il noi. Nella Liturgia siamo sempre noi, siamo sempre insieme, siamo sempre una comunità; una comunità che si abbraccia anche con la comunità celeste. Siamo sempre noi.

E ci aiuta a ricordare che come presbiterio siamo sempre un noi. Non siamo tanti io uno accanto all’altro. Siamo un noi. Non c’è spazio per individualismi. Non c’è spazio per protagonismi. Non c’è spazio per gruppi che si separano dagli altri. Non c’è spazio, non c’è spazio! Siamo un noi. Siamo famiglia, siamo una Comunione, e la Liturgia ce lo ricorda. Ci ricorda che nel noi che pronunciamo ci sono i nostri fratelli, certo, ma anzitutto ci sono i nostri fratelli nel presbiterato. Ci siamo tutti, come una Comunione di amore, come fratelli che vivono insieme, come fratelli che si amano, pur nella diversità legittima. Come fratelli che camminano, gli uni accanto agli altri, gli uni con gli altri, gli uni per gli altri.

La Liturgia, poi, ci libera dalla mondanità. La mondanità consiste nell’ abbassare la grande mèta cui ci chiama il Signore alla nostra povertà, impoverire la Parola del Signore e farla diventare soltanto una parola umana, fatta a nostra misura, è lasciarsi impregnare dallo spirito del mondo così che non sia più la Spirito di Dio a orientare il nostro cammino.

La Liturgia ci libera dalla tentazione della mondanità, che è una tentazione sempre presente nella vita di tutti noi e che forse oggi lo è in modo particolare. La mondanità che ci fa essere come tutti, la mondanità che ci fa rifuggire la fatica di andare contro corrente, la mondanità che ci omologa al pensiero dominante, la mondanità che ci fa cercare la popolarità a tutti i costi, la mondanità che certo San Marziano, martire, non ha fatto sua. La Liturgia ci libera dalla mondanità, perché ci fa stare a stretto contatto con il Signore, con la Sua passione e morte, e risurrezione e con la Sua parola di grazia.

Siamo dunque uomini della Liturgia, nel senso più grande, nel senso più bello, nel senso più vero di questo termine e di questa realtà.

Stiamo vivendo il cammino sinodale. Non c’è sinodalità senza Liturgia, perché non si dà sinodalità che non parta dalla Liturgia, che non trovi il suo cuore nella Liturgia, che non trovi la sua forma nella Liturgia. È la liturgia il sinodo permanente. Ed è soltanto quando viviamo la Liturgia che capiamo che cos’è la sinodalità.

Allora il nostro cammino sinodale sia un cammino che guarda lì, alla Liturgia, che prende forza e forma da lì. Non ci capiti di pensare che il cammino sinodale sia un cammino parallelo, quasi che la Liturgia sia altro. No! La Liturgia ne è il cuore perché ne è la sorgente e ne è la forma. Ne è la grazia che lo informa e sostiene.

 

  1. In secondo luogo: Siamo uomini dell’evangelizzazione. Il decreto Ad Gentes, nel testo ascoltato,ce lo ha ricordato. La Chiesa è “la via spedita e sicura alla partecipazione piena del mistero di Cristo” (n. 5). E nella Chiesa lo Spirito Santo infonde oggi lo stesso spirito missionario che ha spinto il Signore Gesù a dare la vita per noi”.

Siamo uomini dell’evangelizzazione. Oggi guardiamo a San Marziano, uomo dell’evangelizzazione. Siamo suoi figli, noi chiamati ad essere uomini dell’evangelizzazione.

Lo sappiamo: tantissime sono le periferie, tantissime. E nessuna di queste può essere al di fuori del nostro interesse e della nostra passione d’amore. Perché dove c’è l’uomo c’è Cristo, e allora dove c’è l’uomo non possiamo non esserci noi. Non può non esserci la Chiesa. Le periferie ci interessano tutte. Come d’altronde ci interessa tutto, perché il Signore Gesù è interessato a tutto, vuol salvare tutto e vuol salvare tutti. E noi non possiamo non portare nel cuore tutta questa passione d’amore.

Però c’è una periferia delle periferie, e questa è l’assenza di Dio. Questa è la più tragica, questa è la peggiore, questa è la più drammatica, perché non solo comporta l’impossibilità di sperimentare la bellezza dell’incontro col Signore Salvatore, ma perché comporta una distruzione dell’uomo. Dove la fede non c’è, non c’è neanche l’uomo. Dove è decapitata la fede è decapitata anche la ragione.

Questa è la periferia delle periferie e questa deve essere piantata nei nostri pensieri, nel nostro cuore, nei nostri progetti, a chiarissime lettere, come il fuoco, e non deve lasciarci in pace mai, neppure un giorno della nostra vita. Perché fin tanto che c’è anche una sola periferia della mancanza di Dio, noi non possiamo essere tranquilli.

Siamo uomini dell’evangelizzazione, ed essendo uomini dell’evangelizzazione siamo uomini di una umanizzazione vera. A volte oggi si parla di “uomo nuovo”, si parla di “mondo nuovo”, ma l’unico uomo nuovo è Cristo Gesù e l’umanità in quanto partecipa della sua vita, e l’unico mondo nuovo è quello in cui entra Cristo Salvatore. Noi siamo gli araldi dell’uomo nuovo, noi siamo gli araldi del mondo nuovo, nella misura in cui portiamo Cristo Gesù e il Suo Vangelo. Nella misura in cui lasciamo che la sua salvezza entri nelle pieghe della storia.

Uomini dell’evangelizzazione. Con la parola, perché si evangelizza con la parola, una parola vera, una parola detta con autorità, una parola che si fonda sulla vita, una parola che è già testimonianza di vita. Una parola che fiorisce sul silenzio e sull’ascolto. Una parola che è così di Dio, e viene così da Dio, che è davvero Sua, con la Sua stessa forza e con il Suo stesso fascino.

Non saremo mai uomini di evangelizzazione se la parola sarà nostra, pur erudita e apparentemente saggia. Lo saremo soltanto se questa parola sarà Sua. Se non sarà da noi manipolata, abbassata, modificata, perché ce lo chiede questo mondo, perché ce lo chiede questo tempo, perché ce lo chiede la nostra miseria. No, deve essere la Sua. Se sarà Sua, sarà affascinante e irresistibile. Se sarà nostra non interesserà a nessuno, proprio a nessuno.

Uomini dell’evangelizzazione. Con la vita. Perché lo sappiamo tutti: si evangelizza con la vita. Ricorderete quel racconto dei Padri del deserto, quando tre giovani monaci decidono di andare da un anziano per chiedere consiglio. Vanno. Si intrattengono con lui un giorno, due giorni, tre giorni, poi il congedo.  Ma prima di salutarli l’anziano si rivolge a quei giovani e dice: «Non ho capito una cosa: siete venuti in tre, perché due soli di voi hanno parlato?». E il giovane che era rimasto in silenzio risponde così: «Vedi padre, i miei due compagni hanno avuto bisogno di ascoltare le tue parole, ma a me è bastato guardarti». Noi siamo uomini dell’evangelizzazione se la nostra vita parla, se la nostra vita parla di Gesù, se la nostra vita parla del Vangelo, se la nostra vita è un riflesso della bellezza della parola di Dio. Ma se la nostra vita è mediocre, se la nostra vita non dice nulla, se la nostra vita è omologata al mondo, se la nostra vita è mondana, se la nostra vita è un imborghesimento progressivo, se la nostra vita è un pensare a noi stessi e non ai nostri fratelli, se la nostra vita è così, ma che cosa ha da dire al nostro mondo? Come evangelizza? Come parla di Gesù?

San Francesco Saverio, il grande missionario nelle Indie, giorno dopo giorno procedeva con il grande desiderio di arrivare in Cina. Sotto il peso di una fatica impossibile da portare, continuava a dirsi: “Vai più in là, vai più in là”. Vai più in là, perché il Signore ti chiede di andare più in là ancora. Questa è la parola che ciascuno di noi dovrebbe sentire anche nel momento della fatica, dell’incomprensione, di quando ci pare che la semina non porti frutto.

Più in là! Più in là! Perché il Signore te lo chiede. Più in là! Più in là, con la gioia nel cuore. Più in là, con l’entusiasmo di essere evangelizzatore. Più in là, nella meraviglia di essere mandato dal Signore in mezzo al Suo popolo. Più in là, ancora più in là, con una grazia speciale. Perché, vedete, il Signore è così buono che non ci ha lasciato l’ansia da prestazione, perché non ci ha chiesto i frutti; ci ha chiesto di seminare, non ci ha chiesto il risultato; ci ha chiesto di essere generosi fino al dono della vita, per gettare il seme. Come è bello questo! Siamo liberi dall’ansia del risultato, siamo liberi dall’ansia della prestazione, siamo liberi da quel fare per forza i conti e vedere che cosa è successo dopo che ci siamo spesi.

Questo, a volte, rivela un pensare mondano: quello per il quale ci contiamo, e siamo contenti se vediamo che le cose vanno bene nella linea del successo esteriore, se troviamo il consenso. In realtà questo il Signore non ce lo domanda. Egli ci domanda di vivere “la spensierata gioia di essere con Lui seminatori.” Seminatori che, giunti al termine della vita, non fanno i conti per vedere che cosa hanno fatto e il risultato della loro fatica. Ma che al termine della vita hanno la gioia nel cuore perché la vita l’hanno data, senza guardare nulla. E l’hanno spesa per amore del Signore. L’hanno consegnata semplicemente giorno dopo giorno, con la gioia di consegnarla, di amare il Signore e di farlo amare.

Stiamo vivendo il cammino sinodale. Quel cammino che, come dicevamo, trova un cuore, un centro nella Liturgia, lo trova anche nell’evangelizzazione. Perché è vero che il Sinodo non ha un tema specifico, o un obiettivo particolare, ma è certo che sullo sfondo del Sinodo c’è il mondo di oggi, con la sua assenza di Dio e con l’abbandono della fede. E non possiamo immaginare che questo cammino sinodale non ci porti a pensare, a pregare, a trovare strade nuove di evangelizzazione.

 

  1. Siamo uomini della carità. Della carità. Non siamo filantropi, non siamo assistenti sociali. La nostra azione, come quella della Chiesa, non si identifica con una azione sociale. Ha delle ricadute sociali, certo; ha delle conseguenze nella vita sociale, certo; ma non si identifica con essa. Se la vita della Chiesa si identificasse con l’azione sociale, se il nostro ministero si identificasse con l’azione sociale, questo sarebbe la morte della Chiesa, del nostro ministero e del cristianesimo, perché Gesù non ha fatto questo, Gesù non ci chiede questo. Gesù ha voluto la Chiesa non per questo. Gesù ha voluto noi non per questo. Gesù ha voluto il nostro ministero non per questo. Noi siamo, come ci ricorda Ad Gentes, coloro che ricevono lo Spirito Santo che mette nel nostro cuore la Grazia e l’amore di Cristo (cf. n.5). Questo è essere uomini di carità, uomini che hanno dentro di sé la grazia e l’amore di Cristo. Che allora riguarda tutto e tutti, senza derive ideologiche di nessun tipo.

 

Recentemente mi ha colpito molto, leggendo un testo che raccoglie la predicazione fatta da don Divo Barsotti a un corso di esercizi spirituali e incentrata sulla spiritualità di San Luigi Orione. Il predicatore sottolineava che una delle caratteristiche tipiche, originali di don Orione era questa: era talmente appassionato di Gesù, la sua vita era così rapita dall’amore del Signore, che tutto quello che interessava il cuore di Cristo era anche nel suo cuore, tutto quello che era passione del cuore di Cristo era anche passione del cuore. In tal modo si capisce perché don Orione è stato protagonista in ogni ambito di carità, nessuno escluso, perché là dove l’amore di Cristo batteva, batteva anche il cuore di don Orione con lo stesso amore. Anche noi partecipiamo allo zelo apostolico di carità di don Orione, perché lo Spirito santo ha messo nel nostro cuore la grazia e l’amore di Cristo. E allora siamo uomini di carità perché là dove batte il cuore di Cristo, batte anche il nostro, e dove l’amore di Cristo spinge, andiamo anche noi. Dappertutto, a 360 gradi, perché la carità di Cristo è in noi.

Parlando di carità, ritorniamo per un momento alla carità vissuta all’interno di quella famiglia bella, quella famiglia bellissima, che è il presbiterio, il nostro presbiterio, dove già ci si vuol bene, ma dove siamo chiamati a volerci ancora più bene.

Siamo chiamati ad amarci davvero, a sostenerci gli uni gli altri, nelle fatiche, nei dolori; a gioire reciprocamente gli uni degli altri per le cose belle, che ciascuno prova, vive, realizza, raggiunge; a guardarci non con invidia e gelosia, ma con lo stupore di chi vede l’opera di Dio nell’opera di un Suo ministro. Siamo chiamati a stare sempre più vicini a chi vive momenti di difficoltà, un momento di smarrimento, a chi vive nella malattia. Siamo chiamati a guardare con uno sguardo di tenerezza i più giovani, e a guardare con altrettanta tenerezza i più anziani. Siamo chiamati a farci sempre più prossimi gli uni degli altri. Siamo chiamati a edificarci a vicenda, siamo chiamati a volerci bene, siamo chiamati a non essere elemento di divisione, ma di comunione. Siamo chiamati ad accettare che ci possano essere diverse sensibilità, perché, come diceva un successore di San Marziano su questa cattedra, Giovanni Canestri: «La Chiesa è un grande fiume, nel fiume l’acqua scorre a volte al centro, a volte ai margini, a destra, a sinistra; ma l’importante è che sia dentro il fiume». Se è dentro il fiume fa parte della nostra famiglia, nella quale dà qualcosa che l’altro non ha, un apporto che l’altro non può dare. E nella famiglia comune, con umiltà e con bontà, ci ascoltiamo, ci apprezziamo, ci aiutiamo, ci sosteniamo.

Lo ripeto ancora: mai gli uni senza gli altri, mai gli uni contro gli altri. Ma sempre gli uni con gli altri e gli uni per gli altri. E allora questa famiglia che è già bella, diventa una famiglia bellissima. E quella testimonianza che siamo chiamati a dare personalmente, di Cristo, diventa una testimonianza comunitaria e ha una forza ancora più grande. Perché oggi il mondo chiede che le nostre comunità siano comunità in cui la carità si tocca con mano. Il mondo chiede, come anche la nostra gente chiede, che i nostri presbiteri siano luoghi di carità, testimonianza di comunione, in cui la presenza di Cristo si tocca con mano. Lo abbiamo detto tante volte: dobbiamo pregare molto per le vocazioni, ma accanto alla preghiera c’è anche qualcos’altro che siamo chiamati a dare in termini di nostra povera ma importante collaborazione: la testimonianza di un presbiterio bello, di un presbiterio che vive la carità, di un presbiterio in cui ci si vuole bene, di un presbiterio pensando al quale si dice: che bello farne parte!

Il cammino sinodale che è un cammino che trova il proprio punto di riferimento nella Liturgia e che tende all’evangelizzazione, è un cammino che non può non farci crescere nella carità. Perché il cammino sinodale inizia con l’essere in prima persona sinodali, quindi uomini di carità e di comunione: altrimenti le nostre sono tutte parole al vento.

A parole, infatti, possiamo dire che siamo sinodali, che bisogna camminare insieme, che bisogna ascoltarci; ma se questo non parte da ciò che viviamo tra di noi e non è la norma fondamentale del nostro vivere personale, sono tutte parole al vento, slogan inutili e vuoti. Come sempre si parte da sé stessi. Non è la Chiesa che deve essere sinodale; siamo noi che dobbiamo essere sinodali; non è la Chiesa che deve cambiare; siamo noi che dobbiamo cambiare; non è la Chiesa che deve ascoltare di più, siamo noi che dobbiamo ascoltare di più. Allora sì che la Chiesa sarà più sinodale, più in ascolto, più testimonianza viva di una bellissima comunione. Ma noi… io devo cambiare anzitutto! Smettiamola di puntare il dito verso la Chiesa! Dobbiamo puntare il dito verso noi stessi, perché noi siamo i peccati della Chiesa, noi siamo le ombre della Chiesa, noi siamo la povertà della Chiesa, noi siamo la mancanza di comunione nella Chiesa, noi siamo i ritardi nella Chiesa, noi siamo quello che nella Chiesa non va, noi! Basta con questo sport autodistruttivo. L’indice sia contro di noi se amiamo la Chiesa e vogliamo che la Chiesa risplenda in tutta la sua bellezza.

Siamo chiamati a essere il Buon Pastore. Che bello! Il Signore vuole questo da noi: che siamo come il Buon Pastore che dà la vita. Che dà la vita per il suo gregge.

Molte volte abbiamo usato la parola servizio. Noi siamo il Buon pastore nella misura in cui davvero siamo servitori. Siamo schiavi, diciamolo pure, siamo schiavi perché Gesù si è fatto schiavo. E noi siamo il Buon Pastore se siamo schiavi del Signore e della Sua volontà, della Chiesa che è tramite della presenza del Signore per noi oggi, e della nostra gente. Non dobbiamo fare da padroni. Siamo stati mandati per essere schiavi del nostro popolo, per essere servi del nostro popolo, per dare la vita per il nostro popolo, non per fare la nostra volontà, o il nostro comodo, o spadroneggiare, ma per essere schiavi d’amore.

Schiavi per amore. È questa la bellezza della nostra vita, che ci riempie il cuore; il resto lascia soltanto amarezza, perché non corrisponde a ciò che siamo divenuti in virtù del sacramento, a ciò cui il Signore ci ha chiamato. Non dimentichiamo: noi siamo servi e schiavi per il bene del popolo, per la santità della nostra gente, perché tutti possano arrivare al Signore. Schiavi, servi, dando la vita giorno dopo giorno, come già la diamo, ma sempre di più e sempre con più grande gioia. Siamo divenuti servi e schiavi, quando ci sono state imposte le mani, quando abbiamo ricevuto il dono di essere identificati a Cristo Buon Pastore. In quel momento abbiamo ricevuto l’identità da schiavi, da servi, che sono chiamati a morire per la salvezza della loro gente, per la santità della loro gente. Servi e schiavi. Non dimentichiamolo mai! Se abbiamo una autorità è l’autorità dello schiavo, del servo e di colui che dimentica sé stesso per la vita degli altri.

Il cammino sinodale è anche questo. Siamo servi e schiavi del Signore e della Chiesa. Allora questo cammino non lo guardiamo con supponenza, dicendo: “Ne abbiamo già fatto tante…”. No. Viviamolo come una chiamata del Signore e della Chiesa, alla quale rispondiamo, impegnandoci in questo cammino, che è un ‘occasione di grazia, un dono che ci è dato, uno strumento prezioso.

Non spadroneggiamo. Sarebbe uno spadroneggiare sulla nostra gente. Il sinodo non è nostro, è della Chiesa, è della nostra gente di cui siamo al servizio. Siamo loro schiavi perché possano vivere insieme a loro questo cammino di grazia che la Chiesa ci propone. Accogliamolo con cordialità. E con gratitudine. Viviamolo con impegno. E con passione. Mettiamoci al servizio della nostra gente, perché questo cammino sinodale possa essere un momento importante nel cammino della nostra Chiesa.

 

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Abbiamo ricordato alcuni elementi importanti della nostra vita, Abbiamo parlato del cammino sinodale. In questo cammino la prima tappa ci chiede soprattutto ascolto.

Siamo chiamati ad imparare meglio ad ascoltare Dio, anzitutto. Ecco la liturgia. Siamo chiamati ad ascoltare ciò che il Signore ci chiede e ad ascoltare la realtà del nostro tempo, in ordine all’annuncio del Vangelo. Ecco l’evangelizzazione. Siamo chiamati nella carità ad ascoltarci reciprocamente, tra di noi e con la nostra gente, perché anche lì il Signore parla a noi e lo Spirito dà le sue indicazioni e le sue ispirazioni. Siamo chiamati ad ascoltare ancora una volta il Signore che ci manda a essere servi e schiavi. Ascoltiamo, ascoltiamo, perché non siamo tanto bravi ad ascoltare. Lo dobbiamo ammettere tutti: non siamo tanto bravi ad ascoltare il Signore che ci parla. Non siamo tanto bravi ad ascoltare ciò che lo Spirito oggi ci chiede per evangelizzare, non siamo tanto bravi ad ascoltare la nostra gente pensando di trovare in loro la voce del Signore. E non siamo tanto bravi ad ascoltare il Signore che ci chiede oggi sempre più di essere schiavi e servi per amore.

Che il Sinodo sia davvero una gioiosa e stupita esperienza di ascolto autentico.

Ora esporremo il Santissimo Sacramento, perché quelle parole che sono risuonate qui, – e spero che siano da tutti accolte come parola di amore, per tutti e per ciascuno – davanti al Signore possano risuonare ancora, nel silenzio della preghiera e diventare, grazie a Lui, vita della nostra vita, carne della nostra carne.

Perché adoriamo? Adoriamo per sentirci piccoli dinanzi a Lui che è l’unico grande. Adoriamo per ricordarci che siamo nulla, ma che Lui può tutto. Adoriamo perché la Sua presenza si imprima in noi e ci faccia diventare come Simone, il sommo sacerdote che era stupendo mentre camminava in mezzo al suo popolo. Adoriamo così, da piccoli, di fronte a Lui che è il solo grande. Adoriamo così, avvertendo il nostro nulla di fronte a Colui che può tutto, desiderando lasciarci imprimere della bellezza del Suo volto e della Sua vita.

Qui in cattedrale, forse lo sapete, da domani inizierà l’adorazione Perpetua, che chiediamo al Signore possa accompagnare la vita della Chiesa qui a Tortona, la vita della Chiesa nella nostra Diocesi; e poi possa essere il punto di partenza di tante esperienze di adorazione eucaristica nella nostra Diocesi, così che si possa vedere e noi possiamo sentire che siamo una Chiesa in ginocchio: consapevole della sua piccolezza davanti a Lui che è grande, consapevole della sua povertà davanti a Lui che può tutto, desiderosa di essere un riflesso vivo della Sua bellezza e della Sua vita.

Non dimentichiamo oggi, come presbiterio, la preghiera per la pace. Siamo addolorati, siamo afflitti, siamo preoccupati. E allora gli occhi e il cuore si rivolgono a Lui, al Signore, pensando al dramma della guerra perché ci sia pace, pensando a chi soffre, a chi perde tutto, a chi muore. Tutti portiamo con noi, nella nostra preghiera. Ricordiamo che sabato prossimo, in questa Cattedrale, vivremo un’altra tappa di questa grande preghiera per la pace. Saremo un cuore solo e un’anima sola in tutta la Diocesi e in comunione con tutta la Chiesa, perché vogliamo stare insieme dinanzi al Signore, portando nel cuore questa grande invocazione.

E adesso disponiamoci a farci piccoli, poveri, per guardare Lui che è grande e che può tutto, e a stare davanti a Lui supplicandolo: “Vieni a noi, imprimiti nella nostra vita, diventa tu presenza in me, in noi, perché anche in noi il mondo ti veda, e il mondo creda.