Conferenza – Legge naturale, positiva e divina

Home / Conferenze / Conferenza – Legge naturale, positiva e divina

Conferenza – Legge naturale, positiva e divina

Incontro con il Serra Club di Genova – Nervi.

Genova, Conferenza.

[bws_pdfprint]

 

L’argomento che mi è stato affidato per questo nostro incontro è delicato e impegnativo; certamente interessante e ricco di fascino. Delicato e impegnativo perché presenta problematiche molto complesse e dibattute. Interessante e ricco di fascino perché a partire dalla tematica del rapporto tra legge naturale, positiva e divina è possibile definire non solo l’identità più nobile dell’esperienza giuridica, ma anche la grande dignità di ogni essere umano.
Ne sono convinto!
E me ne sono convinto sempre di più approfondendo, per motivi di studio e di insegnamento, le tematiche giuridiche sia di ordine canonico che civile. Il problema del diritto è un problema profondamente umano: così dal modo di intendere il diritto consegue il modo di intendere l’uomo, come dal modo di intendere l’uomo consegue il modo di intendere il diritto. L’intreccio è inevitabile e anche vitale, per l’uno e per l’altro dei due termini del problema, per il diritto e per l’uomo.

Ecco, allora, ciò che più mi sta a cuore osservare insieme a ciascuno di voi questa sera, a inizio della nostra conversazione. Ecco ciò che costituirà l’orizzonte di riferimento per quanto diremo: quando parliamo di diritto non intendiamo solo o soprattutto l’insieme delle leggi e delle norme che regolano la vita dei singoli e delle comunità umane. Intendiamo prima e soprattutto quella dimensione fondamentale della persona umana, che si chiama giustizia e tensione mai appagata a conseguirla, senza della quale l’uomo non è più compiutamente se stesso. In questo senso le leggi, ogni legge, ha davanti a sé una duplice e per certi versi drammatica prospettiva: quella di essere espressione autentica e vitale dell’insaziabile ricerca di giustizia che caratterizza il cuore umano; oppure quella di  tradire questa stessa insaziabile ricerca. Ma se nel primo caso la legge, ogni legge, conserva la propria dignità di appartenente al diritto, nel secondo caso la legge si può ancora chiamare a pieno titolo diritto? Mi pare di poter affermare con determinazione di no: perché una legge che non sia giusta non merita e non può meritare il nobilissimo titolo di appartenente al diritto. E’ sempre valido l’antico adagio: “ius quia iustum”. “Ius quia iussum” non solo non basta: può addirittura divenire una vera e propria ingiustizia capace di dare sostengo alle peggiori violenze e prevaricazioni dell’uomo sull’uomo, della comunità sulla comunità.

Mi pare chiaro, di conseguenza, un’acquisizione di base. Una cosa è parlare di diritto, di legge come del fenomeno giuridico nei suoi elementi strutturali e fondanti; altra cosa è parlare della molteplicità delle leggi, come dato giuridico che esprime quel fenomeno giuridico generale, senza esaurirlo ed essendone radicalmente relativo.

Ma non voglio anticipare le tappe di quanto andrò via via affermando. Ciò che ora mi è caro porre all’attenzione di tutti è la “radicale” dimensione umana del diritto e, insieme, la sua grande dignità; dignità che non può certo esaurirsi in singole e semplici leggi dettate dall’autorità, chiamata a legiferare in un preciso momento storico. Detto questo mi propongo di soffermarmi, se pure senza dilungarmi troppo – non è questo il luogo e non vi è il tempo per farlo -, su tre grandi questioni. Dapprima quella relativa alla necessità di una filosofia del diritto; poi quella relativa al significato dei termini legge naturale e legge positiva, al loro rapporto reciproco e al riferimento che esse hanno con la legge divina; infine la questione della fondazione teorica dei diritti umani.

 

La necessità della filosofia del diritto
La nostra è un’epoca profondamente segnata da una grave crisi di valori anche a motivo della netta prevalenza dei fatti nell’interesse generale. Che cosa intendo dire. Intendo dire che ad avere peso, nel contesto culturale contemporaneo, spesso non è tanto il “dover essere” quanto l’essere. E questo sia per quanto riguarda la persona, come anche le molteplici realtà umane e quelle legate, in un modo o nell’altro, alla vita dell’uomo. Di conseguenza ciò che sembra importare di più oggi è la realtà immediatamente percepibile e utilizzabile delle cose, ma non il perché delle cose. Pare non esserci spazio, o se c’è glielo si dà in misura molto limitata, per la domanda di senso sulla realtà: perché è e perché è così?

Si tratta di un fenomeno esteso, capace di interessare quasi per intero l’esperienza della vita umana. A noi, nel contesto di ciò che andiamo dicendo, non interessa entrare  nelle motivazioni di un modo di sentire e di pensare che, forse, a volte, ci riguarda tutti. A noi interessa piuttosto sottolineare come questo stesso fenomeno interessi da vicino il campo del diritto, assumendo il nome ben noto di positivismo giuridico.

E’ d’obbligo la domanda e la relativa risposta.
Che cos’è il positivismo giuridico?
Si tratta di una corrente di pensiero che ormai da molto tempo è dominante nel panorama giuridico. Ma, mentre in passato il suo predominio è stato soprattutto teorico e legato al diffondersi del positivismo filosofico, oggi, pur non conoscendo più lo stesso predominio teorico, ancora conserva il quasi totale predominio nell’ambito della pratica giuridica. Di predominio teorico del positivismo giuridico non è più possibile parlare. Perché? Perché una lunga, severa e fondata critica ne ha messo a nudo povertà teorica, incongruenze e infondatezza strutturale. Eppure, nonostante questo, il suo predominio pratico è lontano dall’essere superato. E si addice bene a un’epoca, come la nostra, povera di riferimenti di valore e di certezze radicate nel vero. Noi stessi, forse, senza saperlo, pensiamo e viviamo come dei veri e propri fautori e praticanti del positivismo giuridico. Quando per noi il diritto si esaurisce in un complesso di norme obbliganti e per le quali non ravvisiamo e non ci chiediamo la motivazione, non siamo forse positivisti del diritto?.

Eppure: la domanda  circa il perché delle cose non è domanda radicata nell’essere umano? Non è, quella del perché, la domanda più semplice che ci accompagna fin dalla più tenere età a riguardo di ogni nuovo esperienza di vita? Se solo un poco ci fermiamo a pensare con calma, ci accorgiamo che non è possibile vivere senza “perché” e senza risposta, o tentativi di risposta, ai nostri perché. Ciò che vale in generale per la vita vale anche per quella particolare esperienza di vita che sia chiama diritto.

Ma analizziamo la questione più da vicino. Il positivismo giuridico, nella sua pretesa di non interessarsi al perché del diritto e, dunque, a ogni suo possibile riferimento a valori oggettivi di bene e di giustizia, ha reso il diritto un fatto da analizzare scientificamente, da considerare nei suoi soli aspetti formali, da avvicinare esclusivamente per capire la logica interna ai suoi procedimenti. Dunque, l’ha reso solo ed esclusivamente una questione di leggi, di loro promulgazione e di loro applicazione. In altre parole, l’ha reso una questione relativa al solo legislatore umano. Non è un caso che oggi, nelle università, la materia che porta il nome di “filosofia del diritto” in verità altro non sia che un semplice studio del suo apparato formale. Perché questo? Perché si fa fatica d accogliere una filosofia del diritto vera e propria in quanto studio e ricerca del perché, e si parla solo di una filosofia del diritto in quanto analisi di un fatto che non si può negare perché esiste, ma del quale non si è in grado di dire perché esiste e con quale significato per la vita dell’uomo e della comunità. E’ questa un’altra faccia del relativismo culturale che caratterizza il nostro tempo. Non si ricerca il perché, in fondo, perché molti sono i perché; almeno tanti quanti le persone che si pongono la domanda. Tutti veri e falsi allo stesso modo. Così la ricerca la si considera inutile e destinata a fallire, già in partenza. Per una precomprensione filosofica che appunto si chiama “relativismo”.

Ma perché negarsi l’avventura di una ricerca che non solo è importante ma anche necessaria?
Perché negarsi la gioia di capire il significato più vero di un’esperienza che, pur in diverse modalità, è per tutti di ogni giorno e così vicina alla nostra vita?
E perché non cercare di individuare a partire dal perché i criteri di un diritto autentico e in sintonia con se stesso?
Chi di noi non sente sorgere naturale l’interrogativo: perché questa legge o quell’altra?
Perché dare l’assenso alla norma giuridica? E ancora di più: perché il fenomeno giuridico nell’esperienza storica dell’uomo?
Perché tanta varietà di leggi all’interno delle diverse culture, ma anche la presenza costante e universale del fenomeno giuridico?
Non sono domande su cui si possa passare indifferenti. Sono domande che devono appassionarci: per capire meglio il diritto, per capire meglio noi stessi, per dare forma a strutture giuridiche più rispondenti non solo alla vocazione intrinseca del diritto, ma anche e soprattutto alla dignità della persona umana. In realtà questa è la nostra convinzione, e vorrei trasmetterla con grande forza di convincimento: che il diritto non è solo una costruzione dell’uomo, ma un vero e proprio dono fatto all’uomo perché se ne serva per il proprio bene e per il bene del vivere in società. Diritto, allora, non è soprattutto fare leggi e norme, osservarle e infrangerle, dare forma a sistemi giuridici e riformarli. Certo, è questo, anche questo. Ma è prima ancora e più in profondità accogliere qualcosa che ci è dato, scoprirlo nelle strutture del proprio essere umano, leggerlo, capirlo e poi, solo poi, esprimerlo in leggi, norme, sistemi giuridici corrispondenti alla persona, alla sua dignità, alla sua vocazione stupenda a essere uomo e uomo nel contesto del vivere sociale.

 

Legge naturale, legge positiva, legge divina
Mi pare chiaro che, alla luce di quanto affermato fino a questo momento, per noi pronunciare la parola “diritto” non vuol dire esaurirne il significato nel suo semplice risvolto legislativo. Vuol dire, invece, riconoscere diversi piani del fenomeno giuridico: piani all’interno dei quali il fenomeno giuridico si sviluppa e trova il vero senso del proprio esistere. Di quali piani stiamo parlando? E’ lo stesso titolo dell’argomento che mi è stato affidato a ricordare l’esistenza di questi diversi piani del fenomeno giuridico: “Legge naturale, positiva e divina”.

E’ bene, per una migliore comprensione del discorso, iniziare da una definizione dei tre termini indicati, partendo dal piano della legge positiva. Quando parliamo di legge positiva intendiamo esattamente quanto già affermava San Tommaso: “Un’ordinazione della ragione al bene comune, promulgata da chi ha il governo della comunità” (Sum. Theol., I-II, q. 90, art. 4). La funzione della legge positiva, o diritto positivo, infatti, è quella di dirigere le azioni degli uomini secondo ragione in vista del bene comune. Così considerata, la legge positiva ha in sé tre caratteristiche fondamentali: anzitutto quella di essere originata da chi ha la cura della vita di una comunità; in secondo luogo quella di essere ordinata al conseguimento del bene comune; infine quella di essere un “ordine della ragione”.

A partire dalla terza caratteristica appena menzionata possiamo passare al piano successivo del fenomeno giuridico: quello della legge naturale. Infatti, dire che la legge positiva è un ordine della ragione significa affermare esattamente che la ragione dell’uomo è chiamata a leggere in sé i contenuti della norma positiva che deve essere promulgata. Proviamo a esplicitare un poco la definizione che Tommaso dà di legge positiva. La si può rendere così: “Un ordinamento della ragione che determina le cose indeterminate dalla legge naturale, ma consone a questa, diretto al bene comune e liberamente promulgato da coloro che hanno cura della comunità”. Ecco, allora, la relazione tra legge positiva e legge naturale. Ed ecco una possibile definizione di legge naturale, che altro non è se non la regola della ragione che comanda le azioni necessarie e vieta quelle che impediscono all’uomo il conseguimento del suo proprio fine. In altre parole, quando parliamo di legge naturale intendiamo parlare di quella legge che è rispondente alla natura dell’uomo: dove per natura si intende ciò per cui l’uomo è quello che è e ciò che l’uomo è chiamato a divenire. Così legge naturale altro non è se non la legge del nostro essere uomini.

Compiamo un passo ulteriore e portiamoci al terzo dei piani individuati: quello della legge divina. Tradizionalmente si afferma che la legge divina è duplice nella sua manifestazione: positiva e naturale. In quanto positiva, essa è quella che Dio ha dato agli uomini per mezzo della Rivelazione, così come ci è consegnata nell’Antico e nel Nuovo Testamento. In quanto naturale, essa si configura come partecipazione all’uomo del pensiero stesso con cui Dio governa l’universo. Solo per inciso, è importante dire che la legge divina positiva è di fondamentale importanza per meglio conoscere la legge naturale. L’uomo ferito dal peccato, infatti, si ritrova a volte incapace di vedere con piena luce i contenuti di quella legge di natura che è pienamente corrispondente alle esigenze della propria umanità. Per fare un esempio: è chiaro che i comandamenti, come legge divina positiva sono un grande aiuto nella ricerca che l’uomo fa in sé per individuare quella legge che gli è naturale perché esprimente la sua dignità di persona.

Così, se pure in breve e schematicamente, il fenomeno giuridico risulta dall’intreccio vitale di tre piani, che sono tra loro complementari e dipendenti. C’è una legge divina, quella che corrisponde al senso ultimo di tutte le cose, che Dio partecipa all’uomo. In questo senso parliamo di legge naturale come di una legge che è intimamente legata alla struttura della persona e che la persona stessa, grazie alla propria ragione, è chiamata a scoprire in sé. Di qui la necessità e l’importanza della legge positiva umana, come legge attraverso cui l’uomo regola la propria convivenza in comunità, cercando di tradurre con fedeltà i dettami che provengono proprio dal suo essere persona e, dunque, dalla legge naturale.

Questo modo di procedere ci porta a contraddire il pensiero giuridico contemporaneo, almeno in alcuni suoi esponenti e in alcuni suoi aspetti largamente diffusi. Mi riferisco al pensare che la legge positiva esaurisca il fenomeno giuridico e che gli ordinamenti giuridici, quali ad esempio lo Stato, esauriscano questo stesso fenomeno giuridico attraverso la formulazione di una molteplicità di leggi. Si tratta del già citato positivismo giuridico. La contraddizione esistente tra quanto affermato da noi e quanto spesso è pensato e vissuto nell’oggi, pur vera, a mio avviso deve essere però stemperata e rivista alla luce di alcuni elementi di rilevanza giuridica che di fatto ormai sono patrimonio comune del sentire contemporaneo. Mi riferisco, a titolo esemplificativo, a due fatti in particolare: il fatto sempre più affermato dei diritti umani e il fatto dell’obiezione di coscienza. Nel momento in cui questi due fatti vengono introdotti nell’ordinamento giuridico di una comunità, questo sta a significare, al di là di quanto si continua a sostenere teoricamente, che la legge positiva non esaurisce il fenomeno giuridico e che l’ordinamento giuridico dello Stato non è in grado da solo di esaurire il più vasto campo del diritto.

Consideriamo più da vicino l’uno e l’altro di questi due fenomeni, che sono tipici dell’età contemporanea.
Comincio dall’obiezione di coscienza.
Si tratta di una possibilità, ampiamente riconosciuta nel campo giuridico, in virtù della quale la persona, facendo riferimento alla propria coscienza e ai valori che la contraddistinguono, rifiuta di osservare una legge dello Stato, anche andando incontro a un’eventuale sanzione. E’ chiaro che la realtà dell’obiezione di coscienza è riconoscibile nella misura in cui si afferma che la legge positiva non esaurisce il fenomeno giuridico, ma ne postula uno più grande e universale. E che cos’è questo fenomeno giuridico più grande e universale se non quella legge naturale di cui si è parlato? Che cos’è questo fenomeno giuridico se non quella legge universale dell’essere uomini in base alla quale la persona sente di contraddire se stessa e la propria dignità osservando una legge positiva? Proprio così: accogliere il fatto giuridico dell’obiezione di coscienza significa accogliere la verità di un diritto che supera il diritto, di una legge che supera la legge: di una legislazione universalmente umana che è prima di ogni legislazione positiva dettata da qualunque forma di autorità umana. Insomma: accogliere l’istituto dell’obiezione di coscienza significa accogliere la visione giuridica per cui il legislatore umano non è l’ultimo e inappellabile referente del diritto, ma solo il mediatore: mediatore di un diritto che lo precede, mediatore che può sbagliare nel suo compito di mediazione e, dunque, mediatore che può essere disatteso nelle sue pretese obbliganti. Ma questa non è la morte del positivismo giuridico?

Vengo al secondo fenomeno di cui si parlava: quello dei diritti umani.
Sappiamo tutti molto bene come quello dei diritti umani sia argomento sempre più all’ordine del giorno: sia all’interno delle nazioni, come anche nei rapporti tra gli Stati e, dunque, nel vasto panorama del diritto internazionale. Oggi, nessuno può esimersi dal fare riferimento ai diritti umani: anche se poi non sempre li si rispetta e non sempre se ne condivide in pieno la formulazione e i contenuti. Ma a parte questo, la realtà dei diritti umani non può essere messa in questione. Ebbene, proprio la realtà dei diritti umani è ciò che più di ogni altra realtà, nell’epoca contemporanea, ha messo in crisi la tradizionale visione positivista del diritto. In che senso? Affermare l’esistenza di diritti umani inalienabili e universalmente riconoscibili significa introdurre una limitazione di sovranità nella vita interna dello Stato e del legislatore umano: che non ha e non può avere l’unica e ultima parola. Infatti, potrà esserci sempre l’appello al diritto internazionale e ai diritti umani, in quel contesto riconosciuti e affermati, per sottrarsi alla pretesa obbligante dello Stato. In parte già è così, in parte ci si sta incamminando sempre più verso questa prospettiva. Non dico che il cammino sia semplice e privo di battute d’arresto, ma è un fatto che oggi questo cammino è stato intrapreso e si configura come stra senza ritorno. Ne consegue che accogliere il fatto giuridico dei diritti umani significa riconoscere un diritto oltre il diritto, una legge oltre la legge, una legislazione universalmente umana che è prima e a fondamento di ogni altra legislazione umana. E non è questo un altro modo per affermare la realtà del diritto naturale o, in altre parole, l’esistenza di una legge dell’essere uomini che va riconosciuta come precedente ad ogni legislazione positiva umana?

A me pare che proprio nella capacità di riconoscere un diritto oltre il diritto stia la grande dignità del diritto stesso, la sua possibilità di essere davvero al servizio dell’uomo e dei popoli, la sua vocazione a essere amato dalla persona umana: che non lo sente e vive più come elemento ostile alla propria vita, ma come alleato per una sua più piena realizzazione umana. O il diritto realizza questa, che è la sua nativa chiamata, oppure perde se stesso e il proprio legame con l’uomo. Rimane, perché non può non rimanere: ma come elemento arido, estraneo all’uomo, spesso rifiutato, sempre a servizio del potere e di chi al momento ha in mano le redini della compagine sociale. Non è più un diritto di tutti e per tutti; è un diritto di pochi per l’utile di pochi. In vero, non si è padroni del diritto, ma servitori. Chi pretende di trattarlo da padrone snatura il diritto. Solo chi vi si rivolge nella logica del servitore gli è fedele e lo fa vivere. E poi: non è entusiasmante per chi opera nel campo del diritto pensarsi a servizio dell’uomo e della società, interprete del dettame che scaturisce dalla profondità della persona umana? E non è ricco di significato, anche per ciascuno di noi, pensare che l’osservanza della legge non è solo semplice obbedienza a chi governa il bene comune, ma fedeltà al proprio essere uomini e garanzia di crescita in umanità individuale e associata?

 

La fondazione teoretica dei diritti umani
Ciò che è stato fin qui affermato ci ha portato sulla soglia di una grande problematica, tuttora aperta nell’attuale dibattito giuridico: mi riferisco a quella circa il fondamento teorico dei diritti umani. Il problema è serio. Perché se i diritti umani non sono fondati teoricamente sulla natura dell’uomo vuol dire che sono il semplice risultato di un compromesso raggiunto da più parti. E, dunque, ad esempio, il diritto alla vita non è tale perché riconosciuto come indissolubilmente legato alla persona umana, ma perché statuito da un istituzione giuridica umana, quale può essere l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Si notino i verbi usati. Nel primo caso ho usato il verbo “riconoscere”, volendo così sottolineare l’esistenza di un diritto, quale quello alla vita, che è indipendente dal fatto che le leggi lo esprimano o no: esiste al di là della legge, perché è proprio della persona e rispondente alla sua dignità. Nel secondo caso il verbo usato è “statuire”: come a dire che il diritto alla vita esiste solo in quanto oggetto di una precisa normativa ad opera di un’istituzione giuridica umana. Si capisce bene quanto profonda e radicale sia la differenza. Nel primo caso il diritto è inalienabile e universalmente valido, indipendentemente dalla legge positiva; nel secondo caso il diritto vale nella misura in cui la legge umana positiva lo stabilisce. In questo modo, il secondo, si farebbe rientrare la visione positivista del diritto proprio nel contesto di quei diritti umani che tale visione hanno contribuito a svuotare di legittimità.

In questa seconda prospettiva si collocano alcuni autori, anche molto noti. Cito tra tutti Norberto Bobbio, convinto positivista in ambito giuridico e assertore dell’impossibilità di fondare teoricamente i diritti dell’uomo. Quale sarebbe, allora, l’unico problema da affrontare in ordine ai diritti dell’uomo? Non certo quello di giustificarli, afferma Bobbio; ma solo quello di proteggerli. Il problema, dunque, non si porrebbe sul piano filosofico della fondazione, ma su quello politico della protezione. Una simile posizione, portata alle sue conseguenze ultime, comporta l’inevitabile relatività storica dei diritti umani. Quelli validi oggi, perché statuiti, potranno non essere validi domani, perché non statuiti. Ma allora, e questa è la grande questione cui mai il positivismo può dare soddisfacente risposta: non esiste un’umanità condivisa nei suoi elementi fondamentali e l’unica protezione possibile per i diritti dell’uomo è una prassi di potenza affidata a chi detiene al momento il potere.

Scrive Sergio Cotta in proposito: “La questione del fondamento è…ineliminabile e, a mio avviso, richiede il riferimento alla struttura ontologica dell’uomo (la sua natura) e la riscoperta del rapporto che con essa ha il fenomeno giuridico. Solo in tal caso è possibile sottrarre i diritti fondamentali  alla contingenza della storia e alla prassi di potenza” (Il fondamento dei diritti umani, in G. Concetti (a cura di), I diritti umani. Dottrina e prassi, Ave, Roma 1982, pp. 645-654). Mi sento di poter abbracciare questa autorevole opinione.

Aggiungo però un particolare. Il fatto che non tutti riconoscano la necessità di ricercare un fondamento teoretico ai diritti umani, come anche il fatto che non tutti condividano lo stesso fondamento della natura umana, non impedisce agli uomini di raggiungere un ampio consenso pratico nella determinazione e nella difesa di tali diritti. In questo senso, mi pare di poter affermare che ciò che non si riesce a condividere con altri sul piano della riflessione, e cioè che è la natura umana a fondare i diritti umani e a renderne obbligante il rispetto, lo si riesce ad affermare a partire dalla prassi. Che cos’è che permette agli uomini, pur animati da prospettive teoriche differenti, di raggiungere il consenso su alcuni grandi diritti fondamentali dell’uomo? Null’altro se non la natura umana, che tutti accomuna e nella quale tutti ci ritroviamo. Così, quella legge naturale che non sempre viene affermata e riconosciuta nella teoria, è poi dimostrata nella pratica della vita. Diceva San Tommaso che i principi fondamentali della legge naturale non si conoscono per deduzione, ma per intuizione; come a dire che l’uomo non ha bisogno di ragionare a lungo per cogliere le esigenze umane fondamentali scritte nella sua struttura personale. Queste esigenze le intuisce, le riconosce come proprie con immediatezza. E questa, mi pare, è la ragione per la quale l’umanità finisce per ritrovarsi unanime intorno ad alcune imprescindibili diritti che riguardano l’uomo.

Ma, allora, dalla prassi ritorniamo alla teoria: per dire che c’è una natura che fonda i diritti dell’uomo, che lo si riconosca o no; che c’è un diritto naturale che sta a fondamento del diritto positivo, che lo si riconosca o no; che c’è una legge universale che è oltre la legge particolare e positiva, che lo si riconosca o no. Un altro modo, questo, per dire ancora una volta, come il diritto sia chiamato a ritrovarsi nella tripartizione: legge divina, naturale e positiva, e come il diritto umano possa ritrovare se stesso solo nella misura in cui riconosca un diritto che è oltre, che è prima e che ne è il sicuro fondamento. E in questa convinzione riposa la nostra speranza per il futuro degli uomini e dei popoli. Perché la natura comune è garanzia di dialogo, di pace, di rapporti di comprensione, condivisione, fraternità. Perché la natura comune è garanzia di un diritto umano e a servizio dell’uomo. E? vero, allora, che l’uomo e il diritto camminano insieme, che l’uomo e il diritto devono camminare insieme.