Meditazione
Casa delle Missionarie delle Divina Rivelazione
Roma
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* Siamo già arrivati a celebrare la Terza Domenica di Quaresima! Questa semplice osservazione del tempo, che scorre implacabile, è un invito interrogarci con serietà.
- Come sto vivendo i giorni di grazia che il Signore mi sta donando ancora una volta?
- La Quaresima suscita in me il desiderio di camminare con più slancio nella via della santità?
- Mi sono interrogato sui punti deboli della mia vita spirituale?
- Sto redigendo un serio programma di vita spirituale, formulando propositi concreti?
Alla luce di queste domande mi sta a cuore sottolineare un elemento chiave per il progresso della vita interiore. Raccontava un sacerdote di avere ricevuto il seguente suggerimento da un padre gesuita che guidava un corso di esercizi spirituali: “La vedi quella gru? – disse il predicatore rivolgendo lo sguardo a una gru che si poteva vedere fuori della finestra – Facendo leva su un unico punto, riesce a sollevare pesi enormi. In un certo senso, anche tu devi individuare il punto fragile della tua esistenza. Sollevando quello, alzerai il livello della tua vita spirituale, tutta intera”.
E’ proprio individuando con chiarezza il proprio “tallone di Achille” che possiamo formulare propositi efficaci di conversione. Questo “tallone di Achille” forse lo conosciamo già, forse no. Questo è il tempo nel quale metterci seriamente al lavoro per metterlo bene a fuoco e per riportare su di esso una qualche vittoria.
* Siamo di nuovo in Quaresima! Una tale affermazione, che non di rado si rinnova sulle nostre labbra, potrebbe rivelare un duplice stato d’animo: o indicare un senso di mal celata sopportazione per un appuntamento che si ripete e che, in qualche modo, ci pesa; oppure esprimere la gioia per un’opportunità nuova che la grazia di Dio offre alla nostra vita di fede.
Non c’è alcun dubbio: noi sentiamo decisamente di appartenere a coloro che provano quest’ultimo stato d’animo. E, probabilmente, non avremmo alcuna esitazione a operare questa scelta di campo davanti a quanti ci domandassero conto dei sentimenti provati all’inizio di una nuova Quaresima. Ma…, c’è un “ma” di fronte al quale dobbiamo porre noi stessi con grande sincerità. Il “ma” deriva dal fatto che, se guardiamo indietro nella nostra vita, ci accorgiamo che le Quaresime che abbiamo vissuto sono state molte e non sempre hanno dato i frutti sperati.
C’è, dunque, un problema al quale dobbiamo dare risposta, per il quale è indispensabile trovare soluzione. Il problema è che non sempre, se siamo davvero sinceri, ci ritroviamo nella gioia interiore per l’inizio di un nuovo tempo quaresimale: oggi come anche in passato. Forse, almeno un po’, ha pesato e pesa anche a noi entrare con decisione in un nuovo itinerario penitenziale. E se pure siamo animati da una certa buona volontà, ci introduciamo nel cammino quaresimale senza particolare gioia e procediamo con una certa stanchezza.
1. Una duplice forma di malattia dello spirito
Possiamo ritrovare in un tale atteggiamento del cuore una duplice forma di malattia spirituale. E’ bene, da subito, analizzarla per potervi porre rimedio.
- Anzitutto, nella sua prima forma, tale malattia assume le caratteristiche della mancanza di fiducia. “Ho provato già tante volte…!”. Ho provato negli anni passati, ma ancora mi ritrovo al punto di partenza o solo poco più avanti rispetto a dove mi trovavo allora”: non vale la pena riprovare ancora”. Ravvisiamo qui una sorta di “disperazione”, secondo l’accezione che questa parola ha nel vocabolario della vita spirituale. Ovvero, si nota una mancanza di speranza nelle proprie capacità di cambiamento che, alla fine, si risolve in una mancanza di fede nella potenza trasformante della grazia di Dio.
Così il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce il peccato di disperazione: “Per la disperazione, l’uomo cessa di sperare da Dio la propria salvezza personale, gli aiuti per conseguirla o il perdono dei propri peccati” (n. 2091). Prigionieri di questa “disperazione” spirituale ci limitiamo a portare avanti la nostra vita nel segno di quella mediocrità che un giorno avevamo promesso non sarebbe mai stata la regola della nostra sequela di Gesù. In quel giorno, infatti, avevamo detto a noi stessi e al Signore che, in ogni modo e con tutte le nostre forze, avremmo ricercato la santità.
E’ di vitale importanza che diventiamo consapevoli di questo atteggiamento del cuore, se fosse il nostro in questo momento. Perché da questo torpore è necessario risvegliarsi con urgenza. La santità deve ridiventare il senso della nostra risposta alla chiamata di Dio. Non arrendiamoci di fronte alle passate sconfitte, subite nella lotta. Abbiamo peccato, è vero: ma Dio è misericordia infinita. Siamo deboli e poveri, ma Dio è grande e potente nell’amore. Forse abbiamo perso qualche battaglia, ma l’esito della guerra non è stato ancora deciso. E noi, questa guerra la vogliamo vincere ad ogni costo, costi quello costi. Ne va della felicità autentica della nostra vita. - C’è, poi, una seconda forma della malattia interiore di cui stiamo parlando. Qui ci ritroviamo esattamente all’opposto della forma precedente: perché in questo caso viviamo una sorta di “presunzione” dello spirito. Una presunzione in virtù della quale ci pare di non avere altro da aggiungere a ciò che già siamo e alle mete che abbiamo conseguito.
Così il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce il peccato di presunzione: “Ci sono due tipi di presunzione. O l’uomo presume delle proprie capacità (sperando di potersi salvare senza l’aiuto dall’Alto), oppure presume della onnipotenza e della misericordia di Dio (sperando di ottenere il suo perdono senza conversione e la gloria senza merito)” (n. 2092).
Se nella forma precedente della malattia ci si incontrava con una mancanza di fiducia nella forza trasformante della grazia di Dio, qui ci si incontra con una non corretta comprensione del mistero dell’amore di Dio. In entrambi i casi certamente è in questione l’uomo: che “dispera” nel primo caso e che “presume” nel secondo. Ma in verità, se andiamo più a fondo del fenomeno, ci si accorge che in questione è sempre il volto di Dio. Infatti colui che “dispera” non crede che il Signore possa cambiarlo, mentre colui che ”presume” non pensa che Dio possa sorprenderlo con nuove e inaspettate richieste d’amore e che Egli sia sempre più in là di quanto si possa immaginare.
Il campanello di allarme che deve metterci in guardia, in questo caso, è l’assenza di slancio interiore, la percezione falsa che il Signore ormai lo si conosca abbastanza e non abbia più nulla da dirci di nuovo, l’abitudine nefasta alle cose di Dio che ormai non sorprendono più e non costituiscono più né motivo di meraviglia, né motivo di gioia interiore.
Ci si potrebbe domandare a questo punto: “Appartengo anch’io alla categoria dei “disperati”, oppure a quella dei “presuntuosi”, o addirittura all’una e all’altra?”. In verità, se ci osserviamo con cura e siamo sinceri, ci accorgiamo che tutti noi siamo un po’ “disperati” e un po’ “presuntuosi”. L’esito, se pure per vie diverse, è lo stesso in entrambi i casi: la mediocrità della vita cristiana, la resistenza all’amore di Dio che chiama alla perfezione della carità. L’esatto contrario di ciò che è costitutivo della nostra vocazione; l’esatto contrario di ciò che ci eravamo proposti all’inizio della nostra storia di amore con il Signore. Proprio per questo tutti abbiamo bisogno di conversione e proprio per questo il tempo della Quaresima, per tutti, è un tempo di grazia da accogliere con la gioia nel cuore. Mediocri no, non possiamo e non dobbiamo sopportare di esserlo! Di conseguenza, né disperati, né presuntuosi. Ma innamorati, ancora una volta e sempre di più, del Signore che ci invita a sé.
2. Tempo di conversione
La usiamo con così tanta frequenza, che ormai questa parola – “conversione” – rischia di non avere più la capacità di muovere il cuore e di mettere in movimento quei dinamismi generosi che inducono al cambiamento della vita.
E’ per questo che all’inizio del percorso quaresimale, il mercoledì delle Ceneri, la Chiesa ci fa riascoltare la parola chiave con la quale Gesù dà inizio al suo ministero pubblico. E ce la fa riascoltare nel momento toccante in cui riceviamo sul capo il segno delle ceneri, richiamo eloquente a ciò a cui siamo destinati – la cenere, la polvere, appunto – se ci collochiamo al di fuori dell’orizzonte dell’amore di Dio. “Convertitevi e credete al Vangelo”, dice il Signore. Potessimo metterci in ascolto di queste parole come se le udissimo per la prima volta! E potessero essere per noi un richiamo suadente a una vita del tutto diversa da quella che stiamo conducendo!
Forse ci può venire in aiuto l’esperienza sempre nuova e affascinante dei grandi convertiti. Quanti ne conosciamo dalla storia della Chiesa! Alcuni, magari, li conosciamo perché ci vivono vicini. Per tutti si ripete quanto accadde a Sant’Agostino, quel giorno che per sempre rimase impresso nella sua memoria e che lo portò ad affermare: “Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai… Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete di te; mi toccasti, e arsi del desiderio della tua pace” (Confessioni 10, 27, 38).
Per tutti i convertiti si ripete la gioia di una scoperta che provoca il cambiamento radicale della vita. Che non è cambiamento di qualche particolare, pur significativo, del proprio modo di pensare o di comportarsi. Che non è solo trasformazione alla superficie di un genere di vita che rimane sostanzialmente uguale a se stesso. E’, al contrario, una trasformazione in radice di tutto l’essere, della mente e del cuore, dell’intelligenza e della volontà, dei sentimenti e delle emozioni. Conversione, come dice la parola stessa, è un rivolgimento completo, totale della vita, che prende una direzione del tutto diversa a quella percorsa in precedenza.
E’ proprio questa la conversione che è richiesta a noi nel tempo della Quaresima. Vale la pena, in proposito, riascoltare quanto detto dal Santo Padre durante l’udienza generale, proprio in occasione del Mercoledì delle Ceneri, inizio del percorso quaresimale: “Il primo richiamo è alla conversione, parola da prendersi nella sua straordinaria serietà, cogliendo la sorprendente novità che essa sprigiona. L’appello alla conversione, infatti, mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere. Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con una vera e propria inversione di marcia. Conversione è andare controcorrente, dove la “corrente” è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale. Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù. E’ la sua persona la meta finale e il senso profondo della conversione, è lui la via sulla quale tutti sono chiamati a camminare nella vita, lasciandosi illuminare dalla sua luce e sostenere dalla sua forza che muove i nostri passi. In tal modo la conversione manifesta il suo volto più splendido e affascinante: non è una semplice decisione morale, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù. Convertirsi e credere al Vangelo non sono due cose diverse o in qualche modo soltanto accostate tra loro, ma esprimono la medesima realtà. La conversione è il “sì” totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. Proprio questo è il senso delle prime parole con cui, secondo l’evangelista Marco, Gesù apre la predicazione del “Vangelo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15)”.
Delineata così la conversione a cui siamo chiamati nell’itinerario quaresimale, ci soffermiamo ora a considerare qualche tratto più specifico del cambiamento che ci è richiesto. Ci domandiamo, in altre parole: che cosa può significare concretamente per me consegnare totalmente la mia vita al Vangelo, affidarla senza riserve al Signore? Cerchiamo di rispondere a queste domande tenendo presente la straordinaria esperienza spirituale del Santo Curato d’Ars. Sappiamo che il Papa, per l’Anno sacerdotale in corso, l’ha additato a esempio per ogni sacerdote. E’ certo però che la sua esemplarità è valida anche per tutti noi.
L’abbandono senza condizioni alla volontà di Dio
Chi ha avuto modo di leggere la biografia di San Giovanni Maria Vianney sa che uno dei fiori all’occhiello del suo ministero, nel piccolo villaggio vicino a Lione, era stata l’istituzione di un orfanotrofio e di una scuola femminile, la “Providence”. Per più di venti anni, la “Providence” fu, in qualche modo, la sua casa. Infatti vi si recava non solo per compiere i doveri del ministero, ma anche per consumare i pasti e per incontrare con grande amabilità le piccole orfanelle che vi erano ospitate. A quelle ragazze, provate dalla vita, era particolarmente affezionato: l’istituto lo aveva voluto per loro e alla loro preghiera attribuiva una singolare efficacia.
Trascorsi poco più di vent’anni dall’inizio dell’opera, la “Providence” venne affidata a una Congregazione religiosa femminile, che vi impresse un nuovo orientamento educativo. Lo stesso Vescovo della Diocesi sollecitò il cambiamento, temendo che l’istituzione non sarebbe sopravvissuta alla scomparsa del suo fondatore.
E’ fuori di dubbio che questo fatto provocò al Curato d’Ars una grande sofferenza. Si trovava costretto ad abbandonare un’opera che egli aveva prima pensato, poi faticosamente avviato e, infine, con soddisfazione consolidato. Eppure accettò ogni cosa, senza recriminazioni, e collaborò da subito con le religiose di San Giuseppe che erano subentrate nella direzione educativa dell’opera.
San Giovanni Maria Vianney visse con totale abbandono alla volontà di Dio anche questo non facile passaggio della sua vita e del suo ministero. Non siamo lontani dal vero se affermiamo che nell’esperienza spirituale del Curato di Ars è possibile ritrovare qualche tratto del percorso interiore di Abramo. Riportiamo alla mente il famoso passo della Genesi: “Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò»” (12, 1). “Vattene”: la formula ebraica della frase ha una forza perentoria. E Abramo, a partire da quel momento, non avrà più un luogo sul quale abitare, una sua casa, una sua patria. Da quel momento tutto sarà lasciato alle spalle e la sua patria sarà solo ed esclusivamente la voce di Dio.
Per San Giovanni Maria Vianney è stato così. La sua vita non ha avuto che una patria: la voce di Dio, alla quale si è affidato sempre e senza condizioni. Ed è per questo che non ha posto obiezioni anche quando si è trattato di abbandonare la “Providence”. Quella – la “Providence” – poteva essere abbandonata: era come la sua terra, la sua parentela, la casa di suo padre. Ciò che non si poteva assolutamente abbandonare era la voce di Dio, alla quale una volta per sempre si era affidato.
Ci accorgiamo che la strada che abbiamo da percorrere è ancora molta. Possiamo forse dire, oggi, che la voce di Dio, la Sua Parola è la nostra patria quotidiana? Possiamo davvero affermare che siamo così totalmente consegnati al Vangelo da metterlo prima di tutto, sempre e comunque? Siamo nella condizione di essere pronti ad abbandonare qualunque cosa pur di rimanere nella volontà di Dio?
Ci rendiamo conto che la conversione ci è necessaria. E la Quaresima ritorna ogni anno a ricordarci questa necessità.
Il primato della preghiera
La parrocchia di Ars, nella quale San Giovanni Maria Vianney sarebbe rimasto per oltre quarant’anni, non si distingueva certo per la qualità alta della vita cristiana. La frequenza alla Messa domenicale era molto scarsa, l’ignoranza religiosa dilagava, le osterie erano frequentate assiduamente e così anche i balli pubblici, caratterizzati da disinvolta promiscuità. Eppure alcuni anni dopo l’arrivo del Santo Curato, si cominciò a dire che “Ars non era più Ars”. In effetti gli abitanti di quella parrocchia andavano ispirando sempre di più il loro stile di vita al vangelo del Signore.
Ci si potrebbe chiedere, con ragione, il motivo di un cambiamento tanto sorprendente. E alla domanda sarebbe lecito rispondere citando lo zelo pastorale di San Giovanni Maria Vianney che, in effetti, fu instancabile pastore del suo gregge. Tuttavia, e sono le sue parole insieme all’esempio della sua vita a suggerirlo, il vero motivo di un tale cambiamento nello stile di vita degli abitanti di Ars fu la preghiera del Santo Curato.
Egli, ad esempio, passava ore e ore davanti al Tabernacolo, a colloquio intimo e confidente con il Signore presente nella SS. Eucaristia. E come non ricordare la sua Messa che per tutti era una vera e propria scuola di adorazione e di fede? Dire San Giovanni Maria Vianney è dire un uomo che non solo pregava ma che si era fatto preghiera.
In tal modo il Curato d’Ars è l’ennesima riprova che dove sboccia la santità lì c’è sempre una grande vita di preghiera. Se, dunque, la nostra ferma risoluzione è quella di aspirare alla santità non possiamo fare a meno di mettere al primo posto del nostro programma di vita un’intensa e ininterrotta preghiera.
Che cosa dire in proposito a nostro riguardo? Dobbiamo ammettere, con un po’ di tristezza, che il Signore non sempre è al primo posto nella gerarchia dei nostri interessi, del nostro tempo, dei nostri affetti. Ogni ragione è buona per rimandare a un momento successivo il nostro incontro orante con Dio. “Ci sono tante cose da fare!” è la motivazione dietro la quale ci rifugiamo spesso per scusare la povertà della nostra preghiera. In verità, lo dobbiamo ammettere con sincerità: la povertà della preghiera è una povertà di fede e di amore. Di fede: perché forse non crediamo davvero che la preghiera è il momento dell’incontro a tu per tu con il Signore, il tutto della nostra vita. Di amore: perché quando si ama non c’è occupazione che possa tenere distante da colui che è l’amato.
Sulla preghiera, intesa nella sua qualità come anche nella sua quantità di tempo, giochiamo il nostro cammino di santità. E non solo. Giochiamo anche la nostra possibilità di incidere realmente nella storia degli uomini, di essere apostoli fecondi che lasciano traccia di Cristo nelle anime incontrate.
La sfida della carità
Ad Ars, nel 1853, ci fu un avvicendamento dei vicari parrocchiali: l’abbé Toccanier prese il posto dell’abbé Raymond, che per otto anni era stato il più stretto collaboratore del Santo Curato.
Ed è proprio della relazione di San Giovanni Maria Vianney con l’abbé Raymond che vale la pena ricordare qualche particolare. I rapporti tra loro non furono certamente facili. Considerando anche le testimonianze rilasciate in occasione del processo di canonizzazione, si apprende che l’abbé Raymond, di venti anni più giovane del Curato, si considerava una specie di tutore del suo parroco. Lo trattava spesso con durezza e non esitava a contraddirlo anche in pubblico. Spesso ne feriva la delicata sensibilità con la mancanza di delicatezza nel tratto, incurante per giunta dell’età e della fama di santità che già circondava la figura del Vianney. In verità il Raymond desiderava diventare parroco di Ars e, consultando i registri parrocchiali di quegli anni, ci si accorge con sorpresa che egli si firmava “curato della parrocchia”. Vale la pena ricordare che il nostro santo era stato in passato benefattore del Raymond; infatti gli aveva pagato la retta, necessaria per frequentare il seminario.
Come capita spesso in tali circostanze, anche ad Ars succedeva che molta gente riferisse tutto al Santo Curato con vera indignazione, si lamentasse del comportamento del vicario parrocchiale e chiedesse che fosse informato il Vescovo così che il Raymond fosse trasferito altrove. Ma è noto che i santi non si lasciano coinvolgere in ragionamenti troppo umani. In effetti, San Giovanni Maria Vianney non mancava di difendere il suo vicario, rispondendo così alla sua gente: “Oh, egli mi dice solo la verità; quanto gli sono riconoscente! Se qualcuno lo farà partire, io me ne andrò insieme a lui”. Ovviamente qualche voce di quanto accadeva ad Ars giunse alle orecchie del Vescovo, tra l’altro grande amico del Vianney, che volle informarsi. Subito il Curato gli scrisse: “Non ho nulla di speciale da riferire a Vostra Grandezza circa Monsieur Raymond, eccetto che egli merita un posto d’onore nel vostro cuore, in cambio di tutti i gesti di bontà che egli ha per me”.
Davvero nel comportamento del Curato d’Ars ritroviamo vissuto fedelmente l’invito di San Paolo a “vincere il bene con il male” (cfr. Rm 12, 21). Ci troviamo davanti a un esempio eroico di carità fraterna secondo il Cuore del Signore che alla fine è sempre vittoriosa. Al riguardo ascoltiamo quanto ebbe a dire proprio l’abbé Raymond, interrogato durante il processo canonico: “Non ho che un rimpianto, quello di non avere sufficientemente approfittato dei suoi esempi; tuttavia conto sull’affetto tenero e paterno, che egli mi ha testimoniato”. E’ interessante anche ricordare che il Raymond iniziò a scrivere una biografia del suo antico parroco. Purtroppo non riuscì a terminarla, consegnando alla storia solo alcuni frammenti dei suoi ricordi.
Ora, però, a noi interessa guardare all’esempio del Curato d’Ars per ritrovarvi lo stimolo a una vita di carità più vera di quanto non sia stata fino a oggi. Tutti, senza eccezione, ci ritroviamo debitori davanti al Signore quando ci esaminiamo sulla carità. Non possiamo mai arrivare a dire di aver fatto tutto quello potevamo e dovevamo per essere conformi al grande comandamento dell’amore. Il tempo della Quaresima ci deve trovare particolarmente impegnati in questo settore della vita spirituale. Soprattutto nei rapporti quotidiani, concreti, abituali: quelli che ci pongono a contatto con i fratelli e le sorelle che per tanti motivi non è facile amare, e amare dal profondo del cuore, ricercando cioè il loro bene autentico davanti a Dio.
Perché ci sia di ulteriore aiuto nel formulare propositi generosi di carità fraterna, ricordiamo ancora un episodio nel rapporto tra il Curato d’Ars e l’abbé Raymond. Venne un giorno in cui il limite di sopportazione per la pazienza del Vianney fu superato. Così, pensando di non farcela più, il nostro Santo chiese a un confratello molto fidato di preparargli una lettera da inviare al Vescovo. Appena però la lesse, la strappò e aggiunse. “Ci ho pensato bene. Nostro Signore ha portato la croce. Anch’io posso fare come ha fatto lui”. Tentiamo anche noi, almeno un poco, di imitare un tale eroismo di carità che sa trasformare tante piccole e grandi situazioni di sofferenza in partecipazione alla croce di Gesù.
3. La conversione per la testimonianza
Ciò su cui ci siamo soffermati a meditare riguarda certamente la nostra vita personale, ma è pur vero che, nell’esperienza della fede, quanto attiene al nostro progresso spirituale coinvolge sempre anche l’esistenza di altri: a cominciare da quelli che ci sono più vicini per raggiungere coloro che forse neppure mai avremo modo di conoscere e incontrare. Si tratta del mistero stupendo della comunione dei santi.
Tanto ci sarebbe da dire in proposito. Per quanto riguarda coloro che sono lontani, ci basti ricordare che il nostro personale avanzamento nella vita della grazia è sempre un beneficio per tutta la Chiesa. Mentre ogni arretramento nella vita della grazia è sempre anche una ferita inferta al Corpo mistico del Signore.
Aggiungiamo invece una parola per ricordare quanto bene la nostra crescita in santità può fare a coloro che hanno motivo per avvicinarsi a noi e di condividere almeno in parte il nostro cammino di vita. Al riguardo mi piace citare quanto ebbe ascrivere un giovane alla sua mamma, quasi in forma di poesia:
“Quando pensavi che non stessi guardando,
hai appeso il mio primo disegno al frigorifero
e ho avuto voglia di continuare a stare a casa nostra per dipingere.
Quando pensavi che non stessi guardando,
hai dato da mangiare a un gatto randagio
ed è allora che ho capito che è bene prendersi cura degli animali.
Quando pensavi che non stessi guardando,
hai cucinato apposta per me una torta per il mio compleanno
e ho compreso che le piccole cose possono essere molto speciali.
Quando pensavi che non stessi guardando,
hai recitato una preghiera
e io ho cominciato a credere nell’esistenza di un Dio con cui si può parlare.
Quando pensavi che non stessi guardando,
mi hai dato il bacio della buona notte
e ho capito che mi volevi bene.
Quando pensavi che non stessi guardando,
ho visto le lacrime scorrere dai tuoi occhi
e ho imparato che, a volte, fanno male
ma che piangere fa bene.
Quando pensavi che non stessi guardando,
hai sorriso e ho avuto voglia di essere gentile come te.
Quando pensavi che non stessi guardando,
ti sei preoccupata per me
e ho avuto voglia ridiventare me stesso.
Quando pensavi che non stessi guardando,
io guardavo
e ho voluto dirti grazie per tutte quelle cose che hai fatto,
quando pensavi che non stessi guardando”.
Gli altri ci guardano, tutti ci guardano, un mondo che è lontano da Dio ma di Lui assetato ci guarda. Quale spettacolo offriamo? Senza che neppure ce ne accorgiamo, se ci incamminiamo con risolutezza nella via della conversione al Signore, la nostra vita non può che diventare un faro capace di illumina la vita di molti. Così possa essere per ciascuno di noi in questa Quaresima. Ricordando ciò che ebbe a dire il beato Cardinale Schuster ai seminaristi della sua Diocesi che gli chiedevano una parola di ricordo, pochi giorni prima di morire: “Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione; ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. Ricordate le folle alla bara di don Orione? Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi: ha paura, invece, della santità”.