Casa delle Missionarie delle Divina Rivelazione
Roma
[bws_pdfprint]
Il 28 giugno dello scorso anno, nella stupenda Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Santo Padre Benedetto XVI inaugurava l’Anno Paolino, con la celebrazione dei Primi Vespri della solennità dei SS. Pietro e Paolo. Durante l’omelia, in quella circostanza, così si rivolgeva a tutti noi: “Siamo riuniti presso la tomba di San Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? […] Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi. Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi”.
Queste parole del Santo Padre sono quanto mai attuali e significative, nel giorno in cui viviamo il nostro ritiro mensile. Il desiderio che oggi rinnoviamo, infatti, è quello di inoltrarci nel nuovo anno senza perdere di vista la grazia dello speciale giubileo paolino. Perderla di vista è facile. E forse lo abbiamo già fatto, purtroppo. Poniamoci, ad esempio, alcune semplici domande: “Quale attenzione ho prestato in questi mesi alla figura di San Paolo, al suo insegnamento, all’esempio della sua vita? Ho riletto le sue lettere? Mi sono dedicato alla lettura di qualche testo che ne approfondisca la figura? Con quale intensità ho fatto ricorso alla preghiera per invocare l’intercessione del grande Apostolo delle genti?”.
Ciascuno risponda nel segreto del proprio cuore. E mentre risponde, in positivo o in negativo che sia, dica a se stesso: “E’ troppo ricca la grazia di questo Anno Paolino perché io non me ne avvalga con pronta generosità!”.
Ciò che desidero compiere con voi, quest’oggi, è una sorta di pellegrinaggio all’interno della vita di San Paolo, ripercorrendone alcuni tratti salienti. Scopriremo come ciascuno di essi non sia stato soltanto fondamentale per la straordinaria esperienza spirituale dell’apostolo, ma possa essere anche decisivo per il nostro itinerario di santità. Quella santità – lo ricordiamo – alla quale sempre dobbiamo tendere con tutte le nostre forze; consapevoli come siamo che – per dirla con il romanziere francese Leon Blois – con il trascorrere della vita non rimane che una sola grande tristezza: quella di non essere santi.
1. Tutto è grazia
“Io sono un giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città certamente non senza importanza” (At 21, 39). Ecco descritta la prima tappa del nostro pellegrinaggio paolino.
Queste parole, pronunciate da Paolo in occasione del suo arresto a Gerusalemme, e riportate negli Atti degli Apostoli, ci ricordano il primo grande dato della vita dell’apostolo. Ho parlato di un grande dato. Perché? In fondo si tratta solo di un dettaglio biografico. Non c’è dubbio. Tuttavia, in questo piccolo dettaglio biografico ci è data la possibilità di scorgere il passaggio provvidente di Dio.
Tarso, all’epoca di Paolo, era una città piuttosto importante e, questo è ciò che più ci interessa, era una città influenzata sia dalla cultura greca che dalla cultura romana. L’apostolo, dunque, fin dai tempi della sua infanzia, divenne familiare con un clima culturale in cui si intrecciavano il giudaismo e il paganesimo. Come non vedere in questo fatto un segno sicuro della Provvidenza? Colui che il Signore avrebbe chiamato ad annunciare il Vangelo non solo ai giudei, ma anche e soprattutto ai pagani della Grecia e di Roma, aveva imparato a conoscere quei mondi fin da bambino. Anche così Dio lo aveva preparato alla grande missione che lo aspettava.
Che cosa significa tutto questo per noi? Che cosa ha da dire alla nostra vita?
Ricordo ciò che sentivo ripetere spesso dai miei nonni e che, forse, tutti noi abbiamo ascoltato dalle sagge parole dei nostri parenti più anziani: “Non si muove foglia che Dio non voglia”. Per chi ha il dono inestimabile della fede tutto nella vita è grazia. “Tutto è grazia”, ripeteva sempre Santa Teresina di Gesù Bambino. Non vi è nulla, assolutamente nulla che sia dovuto al caso, a un destino ignoto e senza nome, a forze oscure e sconosciute. Tutto è nella mani di Dio e attraverso tutto Egli conduce la nostra esistenza secondo un disegno di amore. Gioie e dolori, fatiche e speranze, vittorie e sconfitte…Anche un dettaglio, apparentemente insignificante, nasconde la presenza amorosa di Colui che conduce con sapienza la storia di tutto, la storia di tutti. Per chi la sa riconoscere, questa presenza, ovviamente.
Chissà Paolo che cosa avrà pensato, ormai avanti negli anni, approdato a Roma dopo una vita spesa nell’annuncio della salvezza ai pagani, guardando indietro e ripensando alla sua città natale di Tarso! Dio aveva disposto che quello fosse il luogo della sua nascita perché egli potesse diventare ciò che era diventato: l’apostolo delle genti.
Quante volte anche noi guardiamo indietro nella nostra vita e ci accorgiamo che questo e quello è accaduto secondo un ordine bellissimo di provvidenza. Che questo sguardo di fede ci possa accompagnare in ogni giorno della nostra esperienza terrena!
2. La fecondità del martirio
“E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito»” (At 7, 58-59).
Questo altro passo degli Atti degli Apostoli ci riporta al momento tragico, eppure glorioso, del martirio del diacono Stefano. Anche qui un semplice dettaglio del narratore san Luca potrebbe passare inosservato a una lettura poco attenta. Certo, tutta la vicenda ha come protagonisti principali Stefano, da una parte, e alcuni giudei, dall’altra. Ma non si può fare a meno di osservare la presenza significativa di Saulo, ai piedi del quale quei giudei deposero il loro mantello e del quale si dice poco più avanti: “…era fra coloro che approvarono la sua uccisione”.
Anche Paolo, dunque, è tra i protagonisti del martirio di Stefano. Anzi, in verità, forse, ne è il grande protagonista. E così ci appare nelle intenzioni di Luca. L’evangelista, infatti, è attento a sottolineare che proprio Saulo, il persecutore, di lì a poco, sulla via di Damasco, dovrà arrendersi all’irruzione di Cristo nella sua vita, diventandone uno straordinario discepolo.
Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: “In quale rapporto stanno Stefano e Saulo? C’è forse una relazione tra il martirio di Stefano e la conversione dell’uomo di Tarso?”. Luca pare dirci di sì; al punto che, se Paolo ha avuto il dono dell’incontro con il Risorto, questo è stato possibile perché quell’incontro è stato Stefano a meritarlo per Paolo, versando il proprio sangue.
Come non ricordare, a questo proposito, la celebre espressione di Tertulliano: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”? Ciò che affermava l’antico autore ecclesiastico è vero per Paolo, come anche per la vita della Chiesa in ogni tempo della storia. Ed è vero anche per noi in un duplice senso. Da una parte, infatti, siamo raggiunti da una grazia tanto misteriosa quanto preziosa: quella meritata per noi da coloro che, fratelli nella fede, hanno sofferto o soffrono per la causa di Cristo. Dall’altra parte, noi stessi, con l’offerta piena di amore a Dio del sangue versato per la fede diventiamo sorgente di vita nuova per alcuni, forse per molti. Quando parlo del sangue versato mi riferisco, nel nostro caso, in via ordinaria, a quei piccoli martiri quotidiani che dobbiamo spesso subire a motivo del nostro essere di Cristo; o a quei piccoli versamenti di sangue che sono le fatiche, le difficoltà e i dolori che fanno parte della nostra vita. Tutto questo, se donato al Signore con generosità e con fede, non solo non è inutile, ma addirittura è straordinariamente fecondo per la vita della Chiesa.
Chissà che nei meriti della nostra vita non si possa annoverare anche un Paolo, qualcuno che si sia convertito a motivo di qualche nostra piccola ma generosa offerta. Vi ricordate di Santa Teresina: di quell’uomo peccatore che grazie alla sua preghiera e ai suoi sacrifici ritrovò la fede poco prima di morire? E chissà se il nostro incontro con Gesù, in quel giorno che ciascuno di noi ricorda, non debba essere felicemente imputato al sangue versato per la fede da qualcuno che ci ha preceduto. In Paradiso avremo la gioia di scoprire anche questi misteri della comunione dei santi. Ma ora, qui, siamo chiamati a crederli.
3. La vera conversione
“E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!…»” (At 9, 3-5).
Non rileggiamo mai questa pagina degli Atti degli Apostoli senza provare una forte emozione. Siamo, infatti, consapevoli, che l’episodio lì narrato ha significato una svolta decisiva per la vita della Chiesa degli inizi e di sempre.
Ma ritorniamo alle parole che San Luca ha consegnato alla storia. Gesù, il Risorto, si presenta a Saulo e lo rimprovera: ma non di perseguitare la Chiesa, bensì di perseguitare lui stesso. In verità noi sappiamo che Saulo era feroce persecutore dei cristiani; non poteva esserlo di Cristo. Eppure – questo è il senso delle parole pronunciate da Gesù – perseguitando la Chiesa, Saulo perseguitava Cristo. E’ da questo misterioso dialogo che Paolo ha appreso il grande segreto della vita della Chiesa, Corpo di Cristo. Non sarà proprio l’apostolo delle genti a donarci la stupenda presentazione di una Chiesa che è tutt’uno con il suo Signore, perché ne è il corpo, amato fino alla morte e alla morte di croce?
Soffermiamoci ancora per un momento sulle parole del dialogo tra Gesù e Saulo. Il fariseo convinto, quale era Saulo, il difensore di Dio contro “l’eresia cristiana” si ritrova a dire: “Chi sei, o Signore?”. In questa domanda ci è dato di scorgere il dramma vissuto da Paolo. Sulla via di Damasco, egli, raggiunto dalla luce del Risorto, non capisce più chi è Dio. Lui, credente tutto d’un pezzo, si ritrova nella situazione di dover rivedere il contenuto primo della sua fede: l’identità, il volto del Signore. E scopre che quel volto non corrisponde a quanto fino ad allora aveva pensato e amato. Il volto del vero Dio è un altro: ha i lineamenti di Gesù.
Così, in sintesi, possiamo affermare che nel momento della sua conversione, Paolo ha vissuto un duplice dramma e, allo stesso tempo, un duplice rovesciamento di prospettiva: uno ecclesiologico, l’altro teologico. Saulo è rinato a nuova vita, approdando alla fede nel Dio vero che si rivela nel volto di Cristo e scoprendo che Cristo è presente nella Sua Chiesa, anzi, in qualche modo si identifica con essa.
Che cosa dire riguardo a noi?
- La prima grande conversione a cui siamo chiamati ogni giorno è quella che ha a che fare con il volto di Dio. E’ forse inevitabile che, se non facciamo attenzione, un po’ alla volta si rischi di immaginare Dio a misura di se stessi. Così quel Dio parla con le parole che noi gli facciamo dire, pensa secondo i nostri criteri e, a volte, diventa una proiezione dei nostri desideri. Un Dio che non ci metta più in questione, che non ci costringa a rivedere sempre il nostro modo di vivere, che sia sempre in accordo con noi, non è il Dio vivo di Gesù Cristo, incontrato da Paolo sulla via di Damasco. Per questo dobbiamo essere vigilanti e nutrirci con abbondanza e fedeltà di quella Parola che sola, perché è di Dio, ci conduce alla scoperta progressiva del suo vero volto.
- La seconda grande conversione a cui siamo chiamati ogni giorno è quella che riguarda il nostro rapporto con la Chiesa. Ammettiamolo: qualche volta questo rapporto è conflittuale, per lo meno nei confronti degli uomini che ne fanno parte e che rischiano di rendere meno bella ai nostri occhi anche la splendida sposa di Cristo. Eppure questa Chiesa, umana e divina, dobbiamo amarla con vera passione di amore, perché Cristo l’ha amata e ha dato se stesso per lei. E perché, senza la Chiesa, Gesù non lo potremmo incontrare. E perché tutto quello che abbiamo lo dobbiamo alla Chiesa. E ancora perché, ricordando la vicenda di Paolo, ciò che facciamo alla Chiesa o diciamo di lei lo facciamo a Gesù o lo diciamo di lui. Non dimentichiamolo mai: la Chiesa è la presenza fedele di Cristo nella storia. E se di Cristo ne è la sposa, non può non essere bella e, come tale, da noi riconosciuta e ammirata.
Il primato di Dio
“Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco dove rimase tre giorni senza vedere…” (At 9, 8-9).
Questo altro brano degli Atti ci consente di rimanere ancora un momento nel mezzo dell’avvenimento che ha fatto di Paolo il grande innamorato di Cristo. Ci attardiamo sulle vicende legate alla sua conversione perché la vita e l’insegnamento dell’uomo di Tarso non li si può capire se non a partire da qui.
In che senso affermiamo questo? Conosciamo bene la principale dottrina paolina che attraversa tutte le sue lettere: la giustificazione dell’uomo in virtù della fede e non delle opere. Da dove, se non dai fatti di Damasco, Paolo ha appreso per esperienza personale la dinamica della giustificazione? In effetti, quali meriti poteva accampare Paolo per essere raggiunto da Cristo? Semmai, al contrario, sulla sua vita pesavano le colpe di una persecuzione ingiusta e feroce. Paolo è stato salvato dalla grazia di Cristo. Paolo è stato giustificato dall’amore di Gesù, un amore che non trova motivo se non nell’amore.
Quel “non vedeva nulla” di cui ci parlano gli Atti, quell’essere guidato per mano, quel rimanere tre giorni a Damasco senza vedere…tutto ci parla di qualcosa che ha il segno della gratuità e di cui Paolo è solo destinatario stupito. Non che le opere non ci siano: quante ne farà in seguito l’apostolo! Ma quelle opere saranno la conseguenza di una grazia che prima e senza merito lo ha raggiunto e alla quale egli si è affidato totalmente. Paolo è stato amato da Dio non per le opere che ha compiuto, ma per il semplice fatto che Dio è amore senza confini.
Tutto questo è vero anche per noi e ci riempie di tanta consolazione. La salvezza non è qualcosa che siamo chiamati a conquistare, ma è un dono gratuito che viene a noi dal Cuore innamorato di Cristo. Non è, allora, sbagliato quell’attivismo dal quale a volte siamo sopraffatti, quasi che la santità della nostra vita possa dipendere da ciò che facciamo per il Signore? La santità non dipende dalle opere che compiamo, ma dal nostro abbandono fiducioso a un Dio che ci ama, dal nostro lasciarci coinvolgere nella passione d’amore del Cuore di Cristo. Le opere saranno il segno di questo nostro coinvolgimento, della nostra risposta d’amore a un Amore che ci ha raggiunto e sorpreso.
Quanta strada, forse, dobbiamo fare ancora nella direzione di una vita che sia autenticamente cristiana, cioè consapevole che c’è sempre un prima rispetto alle nostre opere e che questo prima è l’amore di Dio: “…non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi…” (1 Gv 4, 10). E così è ogni giorno, ogni istante della nostra vita.
Non ne deriva qualche conseguenza pratica da tutto questo? Mi pare proprio di sì. Ed è la necessità urgente di ridare a Dio il posto che gli spetta: il primo. Così che, di conseguenza, la nostra vita di fede possa conoscere il primato della grazia e il primato della preghiera. Solo un’esistenza che fa esperienza quotidiana di questo primato può essere un’esistenza santa. Viviamola, questa esperienza quotidiana, con un programma di vita generoso e fedele.
Mi sia, a questo punto, consentita una brevissima digressione in merito alla Liturgia. Proprio lì, dove si celebrano i misteri della nostra salvezza, il primato di Dio deve brillare in tutto il suo splendore. E brillerà: se alla Liturgia diamo il tempo che le spetta, con dignità e senza fretta; se per la Liturgia impieghiamo ciò che abbiamo di più bello e nobile; se la Liturgia la viviamo con fedeltà e senza dannosi arbitri e personalismi; se nella Liturgia tutto dice orientamento al Signore, tanto nel cuore quanto nei segni esterni. Questa Liturgia non ci renderà estranei l’uno per l’altro e, tanto meno, ripiegati su noi stessi. Al contrario, questa Liturgia ci aiuterà ad amare con il cuore di Cristo e a essere un dono per tutti. Ricordiamolo: solo il primato di Dio ci rende veramente attenti ai bisogni dell’uomo. Solo dalla Liturgia discende la vera carità.
5. L’amicizia in Cristo
“Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo»” (At 9, 17).
La bella figura di Anania è la prima di molte altre che affiancheranno la vita e la missione di Paolo. Molte altre: è proprio così, se pensiamo a tutti coloro, uomini e donne, che saranno per Paolo amici, collaboratori, confidenti. Una rete di amicizie in Cristo che costituirà un punto di forza fondamentale per l’esistenza dell’apostolo.
- Ma torniamo per un attimo ad Anania. Senza di lui, chiamato dal Signore a svolgere l’opera appena ricordata, non ci sarebbe stato Paolo. Anche lui, il grande missionario dei pagani, ha avuto bisogno di qualcuno che lo prendesse per mano e lo conducesse sulla via di Cristo. Anania, con la sua presenza discreta e importantissima nella vita di Paolo, è per noi il richiamo alla necessità di avere un amico dell’anima, secondo la celebre e felice dizione di San Giovanni Bosco.
A volte, lo dobbiamo riconoscere, siamo tentati di fare da soli. C’è un momento della vita in cui ci sentiamo “adulti” nella fede e non più bisognosi di quella guida che un giorno ci ha fatto compiere i primi passi nella sequela del Signore e poi ha continuato ad aiutarci incoraggiando, illuminando, correggendo. Esiste, forse, una stagione della vita in cui tutto questo non ci è più necessario? Se consultiamo coloro che ci hanno preceduto e che hanno raggiunto la meta della santità dobbiamo rispondere di no. La direzione spirituale ci è necessaria: all’inizio del cammino della fede, come nella sua maturità e anche al suo concludersi. Non possiamo, non dobbiamo lasciare questa pratica che la saggezza di secoli di esperienza cristiana ci ha consegnato. Neppure noi consacrati.
- Si diceva della rete di amicizie in Cristo che ha segnato profondamente la vita di Paolo. Alcuni nomi tra gli altri: Tito, Timoteo, Barnaba, Lidia, Marco, Aristarco, Luca, Sila, Aquila, Priscilla, Secondo, Gaio, Tichico…La lista sarebbe ancora lunga, ricca di tanti altri nomi. Per Paolo questi nomi hanno significato condivisione della fede, dell’amore a Gesù e dell’ansia apostolica; conforto umano e sostegno spirituale; comunione fraterna nell’esperienza quotidiana e nella preghiera. Paolo non sarebbe stato Paolo senza questa rete di amicizie in Cristo.
E noi non possiamo essere quello che siamo chiamati a essere nel disegno di Dio senza una rete altrettanto bella e ricca di amicizie in Cristo. Non si può essere cristiani da soli, non si può appartenere a Cristo e assolvere il mandato a cui Egli ci chiama senza un sano coinvolgimento in quella salda amicizia nella fede che ha caratterizzato la vita dei santi. E’ strano, spesso siamo tentati di praticare il poco edificante esercizio del sospetto reciproco, della diffidenza, dell’invidia, della maldicenza, del fare ognuno da sé…Si può, forse, in questo modo, portare frutto per il bene della Chiesa e del mondo? La risposta la dobbiamo dare senza alcun tentennamento: no. E dalla risposta ne consegua un coerente stile di vita.
6. Lo slancio missionario
“Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale lo ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono” (At 13, 2-3).
Quanto abbiamo ascoltato dal racconto degli Atti ci riporta a una delle prime missioni affidate dallo Spirito a Paolo e a Barnaba. In quel viaggio missionario toccarono Cipro, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Antiochia di Siria…Quanti spostamenti nella vita di Paolo! La testimonianza storica di San Luca attesta tre grandi viaggi missionari che portarono l’apostolo, dopo aver percorso chilometri e chilometri e fondato innumerevoli comunità cristiane, fino a Roma.
Che cosa spinse San Paolo con tanta determinazione, coraggio, generosità? Il motivo fu uno solo: il desiderio di portare nel mondo la buona notizia di Gesù, Signore e Salvatore e di allargare i confini della Chiesa. “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9, 16): fu come un grido che accompagnò la vita dell’apostolo senza dargli tregua; fu come un anelito insopprimibile che si spense solo allo spegnersi della sua vita terrena.
Non si potrebbe parlare di Paolo senza per ciò stesso parlare del suo slancio missionario. Dal momento in cui il Signore lo conquistò a sé, la vita dell’apostolo fu predicazione e testimonianza, fu tutta evangelizzazione.
E’ indubbio che l’esempio paolino ci rende inquieti di una sana inquietudine: quella per la quale siamo portati a riconoscere che spesso la nostra fede è povera di zelo per la missione. Tale povertà interpella la nostra fede, certamente: imponendoci una riflessione su quanto questa sia viva e vitale. Ma tale povertà di zelo interpella anche il nostro modo di vivere in un contesto culturale nel quale tutto ci porta a dire che non è poi così necessario annunciare Cristo Redentore; e che, anzi, annunziarlo può diventare un attentato alla libertà di altri, per i quali sono aperte altre vie di salvezza e di vita.
Non è questo il luogo per addentrarsi in questioni teologiche. A noi però compete riaffermare con chiarezza che non esiste autentica fede che non sia anche missionaria; e che è necessario purificare il nostro cuore da una mentalità corrente e diffusa, chiamata “corretta”, che ci vorrebbe rinchiusi nei nostri piccoli cerchi privati, magari devoti ma anche insignificanti nella pubblica piazza. Ma questo non può e non deve essere. Nessuno è privato della propria libertà dalla proposta cristiana chiara e integrale. E non possiamo tenere per noi ciò che il Signore ci ha dato in consegna come dono per tutti.
7. L’amore per Cristo
“Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20).
Eccoci così giunti all’ultima tappa del nostro pellegrinaggio spirituale attraverso alcuni aspetti salienti della vita di San Paolo. E’ inutile dire che tanti altri fatti e tratti dell’apostolo avrebbero dovuto essere al centro della nostra meditazione. Ma questo è un compito ulteriore che rimane consegnato alla nostra personale responsabilità.
Il passo della lettera ai Galati, appena citato, ci conduce al cuore dell’esperienza spirituale paolina e, in fondo, al segreto vero della grandezza dell’apostolo. Paolo è stato grande, Paolo è grande perché si è lasciato afferrare completamente dall’amore di Gesù, ne è rimasto conquistato, di Lui si è rivestito fino a diventare con Lui una sola cosa. “Per me vivere è Cristo” dirà scrivendo ai Filippesi (1, 21).
Davvero per l’apostolo delle genti la fede non è stata un semplice ideale, né una dottrina e neanche un insieme di leggi e di norme. Per lui la fede è stata una Persona viva, della quale ha scoperto l’amore sconvolgente e alla quale si è rivolto lasciandosi coinvolgere con la totalità della sua vita. Paolo, insomma, amato da Gesù, ha amato Gesù: con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, con tutto se stesso. E ha vissuto di Lui e per Lui.
Tutto era iniziato sulla via di Damasco, come abbiamo ricordato. Tutto si concluderà a Roma dove Paolo vivrà il suo amore per Cristo fino a dare la vita per Lui. La storia tra questi due poli è stata tutta una storia di amore, appassionante e bellissima.
Impariamo dal grande apostolo, invochiamolo nella nostra preghiera: anche la nostra piccola storia possa essere una appassionante e bellissima storia di amore.