Conferenza – L’accompagnamento dei giovani all’esperienza spirituale

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Conferenza – L’accompagnamento dei giovani all’esperienza spirituale

Giornate di formazione permanente per seminaristi e giovani sacerdoti della Diocesi di La Spezia.

Cassego

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Un racconto evangelico di riferimento
Il punto di partenza della nostra conversazione è un brano evangelico. Si tratta per l’esattezza della pagina del vangelo di Giovanni nella quale è narrato l’incontro di Gesù con i primi discepoli (1, 35-51); incontro, vale la pena di ricordarlo, che vede tra i protagonisti anche Giovanni Battista. Ascoltiamo con attenzione il brano evangelico e poi proviamo a fare qualche riflessione, capace di introdurci nel tema che siamo chiamati a svolgere. Penso che potrà essere sempre utile ritornare su questa pagina del Vangelo per ritrovare le coordinate fondamentali di quell’accompagnamento dei giovani all’esperienza spirituale nel quale siamo chiamati a essere maestri sull’esempio di Gesù.

“Il giorno dopo Giovanni stata ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: ‘Ecco l’agnello di Dio!’. E i due discepoli sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: ‘Che cercate?’. Gli risposero: ‘Rabbì (che significa maestro), dove abiti?’. Disse loro: ‘Venite e vedrete’. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo) e lo condusse da Gesù”.

Sappiamo poi che Filippo, dopo essere stato chiamato dal Signore, annuncia l’incontro fatto a Natanaele. Egli è scettico, ma si convince nel momento in cui incrocia la strada di Gesù. Ed egli, rivolgendo a lui la parola, dice: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”.

Ci soffermiamo su alcune particolarità di questo brano ascoltato e cerchiamo di mettere a fuoco quanto risulta attinente alla nostra riflessione.

Giovanni stava ancora là” (35). Il Battista viene presentato come una figura ferma, immobile. Lo stesso tempo verbale usato dall’evangelista serve proprio a indicare la staticità di Giovanni. Chi si muove, nel corso della scena descritta, è Gesù. Che cosa ci suggerisce il parallelo tra Giovanni fermo e Gesù in movimento? Il Battista è chiamato, evidentemente, ad accorgersi del Signore che passa, a riconoscerlo, ad additarlo ad altri. La sua testimonianza è fondamentale per la trasmissione della fede. La stessa staticità di Giovanni dice, esprime la forza della sua fede e la profondità della sua testimonianza. Come a dire che nell’esperienza della fede c’è sempre, in un modo o nell’altro, una trasmissione personale. E’ la legge della vita della Chiesa.

Applichiamo a noi quanto fin qui affermato. Non è forse vero che anche noi siamo chiamati a riproporre con la nostra vita la testimonianza forte e profonda della fede in Cristo? Non è forse vero che anche noi, come Giovanni, siamo chiamati ad accorgerci del Signore che passa, a riconoscerlo e ad additarlo ad altri? E non è tutto questo, forse, il compito di ogni sacerdote in generale e, in specie, nell’ambito dell’accompagnamento spirituale? Ma per trasmettere è necessaria la saldezza e la profondità dell’esperienza di Cristo. E noi abbiamo questa esperienza di Cristo? O, almeno, ci curiamo di approfondirla ogni giorno? I giovani, ricordiamolo, cercano radicalità, non mediocrità. Soprattutto da noi!

Fissando lo sguardo su Gesù” (36). L’evangelista usa qui un rafforzativo per sottolineare l’intensità dello sguardo del Battista. E’ quello sguardo intenso mediante il quale si vuole arrivare a identificare la verità della persona, a coglierne in qualche modo il segreto intimo. Il seguito del racconto evangelico dirà che l’intento di Giovanni è di fare in modo che l’intensità del suo sguardo si possa trasferire nello sguardo dei discepoli. In altre parole, il Battista desidera trasmettere ai suoi discepoli la propria personale esperienza della verità intima di Cristo. Ed è molto interessante quanto Giovanni subito dopo afferma: “Ecco l’Agnello di Dio”. In questa versione evangelica l’affermazione non comporta anche “che toglie i peccati del mondo”. C’è un significato in questa omissione dell’evangelista? Certamente sì. Ciò che Giovanni vede, con l’intensità del proprio sguardo, non è tanto ciò che il Signore fa, quanto piuttosto ciò che il Signore è. In questo modo non trasmette ai suoi discepoli la funzione di Cristo, ma il mistero della sua persona.

Non ha qualche cosa di importante da suggerirci l’atteggiamento del Battista? A me pare soprattutto in due direzioni. Anzitutto risulta chiaro che è possibile comunicare il mistero di Cristo nella misura in cui di questo mistero si fa esperienza personale intensa. Solo uno sguardo intenso posato su Gesù dona la possibilità di trasmettere la stessa intensità di sguardo ad altri. Gli uomini, e in specie i giovani, non si possono ingannare: capiscono quando gli occhi del sacerdote sono posati con intensità sul quel Maestro che anch’essi vogliono seguire: se è così ricercano la stessa esperienza, ma se non è così prima o poi da noi si allontanano. E fanno bene!  E poi, ciò che costituisce la priorità del nostro annuncio, anche in sede di accompagnamento spirituale, non può che essere Gesù Cristo: a lui dobbiamo condurre quando si affidano a noi, da lui e per quello che è tutti costoro devono rimanere affascinati.

Gesù che passava” (36). Sembra questo un particolare insignificante, ma così non è. Il fatto che Gesù stia passando semplicemente per quella via dice che l’incontro con il Signore avviene per lo più nelle circostanze ordinarie della vita. Proprio lì egli dà l’appuntamento per essere incontrato. E’ forse questo uno degli aspetti più significativi e anche difficili da trasmettere a quanti siamo chiamati a educare nella vita spirituale. Eppure questa vita nasce, cresce e si sviluppa esattamente nella concretezza del quotidiano. Quel quotidiano dal quale anche molti dei nostri giovani sono tentati di evadere, alla ricerca di esperienze emotivamente forti ma durevoli quanto lo spazio di un mattino. E’ decisivo: la persona deve capire che l’esperienza di fede si realizza per lo più nell’ordinarietà della vita affrontata nel segno della fedeltà. Proprio lì Gesù passa e vuole essere incontrato.

C’è un altro elemento del racconto che non deve essere sottaciuto. Gesù passa e va oltre; non si ferma. Come a dire che Giovanni viene superato. Ormai il suo tempo è finito. La scena sta per diventare tutta del Signore. Sappiamo che l’identità tipica della missione del Battista è stata proprio quella di diminuire a fronte della crescita di Cristo. E non è forse questa la missione tipica di ciascuno di noi, sempre e in particolare nell’impegno dell’accompagnamento spirituale? Non è a noi che siamo chiamati a portare quanti ricorrono alla nostra guida, ma al Signore. Sembra così naturale questa affermazione! Ma lo è solo in astratto; perché nel concreto quante volte, più o meno consapevolmente, fermiamo a noi le persone e giovani! Quante volte dimentichiamo che la nostra missione consiste esattamente nel diminuire perché possa crescere nel cuore della persone il Signore Gesù!

E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (37). Ecco la realizzazione, nella vita del Battista, di quanto poc’anzi affermato. In questa affermazione del vangelo penso che ciascuno di noi potrebbe trarre ispirazione per domandare spesso al Signore, nella preghiera, la grazia di ottenere una parola capace di portare a lui, solo e sempre a lui. I giovani non sono nostri, sono di Cristo. Non si sente dire a volte: “I miei giovani”? Al di là dell’uso semplice e innocuo di questa espressione, non può essa anche rivelare un possesso che non deve esistere? San Lorenzo Giustiniani, in modo un po’ forte, a questo proposito, parlava di “furto sacrilego”.

Seguirono Gesù” (37). Ritorniamo per un momento su questa espressione del vangelo. Il verbo “seguire”, nel linguaggio evangelico, non esprime solo l’andare, ma anche e soprattutto l’aderire a qualcuno standogli dietro. Seguire significa condividere la strada e la vita dell’altro, rimanendone dietro. Che cosa costituisce il cuore dell’accompagnamento spirituale? Proprio l’introduzione alla condivisione della vita con Gesù e alla ricerca quotidiana della sua volontà. E’ tutta intera la vita, grazie all’accompagnamento spirituale, che deve rivolgersi a Cristo per trovare in lui nuovi criteri di orientamento, di scelta, di giudizio, di pensiero. E questo il giovane lo deve avvertire: un panorama nuovo si apre davanti a lui, il panorama di una vita che è davvero cristiana, perché vissuta tutta intera nell’amore personale e forte a Gesù.

Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse” (38). Il Signore, per qualche istante, osserva il cammino dei suoi aspiranti discepoli, senza dire nulla. Ci sono dei momenti del cammino spirituale nei quali il Signore sembra tacere e, quindi, farsi lontano. Lo sappiamo bene per esperienza personale. Sono i momenti delle aridità: momenti difficili, certo, ma anche particolarmente preziosi per l’affinamento del cuore. Quante persone e quanti giovani si smarriscono nel frangente dell’aridità! Siamo noi a dover insegnare la pazienza e la perseveranza nel cammino dello spirito. E siamo noi a dover insegnare che stare con Cristo non è e non deve essere sempre e solo gratificazione: non sarebbe questa una forma sottile di egoismo e di ricerca di sé? L’amore è donazione e condivisione della vita anche quando questa sembra non riservare immediata gratificazione. Ma come insegnare questo se prima noi non abbiamo vissuto la stessa esperienza, non stiamo impostando nella logica della donazione radicale la nostra vita?

Che cercate?” (38). Ora Gesù parla e pone una questione molto radicale. Egli costringe i suoi interlocutori a porsi un interrogativo fondamentale. Non dice infatti: “Chi cercate?”. Ma dice: “Che cercate?”. Come a dire: che cosa vi aspettate da me? Perché mi state cercando? Un interrogativo fondamentale, si diceva. Proprio così, perché obbliga a operare un serio discernimento sul motivo che spinge alla ricerca di Gesù. Non sempre i nostri giovani sanno con precisione il motivo della loro ricerca. A volte il motivo è superficiale, forse insufficiente. Pensiamo ad alcuni di questi motivi: il sacerdote è simpatico e bravo, il bisogno di consolazione, la necessità di riempire con qualche cosa la vita, il bisogno di ritrovare se stessi in qualche forma di impegno e di servizio… Si potrebbe andare oltre. Ma non è questo il problema. Il problema vero è essere capaci noi di educare i giovani a trovare, poco a poco, quel desiderio primario e fondamentale che il loro cuore custodisce dentro di sé: il desiderio di Gesù. Perché non dimentichiamolo: Gesù è il grande desiderio del cuore! Come, però, indirizzare a questo traguardo se noi anzitutto non sappiamo dove portare la persona che ci chiede aiuto e consiglio? Non rischiamo a volte di assecondare i falsi motivi, depistando così la ricerca autentica cui il giovane è chiamato?

Rabbì…dove abiti?” (38). Gesù, maestro dell’accompagnamento spirituale, ha indirizzato i due giovani aspiranti discepoli al motivo vero della loro ricerca. La loro domanda, infatti, rivela il desiderio primario di cui si è parlato: il desiderio di Cristo. Il verbo qui usato, “abitare”, dice infatti non tanto l’alloggiare, quanto l’ambiente esistenziale da condividere. In questo senso la parola usata fa eco al termine chiave del vangelo di Giovanni, “rimanere”, termine con il quale l’evangelista indica la comunione intima del discepolo con il Maestro, la condivisione totale della sua missione, la fedeltà perseverante nel suo amore. Il nostro cuore può gioire, nell’impegno dell’accompagnamento spirituale, nel momento in cui la stessa domanda dei due discepoli prende forma sulle labbra della persona che ci è affidata. Questo, infatti, è il momento in cui ci è possibile dire: siamo sulla strada giusta!

Venite e vedrete” (39). Nelle parole che Gesù rivolge ai due giovani c’è insieme un imperativo e una promessa. L’imperativo – “venite” – riguarda la necessità dell’incontro personale con lui, la promessa – “vedrete” – riguarda qualcosa che non è possibile toccare con mano subito, ma che diventerà chiaro strada facendo. Quante volte ci siamo sentiti rivolgere la domanda: “Che cosa devo fare della mia vita?”; “Che cosa il Signore mi chiede?”. La risposta non sta nel continuare senza posa a riflettere su questo interrogativo, ma nel disporsi a vivere con intensità e fedeltà la sequela del Signore. E’ solo intensificando il rapporto personale di amore con il Signore che diventa possibile intravedere la sua volontà e il suo progetto su di noi. “Non stare, allora, a perdere tempo in domande e in turbamenti circa la vita; ma preoccupati di seguire il Signore giorno dopo giorno con sempre maggiore intensità. E così vedrai la strada di Dio”. Questo dobbiamo essere capaci di insegnare ai giovani.

Abbiamo trovato il Messia” (41). Sono queste le parole che Andrea rivolge al fratello Pietro, dopo aver incontrato Gesù. Un elemento nuovo qui si aggiunge a quanto già affermato. Andrea, infatti, usa il plurale: “abbiamo incontrato”. In questo modo insinua alla nostra attenzione un aspetto non secondario del cammino spirituale della persona. Un cammino che è sempre personale, ma mai individuale. E, se individuale, destinato al fallimento. Quante volte abbiamo visto i giovani entusiasti di un’esperienza di fede e poi, col tempo, diventare nuovamente freddi, mediocri, superficiali? Non è forse, almeno a volte, che questo accade perché manca un ambiente, chiamiamolo così, nel quale sia possibile continuare a vivere l’esperienza forte di fede che è stata fatta? In altre parole stiamo affermando che l’incontro personale con il Signore trova conferma e aiuto nell’esperienza della Chiesa, che noi siamo chiamati a fare amare in ogni suo aspetto. Non si rimane con Cristo senza rimanere nella Chiesa e innamorati del suo mistero! Non si può perseverare nella fedeltà al Signore se non si è sostenuti dalla comunione concreta e spirituale che la Chiesa offre ed  è capace di offrire. E anche di questo noi, accompagnatori spirituali, dobbiamo sentire la responsabilità.

Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità” (47). Con questa parole Gesù si rivolge a Natanaele, che fino ad allora ha dubitato della sua identità di Messia Salvatore. Si tratta di una bellissima testimonianza che il Signore dà dell’interiorità di Natanaele. E in tal modo ci è offerto un ultimo elemento di riflessione. Questo discepolo, di cui parla il Vangelo, non conosce inganno, non teme di mostrare con sincerità le sue difficoltà ad avvicinare Gesù, i suoi problemi nel credere a lui. Così egli dimostra la sincerità da cui è animato e anche la disponibilità di fondo che conduce la sua vita. La sincerità e la verità di se stessi e con se stessi. Ecco un altro punto certamente centrale nel cammino dello spirito. Su questa strada siamo chiamati a far camminare quanti si affidano a noi. Non bisogna avere paura di ciò che avviene nel nostro cuore, non bisogna temere nulla. Ciò che bisogna temere è l’incapacità a mostrare quanto avviene nel segreto del cuore, la paura a manifestare gli errori e gli inciampi della vita. Così, un aspetto centrale del nostro compito educativo consiste nell’abituare quanti si rivolgono a noi alla sincerità con se stessi e alla serenità nel saper accogliere quanto di meno nobile può comportare il cammino della vita. Ma, da parte nostra, c’è da sviluppare l’arte dell’accoglienza delicata e paterna: quell’accoglienza che sola dispone il cuore dei giovani alla confidenza e all’intimità.

Una parola conclusiva su questo stupendo brano evangelico riguarda la missionarietà. La serie di incontri che l’evangelista Giovanni propone conosce al suo interno un vero e proprio dinamismo nel senso dell’annuncio: l’incontro autentico con Gesù diventa sempre l’inizio di una passione per l’annuncio della parola di salvezza. Questo stesso dinamismo si deve realizzare all’interno dell’accompagnamento spirituale. Perché se l’incontro con Cristo che lì si realizza è autentico, allora non può che scaturirne l’esigenza della missionarietà. In un certo qual modo a noi è dato i mano un criterio di misura e di verifica dell’accompagnamento spirituale che stiamo donando: e il criterio è esattamente lo slancio missionario che fiorisce nel cuore del giovane affidato alla nostra cura. La relazione di accompagnamento spirituale non chiude mai, se vera, in un cerchio ristretto costituito dai due componenti, ma sempre apre al cerchio ampio dell’incontro con altri e della missione.

L’accompagnamento spirituale
E veniamo ora, dopo aver sostato sul quadro di riferimento evangelico, all’accompagnamento spirituale in senso stretto e ad alcune sue componenti fondamentali. L’intento è quello di offrire alcuni principi chiave e anche di indicare qualche risvolto pratico.

Qualche rilievo introduttivo
Prima di proporre una definizione di accompagnamento spirituale, mi soffermo su qualche rilievo di carattere generale e introduttivo, attraverso il quale mi è caro ancorare l’amore a questa forma di apostolato alla paternità spirituale, vissuta con intensità.

-L’accompagnamento spirituale che noi offriamo è l’espressione di quella paternità spirituale che a tutti è donata come responsabilità al momento dell’ordinazione presbiterale. E’ chiaro che tante sono le modalità attraverso le quali nella propria vita il sacerdote esercita questo dono di paternità. Ma certamente, questa dell’accompagnamento spirituale è una modalità particolarmente espressiva di un cuore che anela a generare anime a Cristo Signore. Come allora non coltivare l’amore all’accompagnamento spirituale? Penso che per ciascuno di noi ritornare al dono della propria consacrazione sacerdotale debba significare ritornare anche al dono di questa particolare chiamata.

-Come ogni dono che riceviamo dal Signore, anche quello della paternità e dell’accompagnamento spirituale conosce l’impegno personale perché questo metta sicure radici e si accresca. Mi è caro, a questo proposito, indicare quel momento apice della giornata del presbitero in cui questo dono riceve sempre nuova linfa e vigore: parlo del momento della celebrazione eucaristica. Non c’è esperienza nella vita del sacerdote che sia più decisiva di questa per la propria crescita nel segno della paternità. Perché? Perché nella Messa non soltanto riviviamo la donazione di amore di Gesù per la vita del mondo, ma addirittura questa forza di donazione di salvezza diventa nostra: il corpo e il sangue che Gesù offre per l’umanità diventano anche il nostro corpo e il nostro sangue. Davvero nella celebrazione eucaristica possiamo e dobbiamo dire con san Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). E con lui vive in me la sua ansia paterna per la vita degli uomini.

-Molte volte si sente dire che manca il tempo da dedicare all’accompagnamento spirituale. Il tempo, nella vita del sacerdote è sempre tiranno, lo sappiamo bene; ma è anche certo che non sempre il tempo lo utilizziamo al meglio ed è anche vero che spesso è questione di priorità. Non sarà che dobbiamo rinunciare ad altro, meno importante e decisivo, per dedicare più tempo all’ascolto e all’accompagnamento personale delle persone e dei giovani? E’ questo il pensiero della Pastores dabo vobis: “I sacerdoti…siano i primi a dedicare tempo ed energie a quest’opera di educazione e di aiuto spirituale personale: non si pentiranno mai di aver trascurato o messo in secondo piano tante altre cose, pure belle e utili, se questo era inevitabile per mantenere fede al loro ministero di collaboratori dello Spirito nell’illuminazione e nella guida dei chiamati” (40). E questo lo affermo anche in rapporto a un tempo nel quale da parte di tutti, e specialmente dei giovani, c’è una grande sete di rapporti personali, significativi e profondi.

-La paternità di cui stiamo parlando, e che trova espressione significativa nell’accompagnamento spirituale, è qualcosa che permea per intero la vita del presbitero. Egli la esercita nell’incontro con le persone, ma anche nella preghiera personale, nella preghiera liturgica, nella dimensione penitenziale della vita…, insomma in ogni aspetto della propria esistenza. Perché, non dimentichiamolo mai, il presbitero è sempre tale, qualunque cosa faccia e in qualunque momento del suo vivere quotidiano. Se questa consapevolezza è viva e vissuta, allora è facile che il cuore del prete faccia esperienza sempre più dell’esigenza di dare forma alla propria paternità attraverso la dedizione all’accompagnamento spirituale.

Una definizione di accompagnamento spirituale
E ora veniamo a una possibile definizione di accompagnamento spirituale, secondo un celebre testo di teologia spirituale: “L’arte di condurre le anime progressivamente dagli inizi della vita spirituale fino alla santità della perfezione cristiana” (Teologia della perfezione cristiana, di A. Rojo Marin, edizioni Paoline, n. 516, p. 976). Consideriamo gli elementi di questa definizione.

-L’accompagnamento spirituale è un’arte. E come ogni arte consiste nella capacità di applicare al caso concreto i grandi principi della spiritualità. Vedremo tra poco le modalità per l’apprendimento dei grandi principi della spiritualità. Per ora ci basti dire che la capacità di applicazione di cui si è parlato passa attraverso il cuore del sacerdote. In che senso? Ascoltiamo in proposito San Giovanni Bosco, che bene si intendeva di accompagnamento e di giovani: “Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte e non ce ne mette in mano le chiavi” (dalle Lettere). Come a dire che quest’arte del cuore la si apprende, ma è anche dono da chiedere al Signore.

-“di condurre le anime”. Facciamo attenzione al termine qui usato: non si dice spingere, ma condurre, indicando in tal modo una certa qual soavità della guida. La persona, il giovane che ci troviamo ad avere davanti deve respirare l’aria della direzione insieme a un clima di grande libertà. Non credo, ad esempio, che sia un bene che l’accompagnatore spirituale cerchi l’accompagnato, se questi per un certo tempo non si fa sentire; o se lo fa, dovrà farlo con una singolare delicatezza e senza nulla togliere alla libertà della persona.

-“progressivamente”. Come la vita in generale, così anche la vita spirituale conosce i propri tempi e le proprie tappe di crescita. In questo senso è sempre grande saggezza usare la cosiddetta legge della gradualità. Che non significa sminuire la qualità della meta che si intende raggiungere, quanto piuttosto organizzare il cammino secondo i tempi più adatti alla persona per raggiungere quella stessa meta. In questo senso il sacerdote non può avere un piano preconfezionato per ogni giovane che si trova chiamato a condurre; e neppure può imporre il proprio itinerario di fede. Ognuno ha una propria storia, ognuno ha una propria velocità di cammino, ognuno ha i suoi tempi. E grave errore è sempre chiedere oggi quello che la persona non potrà che dare solo domani. Ascoltiamo un autore spirituale: “Osservate i pescatori: quando, con l’amo gettato in mare, prendono un grosso pesce e si accorgono che si agita e si ribella, non tirano su subito e in modo inopportuno la lenza, poiché si potrebbe rompere e tutto andrebbe perduto; ma abilmente danno filo al pesce, lo lasciano andare dove vuole. Quando si rendono conto che ha perduto forza e la sua agitazione si è calmata, si mettono a tirarlo su a poco a poco. Allo stesso modo i santi attirano il fratello con pazienza e carità, invece di respingerlo lontano da loro con disprezzo” (Doroteo di Gaza).

dagli inizi della vita spirituale fino alla sommità della perfezione cristiana”. L’affermazione è impegnativa. Soprattutto perché sottolinea come agli inizi di un cammino spirituale ci debba essere quasi un patto tra accompagnatore e accompagnato. E il patto è la santità, cui l’accompagnato aspira e cui l’accompagnatore desidera portare l’accompagnato. Ricordiamo: altre finalità non ci sono e non ci devono essere. Ascoltiamo al riguardo San Giovanni della Croce: “Un direttore che si accontenta di mantenere le anime in una volgare mediocrità e non le stimola incessantemente verso una perfezione sempre più grande, farà loro grande danno e incorrerà in una grande responsabilità dinanzi a Dio” (Fiamma, strofa 3, n. 56).

Quasi a completamento della definizione riportata e commentata, aggiungo tre citazioni che mi pare possano dare ulteriore forza a quanto detto.

“Abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori”(2 Pt 1, 19-20). L’accompagnatore spirituale è esattamente quel profeta la cui parola brilla nell’oscurità fino allo spuntare della stella del mattino nel cuore dell’accompagnato.

“Camminiamo insieme sulle orme di Cristo”. Così la liturgia delle Ore, nell’inno dell’Ora Nona, illustra ciò che senza dubbio costituisce il senso di ogni accompagnamento spirituale: il cammino comune di due persone, il cui unico interesse è rintracciare passo passo le orme del Signore per seguirle in fedeltà e arrivare alla meta della perfezione evangelica.

“I Magi vanno a Betlem e la stella li guida, nella sua luce amica cercan la vera luce”. Così cantiamo all’inno dei Vespri dell’Epifania. Come è facile ritrovare il nostro compito di accompagnatori nella luce amica di quella stella che altro non fa se non indicare il cammino che porta alla vera luce!

Le qualità tecniche dell’accompagnatore
Mi soffermo ora su alcune qualità cosiddette tecniche dell’accompagnatore. Per qualità tecniche, seguendo soprattutto l’insegnamento della grande tradizione carmelitana, intendo la scienza, la discrezione e la chiarezza nei consigli.

La scienza. Ci è dato subito di toccare un tasto non sempre felice della nostra vita presbiterale: il tasto dello studio e della continuità dello studio nel corso della vita ministeriale. Non c’è dubbio che la scienza dell’accompagnamento spirituale la si apprende anche attraverso lo studio: inteso non come semplice estensione della nostra cultura, ma come momento di assimilazione profonda dei grandi temi della teologia, della morale e della spiritualità in ordine alla missione affidataci. Voi sapete che Santa Teresa, dovendo scegliere il direttore spirituale tra un dotto e un santo, dava la preferenza al dotto. Non entriamo nello specifico di questa indicazione, ma certo ci esorta a pensare. Come e quanto studiamo? Sentiamo lo studio come parte integrante della nostra vita di presbiteri?

La discrezione. Con il termine discrezione si è soliti intendere quella prudenza nelle decisioni che è virtù tipica dell’accompagnatore spirituale. Ho parlato di virtù, quindi di una realtà interiore che siamo chiamati ad acquisire; ma è questa anche una virtù soprannaturale, donata a noi dalla grazia di Dio e dal dono dello Spirito Santo.

In quanto virtù umana da acquisire con l’impegno personale non c’è dubbio che la prudenza del consiglio riproponga il tema dello studio; ma qui secondo un’ottica del tutto specifica. Perché qui, come studio, intendo soprattutto quello della spiritualità, di alcune nozioni fondamentali di psicologia e l’osservazione attenta e riflessiva della vita, personale e altrui. A questo proposito quando parlo di spiritualità parlo della lettura meditata di testi che riguardano la vita spirituale e della vita dei santi. Penso che non vi sia scuola migliore di accompagnamento spirituale della vita dei grandi santi. A titolo di esempio, mi riferisco a San Francesco di Sales: la lettura della sua vita e delle sue opere sono una vera e propria scuola di accompagnamento spirituale. E quando parlo di osservazione attenta e riflessiva della vita parlo della capacità che ciascuno di noi ha e deve coltivare di imparare dalla vita propria e altrui le leggi del cammino interiore. Aggiungo un particolare, dettomi un giorno da un professore di lettere e che sempre mi è rimasto impresso: “un sacerdote che voglia conoscere l’uomo nei suoi dinamismi interiori non può non avere familiarità con i grandi autori della letteratura”. Non aggiungo altro: ciascuno rifletta in proposito.

Oltre che virtù umana, la discrezione, si diceva, è anche virtù soprannaturale: e come tale deve essere richiesta nella preghiera. Il Signore, a volte, può richiedere delle decisioni e dei consigli che vanno al di là della semplice prudenza umana: e questo per il miglior bene della persona affidataci. Quale importanza ha, allora, lo stato di grazia nella nostra vita, come stato abituale e sempre in progressione!

E poi, proprio perché virtù soprannaturale, la discrezione è dono dello Spirito. Non dimentichiamo mai che il vero accompagnatore spirituale in ogni relazione di accompagnamento è lo Spirito ed è alla sua guida che ci si deve affidare. Penso che un buon accompagnatore spirituale, in questo senso, non possa che avere un rapporto di grande confidenza con lo Spirito: confidenza espressa in una preghiera assidua e fiduciosa.

La chiarezza nei consigli. Chiudo questa nota dedicata alle qualità tecniche dell’accompagnatore con l’indicazione della chiarezza dei consigli. Che cosa intendo con questo? Anzitutto la precisione e la semplicità del linguaggio: un buon accompagnatore spirituale non deve mai lasciare incertezze o dubbi nell’accompagnato. Ma come riuscire in questo se i primi ad avere incertezze e dubbi sono gli accompagnatori? E poi intendo la sincerità e la franchezza della parola. Può capitare, a volte, che per il timore di perdere la persona accompagnata, l’accompagnatore dissimuli qualche verità, si tiri indietro di fronte alla necessità di mettere la persona davanti alla sua responsabilità, taccia invece di parlare quando parlare sarebbe necessario per illuminare secondo verità la persona.

A questo riguardo, e per concludere, sottolineo la questione del tempo. Quante volte si prolunga a dismisura il tempo dell’incontro nell’accompagnamento spirituale? I grandi maestri in questo campo ci insegnano che il tempo lo si può e lo si deve usare con sobrietà: non è la lunghezza la misura della bontà di un incontro, ma la sua qualità e la sua intensità. Anche perché la lunghezza eccessiva dell’incontro può rivelare ricerche di gratificazioni o incapacità a gestire la propria vita: cose che, anche se con pazienza, devono essere superate, sempre nella logica della crescita della persona.

Qualità morali dell’accompagnatore
Passo ora a considerare le qualità morali dell’accompagnatore. Subito e con una certa brevità vengo a descriverle, almeno alcune.

La vita spirituale personale

Si tratta della qualità morale primaria e indispensabile. Tutti conosciamo bene il principio tomista secondo cui “nessuno dà ciò che non ha”. Bene questo principio si addice singolarmente alla vita spirituale. Come trasmettere la vita di Dio se di questa vita non si ha esperienza personale e intima? Penso, allora, al proprio programma di vita spirituale, penso alla preghiera quotidiana fedele, penso alla propria direzione spirituale. Già, perché, come è stato giustamente detto, “conduce bene gli altri chi è capace di condurre bene se stesso”. L’esperienza personale dell’accompagnamento spirituale è quanto mai importante per essere a propria volta accompagnatori. Se il Signore non è il tutto della propria vita, e questo si manifesta nell’intensità del cammino spirituale, come è possibile che per il nostro tramite diventi il tutto della vita di altri?

La solitudine del cuore
Mediante il celibato il sacerdote è chiamato a vivere lo stato di verginità del cuore. Il celibato, infatti, oltre a disporci nella libertà per la missione, unifica il nostro cuore e tutte le potenzialità della nostra esistenza attorno all’unico Amore. E dalla verginità del cuore dipende la fecondità del ministero. Maria è stata straordinariamente feconda perché assolutamente vergine. Nel piano di Dio la fecondità nella vita di grazia è legata alla verginità del cuore. Quale attenzione, allora, a custodire la solitudine del cuore! A volte sarà faticoso, a volte sarà un piccolo grande martirio: ma l’amore fedele non richiede questo? E ci sarà dato cento volte tanto in fecondità e in paternità. Ma se il cuore non conserva verginità e solitudine come poi lamentare la poca fecondità apostolica?

Bontà e soavità
Afferma San Francesco di Sales: “Si ottiene di più con un’oncia di miele che con un barile di aceto”. E la sua grande figlia, santa Francesca Giovanna di Chantal dice: “A misura che cresco negli anni, vedo chiaramente che la dolcezza è necessaria per entrare e rimanere nei cuori e per far compiere ad essi i loro doveri”. Senza nulla togliere a quanto afferma san Gregorio Magno: “Nell’anima di una buona guida spirituale ci sia insieme la verga della correzione e la manna della dolcezza”. Mi pare che queste citazioni possano bastare per capire il significato dell’inalterabile pazienza che si è chiamati ad avere nella relazione di accompagnamento spirituale.

Distacco nelle relazioni

Quando parla di distacco non intendo parlare di quella freddezza che rende insensibili alla vita altrui. No, intendo tutt’altro. Intendo, cioè, quella virtù importantissima per l’accompagnatore spirituale, grazie alla quale egli è capace di non amare le persone a lui affidate per la gratificazione che questo gli comporta, o per la consolazione che ne riceve, o per una forma di compensazione affettiva a motivo della quale è l’accompagnatore che finisce per avere bisogno della persona accompagnata. Il punto è delicato, anche perché non sempre è facile cogliere all’opera questi meccanismi che invadono il campo spirituale e non poco anche quello psicologico. Certo, la relazione di accompagnamento spirituale deve rimanere tale sempre e, dunque, non deve confondersi con altri tipi di relazione: ugualmente buone ma che, se confuse, non possono che portare conseguenze negative per l’accompagnato e per l’accompagnatore. Il padre spirituale non è un amico con il quale conversare alla pari, e neppure colui che riversa sulla persona da lui accompagnata i problemi della propria vita personale. Il padre spirituale è un padre, e padre deve rimanere sempre. Qualcuno parla di “prestigio” per la persona del padre spirituale. E’ vero: c’è un prestigio da costruire e da difendere, per il bene dell’accompagnamento spirituale. Ricordiamolo bene: la relazione di accompagnamento spirituale non deve essere né diventare una relazione alla pari. Così facendo diventerebbe altro, generando confusioni e danni non sempre del tutto calcolabili.

Portare nel cuore le persone accompagnate

Si racconta nella vita di don Bosco, che egli si addormentasse pensando ai suoi giovani e a ciò che poteva fare per loro, per ciascuno di loro il giorno seguente. Che bello questi esempio di paternità! Il padre spirituale dovrebbe essere sempre così: amante a tal punto delle persone a lui affidate da portarle nel cuore giorno e notte, da pensare a loro per individuare le tappe da percorrere in base ai passi già compiuti, da sostenerli attraverso la preghiera e la penitenza. C’è chi porta nel proprio breviario i nomi di coloro che aiuta nel cammino spirituale, chi invece questi nomi li depone nel tabernacolo, chi di tanto in tanto fa il punto della situazione e programma il da farsi per il futuro… Gli esempi della cura del padre spirituale potrebbero essere molti. Ma ciò che conta è l’amore: quando c’è l’amore c’è poi anche la fantasia creativa che esprime fattivamente e in mille modi l’amore e la cura. Come sarebbe bello ritrovarsi la sera, prima di chiudere gli occhi, a pensare a qualcuno di coloro che seguiamo spiritualmente, per individuare la strada che meglio ci pare condurlo alla santità!

Per concludere
Siamo così giunti alla conclusione di questa nostra conversazione, a me tanto gradita. E per concludere mi è caro pronunciare parole di speranza e di fiducia. Non sono parole di maniera; sono parole convinte e, a mio parere, radicate nell’amore che ci lega in modo speciale al Signore.

Anzitutto. Quando avviciniamo le persone, tutti e in particolare i giovani, non dobbiamo mai dimenticare che prima di noi è stato il Signore a raggiungere il loro cuore. C’è uno Spirito che ci precede, che opera contestualmente a noi, che “dirige i lavori”, se così è lecito esprimersi. Non siamo soli, non siamo mai soli. Penso che sia molto importante per un sacerdote chiamato all’alta responsabilità dell’accompagnamento spirituale conservare nel cuore questa convinzione di fede.

In secondo luogo. Ciascuno di noi, cammin facendo compie degli errori. Quanti ne abbiamo già compiuti, quanti, purtroppo ne commetteremo! Eppure anche questi, nella misericordia infinita di Dio, possono diventare e diventano occasioni di grazia se li riconosciamo per quello che sono (errori o cadute), se nonostante essi ci rialziamo con fiducia senza ripiegamenti sterili e inutili, se da essi impariamo a migliorare per l’avvenire. Chi di noi, con gioia e gratitudine a Dio, non può dire di essere stato istruito anche dagli errori della propria vita? Così grande è nostro Signore!

Con questo davvero termino, chiedendo per me e per voi tutti al Signore di essere sempre più affascinati dal lui, per essere capaci di trasmette sempre e dovunque con la nostra vita la bellezza di essere e andare con lui nel cammino dell’esistenza.