Il mistero pasquale
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Paul Claudel, in una sua celebre poesia, descrive la confessione sacramentale con le stesse immagini con le quali il Vangelo descrive il ritorno del figliol prodigo alla casa paterna e la liturgia della Chiesa celebra la risurrezione di Cristo: “Dio mio, sono risuscitato e sono ancora con Te! / Dormivo ed ero coricato come un morto nella notte. / Dio disse: «Sia fatta la luce» ed io mi sono destato. / Come si getta un grido! / Sono risorto e mi sono svegliato… / Il mio cuore è libero e la mia bocca è netta, / il corpo e lo spirito sono a digiuno. / Sono assolto da tutti i miei peccati / che ho confessati uno a uno. / L’anello nuziale è al mio dito e il mio viso è pulito. / Sono come un essere innocente nella grazia / che mi hai concessa”. (Corona benignitatis in anni Dei, in Oeuvres poétiques, Parigi 1976, p. 377).
Le parole del poeta francese costituiscono quasi un naturale legame tra la riflessione che l’Enciclica Dives in misericordia fa riguardo alla parabola del figlio perduto e ritrovato e quella che introduce al cuore del mistero della misericordia, quale è il mistero pasquale.
Se, infatti, vogliamo andare fino in fondo considerare la verità più intima della misericordia di Dio è necessario penetrare nella croce e nella risurrezione di Gesù, dove si svela “la profondità di quell’amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal principio «scelti», in questo Figlio, per la grazia e la gloria” (Dives in misericordia, 7).
Si può ben affermare che, quando sostiamo a meditare su quanto accade tra il giovedì santo e il giorno di Pasqua, la nostra intelligenza, in un certo senso, si perde negli abissi della misericordia di Dio e il nostro cuore rimane salutarmente ferito da una rivelazione sorprendente e commovente. Per amore degli uomini, Dio si rivolge contro sé stesso. Per la salvezza di coloro che egli ha creato e che hanno peccato, il Padre tratta come “peccato” il Figlio increato e fatto uomo, al fine di recuperare noi alla grazia e alla pienezza della vita. Come scrive Benedetto XVI, nella Lettera Enciclica Deus caritas est: “Nella sua morte in croce [di Gesù] si compie quel volgersi di Dio contro sé stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore questo nella sua forma più radicale” (n. 12). Lo sguardo che si rivolge al fianco squarciato di Cristo, alle sue sante piaghe, può comprendere la rivelazione straordinaria per la quale “Dio è amore” (1 Gv 4, 8).
Credere all’amore di Dio, così come si rivela allo sguardo umano nella passione e morte di croce di Gesù, significa credere che l’amore di Dio è presente nel mondo e che questo amore è più grande di ogni male possibile, nel quale l’umanità possa rimanere coinvolta. Credere all’amore di Dio rivelato in Gesù crocifisso significa credere nella misericordia, che appare come il secondo nome dell’amore, il modo specifico del suo rivelarsi e operare in un mondo segnato dal peccato e dal male, quali nemici peggiori dell’umanità.
“Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia e anche attuarsi come tale” (Dives in misericordia, 8).
Le considerazioni fatte fino a qui ispirano il nostro cammino cristiano in una duplice direzione. Anzitutto, ci consentono di non disperare mai e di vivere il pellegrinaggio terreno nella “certa speranza” della salvezza. Al riguardo, può essere utile ricordare una storia che, se non è vera, è certamente molto istruttiva. Una volta un bambino, a cui era stata raccontata la vicenda di Giuda, disse con il candore e la sapienza dei bambini: “Giuda ha sbagliato l’albero a cui impiccarsi: ha scelto un albero di fico”. “E che cosa avrebbe dovuto scegliere?”, gli chiese stupita la catechista. “Doveva appendersi al collo di Gesù!”, rispose il bambino. E aveva ragione: se si fosse appeso al collo di Gesù, per chiedergli perdono, anche Giuda avrebbe fatto esperienza della Sua infinita misericordia.
In questa storia sembra di sentire l’eco di un racconto che risuonava spesso sulle labbra di santa Teresa di Gesù Bambino. Ecco le parole della santa di Lisieux: “Un re in una partita di caccia inseguiva un coniglio bianco, che i suoi cani erano sul punto di raggiungere, quando la bestiola, sentendosi perduta, ritornò indietro rapidamente e saltò tra le braccia del cacciatore. Costui, commosso da tanta fiducia, non volle più separarsi dal coniglio bianco, e non permetteva a nessuno di toccarlo, riservandosi di nutrirlo. Così il buon Dio farà con noi, se, inseguiti dalla giustizia figurata dai cani, cercheremo scampo nelle braccia del nostro Giudice”.
Vi è anche una seconda direzione impressa alla nostra vita dalla contemplazione della misericordia di Dio, rivelata e donata a noi in pienezza nel mistero pasquale. L’uomo, infatti, che ha trovato misericordia presso Dio, in modo così mirabile, è anche colui che è chiamato a manifestare la misericordia di Dio nel mondo. In questa sublime vocazione egli trova la grandezza della sua dignità: essere immagine di Dio, rivelandone, con la propria vita e la propria parola, gli abissi di misericordia presenti nel Suo cuore. Per grazia, quindi, a tutti noi è affidata la missione di annunciare al mondo che “Dio è amore” e che il Suo amore è amore di misericordia.
(testo di riflessione mensile per l’Apostolato della preghiera)