Suore Pie Discepole,
Città del Vaticano
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“Non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”
Di recente, all’approssimarsi della conclusione dell’anno liturgico (Santa Messa di giovedì della XXXIII settimana del Tempo Ordinario), la Chiesa ci ha permesso di riascoltare il brano del vangelo di Luca nel quale Gesù, alla vista di Gerusalemme ormai vicina, esclama piangendo: “ Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19, 41-44).
E’ una pagina di vangelo commovente e drammatica insieme. Si descrive la sordità e la cecità della Città Santa a fronte della salvezza donata da Dio. Si delinea la tragedia che incombe sull’antico popolo dell’alleanza, divenuto incapace di riconoscere il volto del suo Dio.
D’altra parte il pianto e le parole del Signore possono essere da noi comprese anche in chiave personale e, dunque, in quanto indirizzate all’uomo di ogni tempo, e a noi oggi. Non è, pertanto, fuori luogo aprire la pagina di san Luca, appena citata, mettersi in ascolto attento delle parole di Gesù, rimanere a fissare il suo sguardo commosso e verificare puntualmente la nostra vita. Forse che possa valere anche per noi il dramma dell’incomprensione del giorno che porta la pace? Forse che possa riguardare anche noi la tragedia spirituale che si accompagna al mancato riconoscimento del tempo in cui Dio viene a visitarci?
Sono domande importanti, cui nessuno può sottrarsi. Domande che riguardano il nostro passato, remoto e prossimo; ma anche domande che riguardano il nostro presente e il nostro domani. Anzi, in questo tempo segnato dall’inizio dell’Avvento e dall’aprirsi di un nuovo anno liturgico, è bene che queste domande siano formulate soprattutto in relazione al cammino che ci attende. Coltiviamo, infatti, il proposito e la speranza che la sordità e la cecità che possono avere caratterizzato la vita di ieri non si ripropongano nell’itinerario di fede che sta davanti a noi.
Perché proposito e speranza possano diventare realtà si rende necessario mettere in atto la custodia del cuore.
La custodia del cuore
Questa terminologia, cara alla tradizione spirituale cristiana, la troviamo riproposta autorevolmente nel Catechismo della Chiesa Cattolica laddove si parla del tema della vigilanza (cfr. n. 2849).
L’accostamento “custodia del cuore – vigilanza” è di sicuro interesse. Certamente in riferimento a quanto è stato richiamato attraverso la pagina del vangelo di san Luca, ovvero la possibilità di mancare all’appuntamento con la visita del Signore alla nostra vita. Ma anche in relazione al tempo di Avvento, nel quale ci siamo appena introdotti. Non è questo, infatti, il periodo dell’anno liturgico nel quale siamo richiamati ripetutamente a disporci in stato di vigilante attesa del Signore che viene a visitarci? E, di conseguenza, non sono questi i giorni più indicati per coltivare la custodia del cuore, perché rimanga vigile, perché sia attento a riconoscere il Signore che viene, perché non succeda che il suo torpore ci renda distratti e impreparati per “l’istante” di Dio?
Abbiamo certamente capito che praticare la custodia del cuore significa ravvivarne l’atteggiamento virtuoso della vigilanza. Vale la pena, probabilmente, fare a questo punto una precisazione. Un cuore che vigila perché attende è un cuore che ama, che è proteso verso l’oggetto del suo desiderio. Il cuore che veglia è il cuore che sa che cosa è l’amore o che, perlomeno, è capace di intuire che solo in esso sta la risposta ai grandi “perché” della vita. Ciò che è vero già da un punto di vista umano, acquista un particolare rilievo dal punto di vista soprannaturale. La grazia del Battesimo, infatti, ci ha donato un cuore nuovo, un cuore “toccato” dall’Amore e capace di amare Dio al modo di Dio, un cuore proteso verso l’Amato e, dunque, animato dal desiderio crescente di riconoscerlo, vederlo, incontrarlo. E’ questo cuore che necessita di custodia, perché è questo cuore che rimane soggetto alla tentazione di volgersi altrove, di ripiegarsi su di sé perdendo di vista il termine vero di ogni suo desiderio, di smarrire la propria più vera identità.
Custodire il cuore, pertanto, significa custodirlo nell’Amore, custodirne la capacità di amare Dio e, in Dio, il prossimo e ogni altra realtà.
A noi tutti questa custodia è assai cara. Ed è per questo che siamo anche alla ricerca di quei mezzi che ci consentano di praticarla con frutto spirituale abbondante. Soffermiamoci, pertanto, a considerare almeno alcuni di tali mezzi preziosi.
A tal fine ci viene incontro la tradizionale e saggia tripartizione, che considera la vita interiore dell’uomo nel suo triplice orientamento: Dio, il prossimo, se stessi.
La preghiera
Per custodire il cuore è necessario, anzitutto, custodire il primato di Dio nella nostra vita. Ma un tale primato rimane solo una parola vuota se non lo si coltiva con la preghiera.
Sappiamo quante diverse espressioni possa avere la nostra preghiera, a cominciare da quella personale e intima per arrivare a quella comunitaria. Desidero, in questo contesto, indicare due forme di preghiera, attingendo sia da quella personale che da quella comunitaria. Mi riferisco all’adorazione eucaristica e alla liturgia. La custodia del cuore nell’Amore passa anche e soprattutto di lì.
- L’atto dell’adorazione eucaristica, già di per sé, conduce al centro vitale dell’esperienza della fede. Adorare, infatti, significa riconoscere la presenza di Dio nella propria vita come la realtà prima e più importante, rinunciando temporaneamente a tutto il resto, per ritornare, poi, a tutto il resto in un modo nuovo, ovvero nella luce del primato di Dio. In questo senso, soltanto chi si ferma e adora è capace di attraversare la vita per Dio, con Dio e in Dio.
Dal momento che l’Avvento è un tempo forte dell’anno liturgico e, di conseguenza, un momento particolarmente indicato per ritrovare la precedenza della presenza del Signore rispetto a ogni altra realtà, siamo chiamati a donare all’adorazione eucaristica un tempo più ampio. Con qualche attenzione che è bene ricordare.
Adorare l’Eucaristia significa amare. Anzi, l’adorazione è l’atto dell’amore più intenso, di quell’amore che non trova più altra via di espressione se non quella del silenzio estatico, sorpreso e grato. Non più la parola, non più il canto, neppure più il gesto. Ma il “rimanere davanti” all’Amato, quasi a perdersi in Lui. E’ per questo che non si può dare autentico primato di Dio nella nostra vita se non attraverso l’esperienza dell’adorazione. Di recente, all’Angelus di domenica scorsa (27 novembre), il Santo Padre ricordava che l’Avvento ci aiuta a riconoscere che il “vero padrone del mondo è Dio”. L’adorazione eucaristica, con il suo richiamo a “stare”, abbandonando ogni altra cosa e anche se stessi, è l’affermazione orante della signoria di Dio sul nostro mondo.
Adorare l’Eucaristia conduce a fare dell’intera vita un atto di adorazione. Se così non fosse il nostro non sarebbe un autentico atto adorante. Quel tempo limitato, infatti, nel quale ci fermiamo davanti alla presenza di Dio chiede di essere dilatato sull’intero arco della quotidianità. In tal modo non vi sarà aspetto dell’esistenza vissuto indipendentemente dal Signore, a prescindere dal suo amore. Chi rimane in adorazione davanti all’Eucaristia non può fare a meno di conservare viva in sé l’impronta dell’esperienza di Dio che dona forma alla vita tutta intera.
Adorare l’Eucaristia educa a riconoscere le sorprese di Dio. Soltanto la parola del Signore può indurre l’uomo a piegare le ginocchia davanti a un piccolo frammento di pane. E’ la rivelazione di Dio che abbatte l’incredulità della mente umana di fronte al mistero di una sua tale presenza nella storia. E’ sorprendente! Ma le sorprese di Dio da sempre caratterizzano il suo agire per l’umanità. E hanno il loro momento culminante a Natale, nel mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi in un bambino piccolo e indifeso. Da allora, in un modo del tutto particolare, la sorpresa rimane il sigillo della venuta e della presenza del Signore nella vita degli uomini e del mondo. Quando ci prostriamo dinanzi all’Eucaristia affermiamo di accogliere la sorpresa di Dio e impariamo quello sguardo della fede che solo è capace di riconoscere il mistero di Dio, nascosto nella piccolezza della nostra realtà. - La liturgia è il cuore della vita della Chiesa e di ciascuno di noi. Soprattutto perché lì si rinnova l’oggi della salvezza e la nostra possibilità di entrare in comunione con essa. E’ questo il motivo che segna il primato della preghiera liturgica su qualsiasi altra forma di preghiera cristiana.
Il rito liturgico è sempre uno spazio aperto nel tempo dell’uomo dentro il quale si riversa il mondo di Dio, che è per noi e per il bene della nostra vera vita. Nessuna preghiera personale può raggiungere queste altezze, che non sono il risultato della ricerca faticosa dell’uomo, ma un dono che discende dall’alto dei Cieli, grazia inestimabile del Signore.
In tal modo, il tempo dell’Avvento deve trovarci particolarmente attenti a ritrovare la centralità della preghiera liturgica come luogo primario del nostro incontro con il Signore, della sua conoscenza e del suo amore.
Per quale motivo per noi il Natale non è un semplice ricordo di un avvenimento passato, ma un’esperienza di vita che tocca il nostro presente? E come può essere che il Figlio di Dio incarnato sia fonte di salvezza ancora per l’oggi ? La risposta è: la liturgia. Perché nella liturgia il Salvatore è davvero presente: come Colui che è con noi, vivo, fino alla fine del mondo; operante per noi, sempre, in ogni istante del tempo, con la sua parola, la sua carne, il suo sangue, tutto se stesso.
Quanto affermato per il Natale deve essere detto anche per l’Avvento e per la grazia singolare che esso porta con sé. L’attesa, infatti, che lo caratterizza, non è semplicemente il richiamo a una condizione emotiva e psicologica da rivitalizzare. E’ piuttosto uno spazio aperto nel quale è possibile entrare per rivivere l’attesa di tutte le genti orientate alla venuta del Salvatore, per partecipare all’anelito profondo che attraversa tutto il creato fino alla fine dei tempi. Per essere, dunque, anche noi spiritualmente contemporanei della comune esperienza umana e cosmica che invoca: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi”.
La liturgia ci aiuta a mantenere vivo nel cuore quel desiderio ardente di Dio nel quale si esprime l’essere stesso dell’uomo in quanto bisognoso e “capace di Dio”, come direbbe san Tommaso. I giorni che ci separano dal Natale, vissuti con la Chiesa nella sua grande preghiera, fanno rifiorire la sete del Cielo nelle aridità della nostra terra. Come l’antico autore ispirato così anche noi, allora, sentiamo di poter ripetere in verità: “Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi” (Sal 18). L’oggi del mistero della salvezza, nel quale entriamo in virtù dell’atto liturgico, fa gioire il cuore; quell’oggi dona luce agli occhi. E noi rimaniamo custoditi nell’Amore.
La carità
La custodia del cuore esige un nuovo rapporto con il prossimo nel segno della carità, perché nell’Amore si rimane amando. Amando nella direzione indicata dal Signore che, indissolubilmente, lega a sé l’uomo, ogni uomo, fatto a sua immagine.
Inoltrarsi nel mondo della carità significa addentrarsi in un mondo che è senza confini e nel quale ci si sente sempre smarriti, perché mai rispondenti pienamente alle esigenze che da esso provengono. E’ la legge evangelica dell’amore questo mondo che ci rende smarriti: “Amatevi come io vi ho amato”. Vivere la carità significa entrare nel mondo stesso di Dio per condividerne la capacità di amare, per sentirsi strappati dalla propria piccolezza di cuore e gettati negli abissi sconfinati del Cuore amante di Dio.
Forse è proprio da qui dobbiamo partire per ripensare alla carità nella nostra vita e recuperarne la straordinarietà: per avvertire l’impossibilità a viverla con le nostre deboli forze, sentire che rispetto ad essa siamo sempre debitori, capire che nulla è possibile a suo riguardo senza la grazia di Dio. E così evitare che la carità rimanga confusa con un vago e troppo debole sentimento umano che nulla a che fare con le esigenze della carità vera.
In Avvento è forse bene indirizzare l’attenzione e il conseguente impegno di vita verso una triplice dimensione della carità: quella che ci è dato di contemplare nel Figlio di Dio che si fa uomo per noi.
- La carità è spogliazione di sé. Dimenticarsi per l’altro. E’ l’atto interiore del dono radicale di sé che l’apostolo Paolo contempla estasiato nell’animo del Signore: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7).
Quanto è difficile spogliarsi di sé! Siamo tutti attaccati a una grande molteplicità di beni, materiali e spirituali. Ma c’è un bene a cui siamo avvinghiati con straordinaria caparbietà. E questo bene siamo noi stessi. E, se ci pensiamo bene, è un tale attaccamento che ci impedisce una vita di autentica carità. Ecco perché il tempo che precede il Natale deve trovarci impegnati nella spogliazione di noi stessi, con attenzione e anche sano puntiglio. Solo così l’altro da noi potrà davvero diventare il centro della nostra vita e del nostro amore. Non avere più nulla per darsi totalmente: è questa la sfida della carità che ci interpella. - La carità non conosce misura. E’ celebre la lapidaria affermazione di San Bernardo che, ponendo a se stesso la domanda, risponde per noi a un interrogativo decisivo per la vita. “Qual è la misura dell’amore di Dio?”, si chiede il grande monaco. E risponde così: “La misura dell’amore di Dio è di essere senza misura”. E forse pensava proprio al mistero dell’incarnazione cui è stato ispirato cantore.
Quale differenza rispetto al povero amore di cui siamo capaci! Un amore misurato, calcolato, rattrappito secondo le dimensioni anguste del nostro cuore. L’Avvento è il tempo nel quale mettere le ali alla carità, introducendola nello spazio senza confini del “senza misura”. Dobbiamo lasciarci inseguire, senza scappare, dalle domande che risuonano attorno a noi e che chiedono la nostra presenza, la nostra parola, il nostro gesto di carità. Senza misura, perché solo questa è la misura degna dell’amore di Dio che abita in noi.
E’ stato detto: “Se mancano tenerezza, bontà, dolcezza e amore cordiale, non è carità. Se invece c’è carità, c’è il cuore” (Jean-Joseph Surin, Lettera 234). Mi pare che una certa sovrabbondanza debba riguardare anche una tale dimensione della nostra carità reciproca. - La carità vuole visitare. La Chiesa, all’inizio dell’itinerario dell’Avvento ci mette in ascolto della pagina del Vangelo nel quale Gesù entra in dialogo con un centurione, afflitto per la malattia grave da cui è stato colpito un suo servo. Alla domanda di aiuto del soldato romano fa seguito la parola splendida di Gesù: “Verrò e lo guarirò” (Mt 8, 7).
In queste parole, brevi e bellissime, avvertiamo come l’eco del Cuore di Dio. Visita e guarigione, infatti, sono al centro del desiderio del Signore in riferimento alla vita dell’uomo. Visita e salvezza, se per guarigione intendiamo ciò che non riguarda solo il corpo ma l’intera esistenza umana.
La carità porta con sé il duplice desiderio di visita e di guarigione, di prossimità e di salvezza. L’Avvento deve trovarci con nuovo slancio impegnati nella visita di salvezza ai nostri fratelli. Troppe volte la pigrizia rende insicuri i nostri passi verso l’umanità smarrita! Troppe volte la paura impedisce alla voce di risuonare chiara e di essere annuncio del Salvatore di tutte le genti!
La penitenza
La custodia del cuore richiede la verifica della relazione che teniamo con noi stessi, perché il cuore vive nell’Amore quando fa esperienza di un amore ordinato verso di sé.
Può apparire stridente parlare di penitenza in un tempo di gioia, se pure contenuta, quale è quello dell’attesa del Santo Natale. Tuttavia, come si sa, non esiste autentica gioia che non scaturisca dal riordino evangelico della propria vita. E questo esige penitenza.
Non mi soffermo sulle molteplici forme penitenziali che hanno la capacità di rimettere ordine in una vita altrimenti disordinata. Desidero, invece, andare direttamente alla radice dell’autentico ordine e, dunque, al cuore della vera penitenza.
Per fare questo mi riferisco a un maestro di spiritualità già citato, forse non molto noto eppure particolarmente profondo fino a essere considerato un vero e proprio mistico. Si tratta di Jean-Joseph Surin, un padre gesuita vissuto nella prima metà del 1600. In una sua lettera, indirizzata al padre, confida: “Ho avuto modo tuttavia di accorgermi, nell’esperienza che ho fatto di me stesso, che è un abuso aspettarsi tale disposizione esteriore dalle cose per rivolgersi bene a Dio, e ho imparato dall’esperienza che ogni impedimento che incontro viene soltanto dall’applicazione eccessiva della mia mente, che non è per nulla mortificata, e così ogni cosa è di ostacolo, anche la più piccola; tanto che mi vedo disposto a non cercare altro rimedio per acquisire la pace e la libertà necessarie per gustare Dio se non cercare di rassegnarmi a ogni avvenimento, dominare l’ardore e la veemenza dello spirito che, vivendo nelle cose, si affatica e si tormenta per i suoi stessi desideri e volontà. E’ un sacrificio eccellente che si fa a Dio; con esso l’uomo si libera e si abbandona a tutti i voleri del suo Creatore, che si manifestano attraverso gli avvenimenti e per mezzo dei quali raggiunge una calma tanto grande da poter conversare con Dio senza distrazioni e senza tumulto, e dice quello che la straordinaria Caterina da Genova diceva al mondo: «Mondo, fai ciò che vuoi del mio esterno, ma l’intimo lascialo come è, perché è di Dio, che se l’è riservato per sé, si è rinchiuso dentro e non vuole aprire a nessuno»” (Lettera 37).
Il sacrificio dei propri desideri e della propria volontà in vista di un abbandono più radicale ai voleri di Dio, che si manifestano attraverso gli avvenimenti. Riprendo questo concetto dalle parole di Surin perché mi pare che possa accompagnarci al cuore del suo pensiero e, conseguentemente, al centro di quella forma penitenziale che mi sento di suggerire.
Non c’è dubbio: mettere a tacere il proprio mondo interiore, fatto di desideri, progetti, punti di vista, e disporsi ad abbracciare senza riserve la volontà di Dio è forma eccelsa di penitenza. Ci costringe a rivedere tutta la nostra intimità, a scorgere i fili che indebitamente legano il cuore, a chiamare per nome gli abbagli affettivi che ci stanno sviando. In tal modo l’amore di sé diviene ordinato, ritrova la giusta misura e il corretto orientamento perché vissuto in Dio e nel suo amore.
Fare penitenza, in altre parole, significa sradicare dal cuore ciò che non appartiene a Dio e che lo rende appesantito e fiacco. Ciascuno è chiamato a compiere questo lavoro di purificazione, in modo unico e insostituibile, con coraggio e nella verità, senza inopportune giustificazioni e inutili ritardi. Solo così il cuore rimarrà custodito nell’Amore e, dunque, attento alla presenza e all’opera di Dio nella concretezza della vita.
Forse è opportuno tornare agli albori della fede, quando anche a noi, come ai discepoli della prima ora, è stata posta la domanda decisiva da parte del Signore: “Che cosa cercate?” (Gv 1, 38). Può darsi che nel tempo la risposta a quella domanda sia diventata meno limpida e immediata. Soprattutto, può essere che oggetti diversificati siano venuti a rendere meno evidente l’attesa vera del cuore. A quella domanda, dunque, dobbiamo tornare. Da quella domanda dobbiamo ripartire per trovare di nuovo la freschezza di un anelito il cui approdo pacificante non è che uno solo: Gesù.
Come quando si intraprende l’impresa domestica di rimuovere la polvere da ciò che ormai da tempo giace immobile per ridargli lucentezza e splendore, così siamo invitati a riprendere in mano il cuore, per sottrarlo all’usura dei giorni, delle abitudini, dei piccoli e grandi vizi nei quali è stato irretito, dei compromessi al ribasso che lo hanno indebolito. Ridare le ali al cuore è il compito cui dobbiamo dedicare il nostro tempo di Avvento, perché la sua rotta possa tornare a essere l’unica per la quale un giorno è iniziata l’avventura della sua vita: il Cielo di Dio.
Verso il Natale
Una domanda articolata conclude il nostro itinerario di meditazione. Che cosa sarebbe il Natale senza un rinnovato e più intenso atto di amore davanti alla grotta del Divino Bambino? Che cosa sarebbe il Natale se alla sua venuta tra noi, Dio non venisse davvero riconosciuto, abbracciato e adorato? Che cosa sarebbe in Natale se, in conseguenza di ciò, non cambiasse la nostra vita?
Si dirà: è forse possibile che questa domanda debba riguardare anche noi e non solo il mondo distratto nel quale viviamo? Pare strano, eppure è possibile. Una tale domanda può riguardare anche noi. Perché diventare come quella Gerusalemme, cieca e sorda, impenetrabile al giorno della salvezza, di fronte alla quale Gesù proruppe in un pianto silenzioso e amaro, tristemente è sempre possibile.
Se viene a mancare la custodia del cuore!
Anche noi, infatti, al di là delle parole, possiamo arrivare a Natale senza provare più nulla di fronte alla “grandezza debole” del mistero stupendo che abbiamo di fronte. Dio ha assunto la nostra umanità e quasi non ci stupiamo neppure un poco, e neanche un fremito percorre la vita quasi non ci credessimo per davvero. Come, purtroppo, può essere che non avvertiamo più il venire fedele di Dio nella “carne” delle nostre giornate e che i molteplici aspetti dell’esistenza ordinaria non ci parlino più della presenza e dell’azione di Dio.
Se viene a mancare la custodia del cuore!
La storia della nostra salvezza, nel suo momento culminante, si apre con una parola di profezia e si chiude con una parola di promessa. La parola di profezia è quella di Isaia, nella quale è adombrata la divina maternità di Maria: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele [che significa Dio con noi] (Is 7, 14)”. La parola di promessa è quella di Gesù che si rivolge ai discepoli prima della sua Ascensione: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Una profezia di “compagnia divina” sta all’inizio del mistero dell’Incarnazione; una promessa di “compagnia divina” sta alla conclusione della vicenda terrena del Verbo incarnato. Al centro è il Natale. Da allora non vi è più nulla della vita dell’uomo che non sia trasparenza del volto di Dio che, di volta in volta, assume la forma antica e sempre nuova dell’Amore per noi e per la nostra salvezza.
Ma a questo annuncio che salva la vita possiamo rimanere estranei.
Se viene a mancare la custodia del cuore!